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Colonnadestrizzati

Perché il giornalismo digitale in Italia fa schifo? Lo abbiamo chiesto ad Alessandro Gazoia, che ha scritto un libro a riguardo.
Alice Rossi
Milan, IT

Via L'ego del giornalista

Il 23 marzo 2005, su Repubblica.it veniva riportata la storia di una ultranovantenne che, quasi cieca, aveva guidato un’equipe di scienziati alla scoperta di un nuovo dinosauro. Lo stesso giorno del 2013, più o meno a metà pagina dello stesso sito, ma un po’ più a destra, campeggiava la notizia della scoperta di un nuovo pterosauro da parte di una bambina di nove anni. Oltre ad allarmarmi per quanti altri dinosauri debbano ancora scoprire prima che mio cugino possa considerarsi soddisfatto della sua collezione, la consultazione a caso della wayback machine ha suscitato in me una serie di interrogativi sul giornalismo digitale. Per esempio: al di là dei notevoli cambiamenti grafici di Repubblica.it, è possibile che l’elemento più interattivo rispetto al 2005 sia la possibilità di disattivare l’indicatore TEMA CALDO? Usare l’espressione “web 2.0” ogni due per tre ti rende un giornale 2.0? Perché le foto del Papa scelte per la home sono di quelle che fanno venire male agli occhi? E soprattutto, quanto pagano effettivamente gallery e colonne di destra?

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Ne ho parlato con Alessandro Gazoia (aka jumpinshark), che a sua volta ne parla in un ebook recentemente uscito per minimum fax col titolo Il web e l’arte della manutenzione della notizia.

VICE: Nel tuo libro proponi una sintesi a più livelli sul giornalismo digitale. Iniziamo da qui, allora: come sta avvenendo la transizione verso l’online in Italia?
Alessandro Gazoia: Innanzitutto, bisogna fare una distinzione tra chi parte dalla carta e arriva sul web e chi nasce digitale. I nativi digitali sono in un certo senso avvantaggiati, perché liberi da tutti quei processi che stanno dietro ai giornali di carta. In questi ultimi, invece, c’è un po’ di ritardo rispetto ad altre realtà estere, perché solo adesso la redazione online e quella tradizionale si stanno integrando. Questo processo è durato anni, e nel frattempo l’idea di tenere separate le due cose è stata superata dalla realtà: ormai il digitale è una dimensione assolutamente centrale.

Eppure, confrontando i vari dati di vendite e quelli Audiweb citati nel libro si nota un certo scarto. Per dire, su carta la Stampa non è tanto distante da Repubblica, mentre online è visibilmente più indietro.
In Italia c’è una situazione piuttosto particolare, perché su digitale Repubblica e Corriere hanno un duopolio: sono molto più forti rispetto alla concorrenza. Hanno avuto talmente tanti anni per costruirsi una posizione forte, quando la concorrenza non era agguerrita, che adesso vivono un po’ di rendita.

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È possibile che in questa differenza abbia un ruolo anche il fatto che generalmente in rete ci si schiera? Sempre citando i dati Audiweb, in periodo di primarie 2012 la Stampa non ha guadagnato. Repubblica invece ha gli appelli, i manifesti, le firme esaltate fino a diventare notiziavedi Saviano, che da autore dell’articolo diventa titolo stesso, o i Zucconi!, Giannini!, Merlo! sparati nei sommari. E poi c’è un esempio come il Fatto Quotidiano, che online va abbastanza bene.
Quello dello schierarsi politico più o meno chiaro dei giornali è un tema grande e con tante sfumature. Come dici giustamente tu Repubblica e Fatto sono schierati—si parla addirittura di “partito di Repubblica.” Anche il Fatto, sebbene magari non possa essere incasellato in un movimento politico, ha un orientamento chiaro, e soprattutto è chiaro per entrambi, essendo cosa molto italiana, con chi non stanno. L’antiberlusconismo ha rappresentato una leva potente per tutti e due. Ma dal mio punto di vista anche un giornale come la Stampa è molto schierato, sebbene con modi diversi. Però, per tornare al tuo discorso, è sicuramente vero il fatto degli appelli. Allo stesso modo, il Fatto ha costruito moltissimo del suo successo sul continuo rilanciare i contenuti politici forti sui social media, riprendendoli coi blog e creandosi un’immagine forte e subito riconoscibile.

Al di là di questo c’è sempre il problema del sostenersi economicamente. Non tanto tempo fa De Benedetti, editore del Gruppo Espresso, aveva accennato all’introduzione dell’obbligo di sottoscrizione di un abbonamento per la libera lettura delle notizie, ossia un paywall. E lo stesso sembrava possibile anche per il Corriere.
Sì, anche se ora come ora ho idea che questa fase politica sia talmente tanto particolare e prolungata che il famoso annuncio verrà posticipato. Prendi il partito di Repubblica: immaginati alzare un paywall adesso, in una fase politica in cui continui a pompare appelli per il buongoverno in homepage.

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Quindi non seguiranno l’esempio del New York Times?
In un Paese in cui Repubblica e Corriere vanno col paywall rimarranno sicuramente molti altri quotidiani ad accesso gratuito. E se questo verrà adottato funzionerà comunque in formule graduate, con un accesso morbido, in modo da riuscire a fare questa modifica molto delicata anche dal punto di vista culturale. In parte ci stanno già arrivando, con contenuti leggibili solo se acquisti le loro formule a pagamento, ma siamo comunque distanti dal paywall del New York Times. Certamente vedranno diminuire di molto il loro traffico. Però, tra un traffico enorme, gratuito, e quindi monetizzato in gran parte dagli annunci pubblicitari, e un traffico a pagamento e magari un incremento delle vendite del cartaceo, possono starci sicuramente dentro. Altro discorso sul paywall, seppure diverso, si può fare per il Sole 24 Ore, perché è un quotidiano specializzato, letto da economisti e usato nella pubblica amministrazione: se fai una bella offerta hai un pubblico scelto che ti può venire incontro. Altri giornali farebbero molta più fatica, e comunque il panorama cambierebbe molto.

