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Musica

La musica mi ha salvato quand'ero sull'orlo del suicidio

Mi mettevo nella vasca da bagno—il luogo in cui avevo tentato di mettere fine alla mia vita—e ascoltavo a ripetizione "Heavy Water".

C'è una domanda che spesso è considerata un punto di svolta nelle diagnosi riguardanti la salute mentale, questa: "Hai provato almeno un po' di piacere o interesse nel fare le cose che amavi fare prima?"

Così funziona la depressione: si accumulano appuntamenti con dottori, terapisti, psichiatri, ed ogni volta devi compilare fogli su fogli—come se la tua malattia impossibile da comprendere fosse quantificabile e si potesse risolvere con un calcolo matematico. Domande come quella qui sopra sono utilizzate come barometro per segnalare potenziali miglioramenti o cadute negli abissi della depressione.

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A volte mi viene da ridere quando arrivo a rispondere a quella parte del questionario. Sminuire il processo che ti trasforma in una persona completamente diversa—una persona che guarda alla propria collezione di dischi, alla propria chitarra, al proprio modesto successo come musicista e non prova nessuna emozione, come se non ne avesse mai provate—e ridurlo ad una spunta sembra uno scherzo.

Le due cose più importanti della mia vita—quelle che mi ossessionano praticamente ogni giorno—sono sempre state la musica e la mia salute mentale. Le malattie di cui soffro, l'ansia e il disturbo bipolare, hanno natura ciclica. Come per la maggior parte delle malattie mentali, nemmeno le mie sono ancora conosciute a fondo dalla medicina, quindi tengo sotto controllo le mie emozioni per vedere quando e cosa mi spinge di nuovo a fondo nella mia mania, nella mia depressione, nella mia ansia. Ho dovuto riconsiderare il mio rapporto con la musica in relazione a questi cicli depressivi.

Non mi sorprende che la musica, con la sua infinita varietà di generi, ascoltatori, contesti e possibilità, si inserisca facilmente nella subdola, incomprensibile ragnatela della salute mentale. Uno studio condotto dal Royal College of Psychiatrists ha rivelato che, in combinazione con le cure canoniche, i pazienti che si sottopongono a terapia musicale mostrano "miglioramenti maggiori" per quanto riguarda i sintomi di ansia e depressione rispetto a quelli che si limitano al percorso standard.

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Il viaggio verso la mia diagnosi è stato accidentato, ho dovuto affrontare parecchie incomprensioni (molti pensano che il disturbo bipolare sia di natura genetica, o che sia legato a fattori esterni come periodi intensi di stress o malattie fisiche) e vedere i fondi per la ricerca calare in maniera preoccupante. In ogni caso, quando finalmente mi hanno fornito una diagnosi dopo anni di confusione e frustrazione, ho potuto dare un senso a tutti i miei sintomi.

Il mio umore cambia molto rapidamente, da una settimana all'altra. Passo da periodi in cui medito seriamente il suicidio, mi faccio del male, diventa un problema persino compiere normalissimi gesti quotidiani a periodi in cui mi sento super produttiva e creativa, non sento nemmeno il bisogno di dormire e sono fermamente convinta di ogni cosa che faccio, senza ragionare sul male che potrei procurarmi. A volte non mi sento nemmeno in grado di controllare le mie stesse azioni, come se fossi un attore che segue il copione di un film scritto da qualcun altro—e questo è un meccanismo psichico conosciuto come dissociazione.

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L'effetto di questa malattia sul mio rapporto con la musica è stato destabilizzante. Da una parte, quando ero felice di suonare, scrivere e ascoltare musica, quando queste cose mi rendevano euforica, poteva significare che ero sull'orlo di un picco maniacale—e quella non è felicità, ma un pattern molto complesso di comportamenti sconsiderati e autolesivi, punteggiato da una solitudine estrema. Dall'altra parte, giorni interi senza ascoltare musica, senza provare nulla, sono un segnale di un probabile episodio depressivo all'orizzonte.

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Credo che il mio amore per la musica dipenda da entrambi questi estremi, e forse è per questo che non sono mai riuscita a concepire la musica in maniera indipendente dalla mia condizione mentale. Sono un po' come quei ragazzini tristi che non riescono più ad ascoltare i Bright Eyes perché riportano loro alla mente la ragazza che hanno lasciato alle superiori e che non riavranno mai più. Alcune canzoni, alcune band, sono talmente legate ad episodi della mia malattia che adesso, per me, hanno assunto un volto completamente diverso. L'esempio più eclatante è Grouper, il progetto solista dell'artista di Portland Liz Harris.

Ho "trovato" Grouper nel momento forse più buio della mia malattia. Non mi stavano curando in modo corretto, non avevano centrato la diagnosi, e il risultato era che le medicine che assumevo stavano accentuando i miei sintomi, anziché alleviarli. In quel periodo consumavo musica in maniera frenetica, oltre a salire quasi ogni sera sul palco ubriaca marcia. Mi sentivo pure una bassista di Cristo—anche se suonavo soltanto da un paio di mesi. Mania.

E in quel momento mi sono imbattuta in Grouper. Sono rimasta sorpresa da come suonava, nuova e gentile allo stesso tempo, ma la mia malattia mi distraeva a tal punto da non riuscire a sentirmi coinvolta emotivamente nemmeno dalle band che già adoravo, che di solito suonavo ossessivamente. Quel momento della mia malattia è stato molto caotico. Tutto si ripiegava su se stesso—ero ingabbiata nelle maglie di un disordine alimentare e passavo da momenti in cui mi stavo isolando dai miei amici, dalla mia famiglia e dalla persona con cui stavo a pericolosi vortici di manie autodistruttive per cui bevevo in maniera eccessiva (cosa non molto assurda quando suoni in una band) e mi procuravo incontri sessuali di cui mi pentivo immediatamente (purtroppo, come succede a molte donne "vulnerabili" e "instabili", alcuni di questi incontri non erano propriamente consensuali). Sentivo di aver perso il controllo di me stessa e di ciò che mi circondava. Era tutto un casino che mi dava il voltastomaco, giorno dopo giorno.

