Le donne di Olivia Arthur

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Le donne di Olivia Arthur

Olivia Arthur ha passato diversi anni a fotografare le donne sui confini tra Europa e Asia, ma i suoi progetti non hanno nulla a che fare con la sottomissione.

Il rivoluzionario lavoro di Olivia Arthur sulle donne dell'Arabia Saudita è diventato un libro nel 2012, col titolo Jeddah Diary. Questo progetto, insieme a un altro più generale intitolato Middle Distance, esamina la vita delle donne sui confini tra Europa e Asia, in società spesso viste come chiuse nei confronti dell'Occidente.

Olivia è diventata membro dell'agenzia Magnum nel 2013, e di recente l'ho intervistata per farmi raccontare come ci è arrivata.

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VICE: Prima di cominciare: come hai fatto a passare dallo studiare matematica ad Oxford al fare la fotografa?
Olivia Arthur: Già, è un bel salto. Lavoravo nel giornale studentesco ed è stato allora che ho cominciato a fare foto. Prima mi piaceva la fotografia, ma solo lavorando lì ho iniziato a prenderla davvero sul serio. Ho vinto il Guardian Student Media Award e ho pensato, "Oh, forse questa cosa può diventare il mio lavoro." La gente cerca una connessione tra la mia laurea in matematica e le mie foto, ma in realtà sono due cose diverse e slegate l'una dall'altra. Alla fine ho capito di essere più interessata al mondo reale che non alle astrazioni.

Dopo aver finito l'università sono andata in India. Niente di che; sono semplicemente andata lì e ho iniziato a lavorare, facendo piccoli servizi fotografici per riviste e giornali, principalmente inglesi.

In che modo pensi che ti abbiano influenzato questi tuoi primi lavori in India?
In India ho imparato a fare la fotografa, il che ha ovviamente influenzato tutto quello che ho fatto da quel momento in poi. L'India è un luogo febbrile, caotico e pieno di colori ed è stato mentre lavoravo lì che ho iniziato a sviluppare le mie foto in un formato più grande, che trasmette molta più calma e staticità. Penso volessi immortalare gli sprazzi di quiete che si celano in mezzo a tutto quel caos. Inoltre, per quanto riguarda la scelta dei soggetti, è lì che ho iniziato a focalizzarmi sulle donne.

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Gedda, Arabia Saudita, 2009. Una stampa dell'immagine è stata rifotografata usando il riflesso della luce per nascondere parzialmente l'identità del soggetto. 

Anche le tue foto dei paria, che documentano la divisione in caste della società indiana, fanno parte dei primi lavori in India?
No. Per scattare quelle sono tornata in un momento successivo, fanno parte di un progetto a cui sto tuttora lavorando. Quando sono stata lì per la prima volta ho realizzato un po' di scatti in Kashmir, però, che sicuramente sono alla base della mia idea di indagare sulla condizione delle donne.

Quando parli dei tuoi progetti sulla condizione femminile, ti stai riferendo al tuo libro Jeddah Diary o a Middle Distance?
Be', Middle Distance è il progetto che è stato più influenzato dalla mia esperienza in India. Dopo essere stata in India mi sono trasferita in Italia, da Fabrica. Volevo iniziare a lavorare a questo progetto sulla condizione delle donne tra Oriente e Occidente. L'idea da cui sono partita era raccontare i confini tra l'Europa e l'Asia, ma ho finito per concentrarmi sulle storie di alcune donne che ho incontrato durante quei viaggi. Questo lavoro mi ha portata anche in Iran e in Arabia Saudita. Anche di questo vorrei farne un libro prima o poi, ma l'esperienza in Arabia Saudita era una parte abbastanza slegata dal resto del progetto e coinvolgeva un numero piuttosto ristretto di persone, ed è per questo che è diventata Jeddah Diary.