Immagino cambierebbero anche i giornali stessi, però. Come si fa a conciliare una sottoscrizione a pagamento con contenuti come la colonna destra? Perché quella il New York Times non ce l’ha.
Questo è anche un problema culturale, poiché in Italia il giornalismo—soprattutto sul digitale—ha dei forti limiti. Repubblica lo sa, e se farà un accesso a pagamento gli standard di qualità da adottare saranno diversi. Però, di nuovo: il lettore, abituato a un’informazione sul web di un certo genere, saprà cogliere l’innovazione? E sapranno dargliela i giornali? Penso che dopo dieci anni in cui il web italiano si è sviluppato in una certa direzione, anche per i grandi riportarlo su un accesso a pagamento con una qualità alta non sia semplicissimo.

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Sono d’accordo. Ma ci vedo anche un po’ di ipocrisia, in questo atteggiamento (di Repubblica e Corriere su tutti) alla “non faccio giornalismo su queste cose, ma le uso.” Almeno il Daily Mail, che è il quotidiano online più letto al mondo, lo fa con convinzione.
Se tu aprissi due browser uno di fianco all’altro e tenessi a destra il Daily Mail e al centro il Guardian potremmo dire che hai Repubblica, in un certo senso. Poi appunto, anche giornali come il Guardian hanno contenuti tipo il panda o la cosa scherzosa sul calcio, ma non superano mai certe soglie, mentre da noi non si fanno problemi. Su Repubblica mi ricordo le foto di Fabrizio Corona che va a comprare le sigarette “triste in strada da solo” perché si è lasciato con Belen. Ma non è triste e solo, è semplicemente uno che compra le sigarette.

Il Daily Mail invece è la colonna destra fatta a giornale, e dentro ha anche la colonna destra della colonna destra, quel Femail Today soprannominato “sidebar of shame.
Sul Daily Mail non c’è giorno in cui non compaiano i loro principali protagonisti. Su 500 notizie che vengono date quei grossi nomi non mancano mai… Io faccio l’esempio negativo degli articoli su Suri Cruise, che mi disturbano particolarmente. Però il loro modo di fare la colonna di destra è diverso, perché—anche per una tradizione inglese di giornalismo basso—partono dall’idea di creare una storia. E così facendo raggiungono numeri strepitosi. Non li stimiamo, ma se il tipo di giornalismo da fare è quello, loro lo fanno bene, ragionando in termini tecnici.

In Italia l’approccio ragionato mi sembra un po’ carente. Almeno finché si continua a parlare di “popolo di Twitter”, “giro del web” e “boom di click”.
Vero, anche se non credo che poi nella realtà i giornalisti immaginino che esiste davvero un popolo di Twitter. È una convenzione, e si rivolgono al lettore come se fosse su carta. Però appunto viene comodo fare finta che ci sia questa differenza—anche a livello politico, visto che c’è qualcuno che sulla distinzione tra rete e resto del mondo sta costruendo carriere politiche.
Tornando al discorso di prima, da noi abbiamo da una parte il giornalismo serio, e a fianco le cose più improbabili. Non è solo il fatto che sono una attaccata all’altra, ma è anche il fatto che la colonna di destra fa dei numeri molto grandi, quindi in qualche modo lavora per il giornale. Ma è doppiamente sfortunata, perché deve sfornare a getto continuo (quindi senza tempo di stare dietro a verifiche o farsi dei problemi sull’origine della foto). Dal punto di vista del giornalismo è chiaro a tutti che in termini di qualità, proprio all’interno del genere basso, lascia molto a desiderare. Eppure, al momento, se non ci fosse quella cosa lì… Repubblica non si tiene su con le pubblicità nelle pagine viste degli editoriali di Scalfari.

Sì, lui non va a manifestare a petto nudo al seggio di Berlusconi. Nel libro citi anche l’analisi di Vasta, che scompone efficacemente l’idea di divisione tra colonna destra e spazio a sinistra su Repubblica.it. Mi sembra che sempre più spesso lo schema dei titoli, le convenzioni (ft, vd, così come altre espressioni futuriste usate in homepage) e le stesse Vatipics ne siano un esempio.
Il caso del Papa è diverso: non c’è niente che sia più colonna di sinistra dell’elezione del Pontefice, ma è talmente importante che qualsiasi cosa anche solo molto vagamente attinente diventa notiziabile ed entra nel fritto misto. Lo spiega bene Fabio Severo in un pezzo su minimaetmoralia.
Ad ogni modo, continuando ad ammettere nella parte di destra questo “strano ma vero” e a sinistra le notizie serie, in una tradizione italiana dove l’alto e il basso hanno sempre convissuto, alla fine le cose filtrano troppo da una parte all’altra, e questo è un problema per la nostra vita comune. Perché siamo anche il Paese dove storie come la nipote di Mubarak, che negli Stati Uniti andavano su Daily Show e programmi satirici, da noi sono state al centro della vita politica per un tempo lunghissimo. Quindi, in fondo, è la realtà italiana che è molto colonnadestrizzata.

Segui Alice su Twitter: @AlyzHumrah