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Lo sfratto dei nomadi

Da quando esiste lo Stato d'Israele, abbiamo assistito ai suoi tentativi di espandere sempre più i propri confini, evacuando la popolazione di Gerusalemme est e Cisgiordania. Ora è la volta dei beduini del sud.

Una panoramica del deserto del Negev, nella zona sud dello Stato di Israele.

Da quando esiste lo Stato d’Israele, abbiamo assistito ai suoi tentativi di espandere sempre più i propri confini, evacuando la popolazione di Gerusalemme est e Cisgiordania. Ma anche all’interno dei confini stessi dello Stato, l’IDF, Israel Defense Forces, sta procacciando spazio. Il deserto del Negev è uno dei più piccoli al mondo, circa 13.000 km quadrati, e copre due terzi della Terra Promessa, dal Sinai al Giordano. Costantemente pattugliato e iper-sorvegliato, sono anni che almeno una volta al mese i corpi di polizia arrivano all’alba e cercano di convincere i beduini ad andarsene. Prima bulldozer e manganelli si limitavano a distruggere ogni settimana tende e staccionate dei pascoli lasciando solo carcasse in plastica e stoffa delle tende beduine. Ma per rendere più sistematico l’allontanamento dei beduini dal Negev è stato messo a punto il Prawer Plan, che mette a rischio una delle ultime comunità seminomadi e tribali d’Israele composta da circa 40.000 persone.

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Il 24 giugno 2013 viene votato e approvato, 43 voti a favore contro 40, il piano di ricollocamento degli abitanti storici del Negev, indigeni di questo deserto. Legiferato in tempi record dalla 19sima Knesset, il “piano di ricollocamento” con cui le tribù perdono definitivamente ogni diritto su una terra che calpestavano da secoli è meglio noto con il nome di battesimo del suo creatore, Ehud Prawer. L’alternativa di Netanyahu, qualche anno fa, era il piano E1 (est1), che prevedeva il trasferimento di qualche tribù di Jahalin dell’area C a 300 metri dalla discarica di Gerusalemme.

Ehud Prawer è l’ex generale dell’IDF, oggi senior executive dell’ufficio del primo ministro, incaricato dallo stesso Netanyahu per far fronte al “problema beduino” nel 2009. Nel Negev è stata approvata la pianificazione di quattro mega basi militari: gli investimenti partono da nove miliardi di dollari per il primo centro militare da costruire entro il 2015, che ospiterà diecimila uomini, 2500 tra il personale civile, tre sinagoghe, poligoni da tiro, parco visitatori compreso; gli ultimi finanziamenti governativi stanziati lo scorso novembre ammontano a 18,6 miliardi di shekel, 5,2 miliardi di euro.

“Sarà la terza città più grande del Negev, dopo Sheva e Dimona,” annuncia il colonnello Shalom Alfassy, che programma di liberare tutta la terra necessaria entro il 2020. È stata la banca di Israele, tra i due fuochi della carenza abitativa e i prezzi immobiliari alle stelle, a spingere l’esercito a liberare posto a Tel Aviv, dove i prezzi delle case sono cresciuti del 50 percento negli ultimi 10 anni, costringendo al trasferimento delle caserme e presidi dalla città al deserto.

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Venduto l’armamentario obsoleto ad Ecuador e Sri Lanka, sistemati i carri armati lungo le strade della Terra Promessa, lo Stato Maggiore Israeliano Benny Ganiz aveva già annunciato la riduzione delle unità di terra (5.000 militari in meno), alla luce dei futuri conflitti da combattere con nuove armi, tra intelligence e cupole di ferro. Le prossime mosse della cyberguerra verranno programmate dal deserto percorso da Abramo, a 1.620 km in linea d’aria di Teheran, dove la moglie di Id conduce al pascolo le capre.