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Agli osservatori occidentali, quella saudita appare come una società molto oppressiva, soprattutto per quanto riguarda la situazione delle donne. In Jeddah Diary c'è questo aspetto di chiusura ma anche di relativa libertà. Immagino sia stato difficile far coesistere i due aspetti all'interno del progetto.
Quando ho iniziato a lavorare a questo progetto non avevo alcuna idea di come avrei voluto che venisse fuori, e nonostante questa totale mancanza di aspettative è stato il lavoro più difficile della mia carriera. In certi momenti sono stata a tanto così dal mollare tutto. Ai quei tempi tenevo un workshop di fotografia rivolto alle donne, e questa circostanza mi ha aiutata molto ad entrare in contatto con la società autoctona, ma l'Arabia Saudita non è un posto dove puoi incontrare qualcuno per strada e fotografarlo. Certe cose non puoi proprio farle. In quanto donna però mi è stato possibile essere invitata nelle case delle persone ed entrare così nel loro mondo.

I sauditi sono riservati ma anche molto ospitali. La mia macchina fotografica voleva far entrare nel loro mondo qualcosa proveniente dall'esterno, cosa spesso difficile da accettare. Alcune delle donne che ho fotografato erano davvero entusiaste all'idea che le loro foto venissero pubblicate ma a volte io—dopo avere, ad esempio, incontrato i loro genitori—ho ritenuto che non fosse una buona idea. L'idea di non rivelare l'identità dei soggetti nel libro è stata loro, non mia.

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Gedda, Arabia Saudita, 2009.

Capisco.
È un mondo molto chiuso, e anche se riesci ad entrarci, magari scatti delle foto per poi scoprire che non puoi usarle. Ci sono talmente tante regole riguardo a ciò che puoi e non puoi mostrare, e queste regole hanno così tante sfumature che non appena pensi di aver capito ti scontri con un'altra versione della stessa regola. Diventa davvero facile confondersi.

Nel libro ho semplicemente cercato di mostrare ai lettori il viaggio che ho fatto. Non volevo dire: "in Arabia Saudita le cose vanno così e così," puttosto "in Arabia Saudita A VOLTE le cose possono andare così e così." Questo, quando la gente parla di posti come l'Arabia Saudita, tende a dimenticarselo, e finisce sempre per fare di tutta l'erba un fascio. Per loro o sono tutti molto chiusi e riservati oppure sono tutti molto estroversi e scatenati. In realtà non è così, ci sono vari mondi davvero diversi tra loro e persone che passano dall'una all'altra di queste bolle ermeticamente separate.

In alcuni degli scatti contenuti nel libro hai scelto di oscurare i volti dei soggetti stampando la foto e fotografandola una seconda volta, in modo tale che i visi fossero coperti da un bagliore. Sembra un po' un compromesso, ma da un certo punto di vista mi sembra adeguato all'intento del libro: mostrare quel mondo e le pressioni che esercita su chi ci vive.
Non si tratta di qualcosa di pianificato. Ma sì, in un certo senso enfatizza ciò che cerco di dire. Avevo fatto un sacco di foto e poi mi sono resa conto che non le potevo usare: mi ci è voluto un po' di tempo per capire come potevo fare per risolvere il problema. Dovevo oscurare i volti? O forse era meglio tagliarli fuori dall'inquadratura? Non volevo usare un pennarello nero e far sembrare quelle donne dei criminali. Ci ho messo un po', ma alla fine ho optato per questa soluzione. Penso funzioni: non è molto invasiva, conserva un certo senso di intimità con il soggetto della foto e allo stesso tempo lo mantiene anonimo. Qualcuno lo troverà strano ma sì, penso che contribuisca a spiegare meglio la situazione di quelle persone. La contraddizione tra intimità e distanza.

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Teheran, Iran, 2007. Fatima, undici anni, si prepara a pregare. 

Che differenza c'è tra lavorare con le donne in Iran rispetto a farlo in Arabia Saudita?
Ovviamente sono due nazioni molto diverse. In Iran si sente molto di più l'influenza occidentale: la classe media di Teheran ha una diversa consapevolezza di se stessa ed è molto più in contatto con l'Occidente. Non vivono in una "bolla" come la popolazione saudita. L'Arabia Saudita è un paese giovane; l'influenza occidentale è meno radicata. In Iran tutte le donne che ho incontrato non avevano paura di dire quello che pensavano, erano di gran lunga più decise e sicure di sé.