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Poi tutto si è fermato.

Dopo aver tentato il suicidio sono tornata a vivere coi miei genitori, passavo gran parte del tempo in bagno—un luogo privilegiato per la depressione, quantomeno per me. La mia condizione psicologica successiva al fallimento del mio tentativo estremo era talmente assurda che la vasca da bagno—il posto in cui avevo tentato il suicidio—era anche l'unico luogo in cui mi sentivo "al sicuro" (ovvero: ferma, sola). Mettevo il computer su una sedia e, con la mano asciutta, schiacciavo play alla traccia "Heavy Water" dell'album Dragging a Dead Deer Up a Hill di Grouper, e rimanevo immobile nella vasca più che potevo.

Il testo si sposava perfettamente con la stasi emotiva di quel momento. “This feeling doesn’t go away / I feel it moving through me”—quelle parole, per me, diventarono un simbolo di quella vecchia sensazione che ancora non mi lasciava in pace. Nella vasca da bagno pensavo molto spesso al suicidio—non con l'urgenza che mi aveva portato a tentarlo, ma come una possibilità distante e confortante. “In dreams I’m moving through heavy water… I’d rather be sleeping,” cantava languidamente Liz Harris. Così. Mi sentivo così. In quest'inerzia asfissiante, però, c'era anche un barlume di speranza. Da quando ho iniziato a ossessionarmi con Grouper, ho capito che per me lei rappresentava il sollievo di toccare il fondo: riconoscere il baratro può darti modo di aprirti un varco per risalire. Come quel ritornello che emerge dalle acque pesanti: “Love is enormous / It’s lifting me up.” C'era ancora speranza.

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Quel pezzo non mi ossessionava in maniera maniacale come mi era successo con altri in precedenza, era proprio l'unica cosa che riuscivo ad ascoltare. Ogni musica che precedeva il mio incontro con Grouper si portava dietro significati troppo pesanti: rappresentava la mia vita precedente, l'onta del mio tentativo mal riuscito di morire. I pezzi felici non erano nemmeno tristi, non erano niente. Niente era niente. “Heavy Water” era qualcosa. Anzi, era l'unica cosa.

Non ascoltavo quel pezzo per stare meglio. All'inizio non mi sembrava nemmeno realistico poter stare meglio. Ma dopo qualche mese passato chiusa in bagno e soprattutto dopo essere passata a cure più appropriate, "Heavy Water" iniziò ad acquisire un nuovo significato.

Per la prima volta—a parte alcune esperienze con la mia prima piccola band—ho iniziato a scrivere musica completamente da sola. Parte del fascino di Grouper, per me, dipendeva dalla semplicità delle sue canzoni. Sapevo suonare veramente poco e avevo una vecchia chitarra acustica che era appartenuta a mia sorella. Il fatto di non saper suonare non mi importava molto, però, perché erano due mesi che ascoltavo la stessa canzone, un pezzo così bello e semplice che già mi sembrava mio. Questo, insieme al fatto che Liz Harris è una donna che scrive, suona e registra tutto quanto da sola, mi ha infuso una certa sicurezza. Ai tempi avevo diciott'anni, ma sentivo che da sola potevo farcela. La mia esperienza musicale precedente coincideva col suonare musica scritta da uomini, e spesso mi era capitato che i ragazzi mi dicessero apertamente che non amavano le band in cui cantano ragazze.

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Appena ho messo la testa fuori dalla caverna della mia depressione, ho ricominciato ad appassionarmi alle cose che mi interessavano quando stavo meglio. Riuscire a scrivere, per me, è stato come sfondare una porta—non solo in termini creativi, ma proprio per il mio benessere. Ho scoperto che scrivere testi ha un enorme potenziale catartico.

Questo cambiamento è stato importantissimo per me. Ha marcato quello che sentivo essere—so che suona un po' scontato—un nuovo inizio per la mia vita. Improvvisamente riuscivo di nuovo ad amare la musica, ricominciavo a fare concerti, a crescere artisticamente. Grouper non era più il mio unico interesse, per una volta avevo una spinta positiva.

Ascoltare “Heavy Water,” cosa che ancora faccio, spesso, non riporta più alla mente il mio tentativo di suicidio. Ci sono molte canzoni che non riesco ad ascoltare, per ragioni diverse, così tanti pezzi che veicolano immediatamente scintille di euforia pericolosa, ansia o anche semplice tristezza. “Heavy Water” però è sopravvissuta, in qualche modo, proprio come me. Quel pezzo per me ha avuto un tale potere che ancora ne parlo con estremo rispetto, oltre che con una certa soddisfazione.

Quando ho delle ricadute—mi capita spesso—sento che scivolo via dalla musica. Suonare dal vivo è ancora motore di un'ansia quasi insormontabile, e scrivere è qualcosa che va e viene, a seconda di come mi sento. La musica rimane il mio barometro, il mio sostegno e la mia guida ogni volta che affronto le sfide che la mia condizione mentale mi mette davanti. Il suo potere—positivo e negativo—è talmente grande che molti di noi non sarebbero in vita se non esistesse.