Id rolla sigarette con l’unica mano che gli resta, sotto una delle 20 tende dell’accampamento lungo la Route 40. Su come sia rimasto monco si tramandano versioni di verità non verificate–il morso di un cammello, uno scontro con l’esercito, una resa di conti tra clan. Id non risponde mai: si limita a cambiare faccia e restare in silenzio. Quando decide di parlare usa quel braccio monco come il bastone di un predicatore. “Non viviamo qui da anni, ma da secoli. La questione è semplice. Questo è da sempre deserto bedu.”

L’interno di una tenda beduina nel deserto del Negev.

Questo trasferimento “mascherato in modo da far passare il piano come modo per fornire servizi essenziali, non fa altro che perpetuare anni di espropri e discriminazioni: potrebbe costituire un crimine di guerra,” scrive Amnesty. Il Prawer Plan non indica infatti alcun luogo di ricollocazione per le famiglie sotto sfratto da tende e case. Come sostiene Navi Pillar, commissario dei diritti umani per le Nazioni Unite, “li forzano a lasciare le loro case, decimano la loro cultura, la loro vita in nome dello sviluppo.”

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Ci sono dossier e denunce delle ONG pieni di numeri, documentazioni e violazioni quantificate. Per sgomberare e confiscare 800 km quadrati di terra ad oltre 40mila beduini, è stato costruito ad hoc un sistema di scatole cinesi burocratico. Per ottenere rimborsi statali in seguito all’esproprio bisogna dimostrare di ottenere la terra disputata che sarà compensata con un’altra: ma il Prawer Plan non specifica dove. Nel caso improbabile e remoto in cui i beduini saranno capaci di dimostrarlo, riceveranno circa 5mila shekel per dunam (1000 euro), da spendere in un paese dove un metro quadrato di terra costa 150mila shekel, 30mila euro.

Per reclamare le terre bisogna comunque dimostrarne il possesso: la prima volta che i beduini rifiutarono di registrare il dominio di una terra risale a molto prima del 1948. Nel XIX secolo, in epoca ottomana, i clan si opposero per la prima di numerosissime volte alla riforma politica di sedentarizzazione che li voleva trasformare da nomadi a sudditi residenti. “Chi ama il deserto non vuole possederlo”. Id spiega: solo il vento qui impone la sua legge e mescola sabbia, roccia, cambia colore a posizione alle dune. “Come si fa a possedere una cosa che cambia ogni stagione?”

Il precedente storico è la battaglia legale condotta nel 1970 per un altro esproprio: le cause dei beduini, 3.200, furono tutte respinte. Allora le tribù chiedevano indietro 550 mila dunam di deserto: spiegava il comunicato governativo di allora che su quella terra, in base alle leggi israeliane, la maggioranza dei firmatari non aveva diritti. Quello che reclamavano 40 anni fa era il 10 percento del Negev. Di quel suolo, da cui sono sotto sfratto oggi, ne occupano il quattro percento. E questa volta non c’è alcun tribunale a cui fare ricorso: non essendo una legge, ma un piano, il progetto di Prawer non può essere confutato da nessun giudice del paese. Un altro e diverso precedente storico è datato 2005: con la costruzione progressiva della Wine Route, la strada del vino del Negev, vengono legalizzate retroattivamente 20 fattorie israeliane, abusive fino a poco prima, tanto quanto i cosiddetti “villaggi non riconosciuti” beduini.

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Considerati dall’ONU “profughi ambientali”, i beduini vivono in stato di semi stanzialità in 35 villaggi “non riconosciuti”, assenti dalle mappe ufficiali, dove manca acqua ed elettricità, e sui tralicci accessibili solo dai kibbutz e moshavim ebraici, si stendono vestiti da asciugare al sole. Il 74,5 percento dei nomadi, che il generale Moshe Dayan sognava di convertire in “proletariato urbano”, vive oggi sotto la soglia di povertà in uno dei paesi più ricchi del mondo.

In un discorso vecchio quasi quanto lo Stato Israeliano, Ben Gurion definiva il Negev come la “sfida suprema al vigore dei pionieri sionisti, il luogo che metterà alla prova la creatività del popolo eletto” ed incitava al miracolo “di far fiorire il deserto”: in attesa dell’evento, si è fatto seppellire qui intorno, nel kibbutz Sde Boker. Da quel lontano 1955 ad oggi, la democrazia di cui disse di aver costruito le fondamenta, si manifesta nel pesticida gettato dagli elicotteri sui campi coltivati dalle tribù, qualora lo sgombero via terra non dovesse dimostrarsi efficace.