Inoltre, in Iran il regime è diverso. Lì il vero problema è se la polizia ti impedirà o meno di scattare foto, se inizieranno o meno a vederti come una minaccia e così via. Questo problema è meno pressante in Arabia Saudita; lì la polizia religiosa magari mi obbligava a mettere il velo, ma più per una questione di privacy, e non tanto perché potevo costituire una minaccia. In Arabia Saudita sono le persone stesse a giudicarti, non il regime. E, in materia di fotografia, si giudicano tra loro. Tutti si preoccupano molto di ciò che pensano gli altri.

Ilynskoye, Russia. 2007. Studenti in fila durante l'ora di addestramento militare. 

Pensando a Middle Distance, a Jeddah Diary, al tuo lavoro sul sistema delle caste e sulle particolarità dei luoghi in cui l'Oriente incontra l'Occidente, non pensi che siano tutti legati da un macrotema di fondo? Che ne so, la segregazione magari? O la discriminazione, che sia di genere o di classe sociale?
Non lo so, secondo te c'è una correlazione? Penso di aver iniziato a esplorare la condizione femminile perché ero sopresa o scossa da quello che avevo visto in India—quello che ci si aspettava da loro, il modo in cui venivano trattate. Il mio lavoro sul sistema delle caste è ovviamente una conseguenza diretta del tempo che ho passato lì, quindi credo che le due cose siano in qualche modo legate, ma ognuno dei miei progetti è diverso dagli altri.

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La prima volta che sono stata in India avevo come la sensazione che tutti non facessero altro che parlare di un cambiamento imminente; sono stata lì dal 2003 al 2006, il periodo della "riscossa indiana"—"l'India conquisterà il mondo", e via dicendo. Mi ha molto sorpresa il modo in cui, in un certo senso, le cose non sono cambiate per nulla. Credo che il sistema delle caste sia uno dei motivi. Trovo interessante quel sentire, quella concezione, e il modo in cui anche una volta eliminate formalmente le caste, le persone vengano comunque giudicate in base al colore della loro pelle o ad altre cose. Ecco cosa mi affascina ed ecco perché è un progetto così vasto. È possibile sbarazzarsi di tutti questi complessi di inferiorità e superiorità?

Quindi da questo punto di vista è molto diverso dai miei progetti sulle donne, che non sono focalizzati sulla loro condizione di sottomissione. Io non la vedo così. I miei progetti parlano delle donne e di come si rapportano alle situazioni che vivono. Parlano di loro, non degli uomini intorno a loro. Non dicono: "le donne vengono trattate come cittadine di serie b," sono molto più femminili di così. Parlano di alcune donne, delle loro vite e di come affrontano le situazioni che capitano, sia quelle buone che quelle cattive.

Clicca qui sotto per vedere altre foto di Olivia Arthur.

Ramsar, Iran. 2007. Edranyita, cristiana, in un bed & breakfast sul Mar Caspio.

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Baku, Azerbaigian. 2006. Le ragazze preparano il tè, che sarà consumato dopo la funzione.

Ramsar, Iran. 2006. Una coppia si fa un autoscatto in riva al Mar Caspio.

Istanbul, Turchia. 2006. Preparativi per un matrimonio.

Istanbul, Turchia. 2006. Una donna affacciata.

_Mejvreskevi, Georgia. 2006. Katie studia design a Tbilisi; nel fine settimana torna in paese, dalla famiglia._

Agri, Turchia. 2006. Hediye e le due sorelle non possono uscire di casa.

Gedda, Arabia Saudita, 2009. Ragazze in bici a Durrat Al Arous. Una stampa dell'immagine è stata rifotografata usando il riflesso della luce per nascondere parzialmente l'identità dei soggetti.