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Identità

Come ci si veste esattamente da omosessuale?

Dopo le dichiarazioni di Armani, non ho potuto fare a meno di chiedermi come ci si vesta esattamente "da gay".

Il 19 aprile, in un'intervista al Sunday Times, "Re" Giorgio Armani (come lo chiamano tutti gli omosessuali da oltre sessant'anni) ha sentenziato senza possibilità di equivoci che anche i gay sono uomini come tutti gli altri e che dunque anche loro devono vestirsi senza dare l'impressione di esserlo.

Del resto Armani sa esattamente come ci si veste da "uomini al 100 percento", tant'è che nella sua carriera ha vestito da maschi anche le donne e non c'è collezione che non sia accompagnata da foto di corpi maschili del tutto simili alla plasticità e al vigore atletico delle statue del Foro Mussolini a Roma. Ma esattamente, cosa intende Giorgio Armani quando dice che "gli omosessuali che si esibiscono raggiungendo gli estremi, per poter dire 'Ah, lo sai, io sono un omosessuale', questo è qualcosa che non ha nulla a che fare con me. Un uomo deve essere un uomo"?

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Come ci si veste dunque "da gay"? Forse Armani è rimasto al tempo in cui Stanlio e Ollio erano vestiti di tutto punto per non "apparire" diversi al loro pubblico, un tempo in cui un uomo che indossava abiti tradizionalmente legati all'iconografia femminile era immediatamente una checca, un po' come accadeva a Cary Grant che a May Robson in Susanna! (1938) confessava: "sono diventato gay… tutto d'un tratto!" semplicemente perché sorpreso con una vestaglia con piume di struzzo. Chissà se Armani sa che oggi sono sufficienti dei risvoltini ai pantaloni per beccarsi del finocchio.

Non bisogna per forza essere Ludwig Wittgenstein per ponderare l'impossibilità linguistica nel definire concetti come "normalità" ed "eccentricità", ma è altrettanto facile cadere vittima degli stereotipi della normalità dei costumi che proprio uno stilista dovrebbe combattere.

Il lavoro di alcuni artisti, showmen e attivisti sul tema dell'identità ha fatto progredire di milioni di anni la cultura pop; personaggi come Jack Smith e Leigh Bowery o Derek Jarman (giusto i primi che mi vengono in mente) hanno progressivamente smantellato ogni etichetta moraleggiante per sottolineare il potenziale della diversità. E gli artisti inglesi più queer di sempre, Gilbert & George, hanno fatto di quello stereotipo del British attire una caricatura.

Certo, è vero che molti ragazzi e uomini gay (come ad esempio chi scrive) non trovano così affascinanti le rappresentazioni del collettivo omosessuale durante il Gay Pride e altre iniziative, ma in generale, oggi, i costumi del mondo gay sono radicalmente cambiati. Se Giorgio Armani si facesse aiutare dal nipote ad aprire un profilo Grindr si accorgerebbe che lo stereotipo-trappola della mascolinità ha invaso la scena: il vigoressico, la "barba da etero", la ricerca di partner straight acting, la sudditanza a immaginari di generi musicali (peraltro dichiaratamente ostili all'omosessualità) o sportivi dove vige la regola del "don't ask don't tell."

Insomma, non è il caso di ricordare quanto l'omologazione e l'utilizzo di suddivisioni nette di costume e gender siano nocivi per la società e per la formazione dell'identità, soprattutto, appunto, in un paese come l'Italia—dove adolescenti e ragazzi sono stati presi di mira e spinti al suicidio semplicemente per aver indossato un capo rosa o per aver apertamente manifestato la loro omosessualità.

Giocando con gli stereotipi, ad esempio, personalmente ho sempre trovato decisamente "gay" il look personale di Armani, ma l'ho sempre tollerato, così come tutto il mondo da 60 anni fa con le sue collezioni.

Thumb via Flickr. Segui Riccardo su Twitter: @ByzantineVampyr