Il Green Patrol, braccio armato dell’ILA, Israel Land Authority, reclama come sua proprietà tutte le risorse idriche del territorio, e negando l’accesso all’acqua, costringe interi clan allo stanziamento di nelle sette città dormitorio beduine, che detengono il primato di città più povere e ad alto tasso criminale del paese. La strategia di condanna alla stanzialità imposta dall’alto cominciò nel 1979, per decisione dell’allora ministro dell’agricoltura, Ariel Sharon che capì subito come frantumare la comunità dall’interno con una politica chiamata “di pacificazione”.

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Nel 1948 il Negev divenne campo di allenamento per l’aviazione israeliana. Fu allora che la maggior parte delle tribù fu espulsa in Giordania o nel Sinai dal neo Stato Ebraico. Dopo secoli di immutato vagare, erano improvvisamente abusivi nella loro terra ancestrale. Fu il primo esodo beduino: entro i nuovi confini tracciati dalla guerra rimasero in 12mila, sgomberati a cadenza regolare, e per ordine militare trasferiti e collocati a nord-est, in una regione nota come sayag-zona arida, in opposizione alla più fertile del sud. Oggi quelli che come Id sono riusciti a non tradire lo stile di vita nomade, parlano al cellulare, bevono Coca-Cola, leggono notizie online mentre continuano a pascolare greggi, a predire dal vento la posizione futura delle dune, a rispettare le leggi tribali.

Un accampamento di soldati dell’IDF.

Oltre alla cementificazione delle dune, la forestazione del Negev è messa in atto dal “guardiano delle terre d’Israele”, “ente ecologico del sionismo verde”, il JNF, Jewish National Found, che, per la natura stessa della sua entità, rispetta la clausola etnica di non affittare terre a non ebrei. Sono stati piantati 240 milioni di alberi in 107 anni, rubando spazio ad agricoltura e pastorizia. Hanno lo stesso valore degli uomini armati, “una sorta di metafora, come soldati che avanzano per conquistare terra”, nelle parole di Moriel Rothman, attivista di Rabbis for Human Rights.

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Per il momento i beduini combattono rimanendo fermi, la loro unica vittoria possibile è l’immobilità, la loro opposizione non abbandonare il deserto. L’icona di questa resistenza pesa 500 kg, rimane fiera su 4 zampe e mastica di continuo. Le persone che chiamano l’intero Negev la loro casa vivono con i cammelli in mutua, reciproca fiducia e dipendenza.

Nel villaggio di al Al-Araqeeb, 7 km da Be’er sheva, di cammelli ne rimangono pochi. Distrutto ogni anno decine di volte dal 1956, dove gli sgomberi sono una routine più che una notizia, questo villaggio non riconosciuto è divenuto simbolo della controversia dell’alternativa nomade. Per i cosiddetti “villaggi non riconosciuti”, mai stati dichiarati legali da nessuna autorità, l’esercito detiene la licenza di distruzione continua. Invece ad Al-Araqeeb, dopo ogni sgombero, i beduini tornano, ricostruiscono nuove tende con le macerie lasciate dalla scia dei bulldozer e riaccendono il fuoco di notte. La frode qui è arrivata con beffa compresa. Gli abitanti vengono citati in causa “per ricostruzione recidiva, con stima del danno di mezzo milione di shekel.” Li reclama l’ILA. Per evitare le violenze della polizia o le multe dell’amministrazione fondiaria nel villaggio di Sawawin, alcuni beduini hanno demolito la loro casa da soli. Così un bambino, che giocava nei pressi dell’edificio, è rimasto ucciso dalle macerie durante la demolizione della casa.

Il giorno in cui il piano Prawer scoccherà, rimarranno 30 giorni a disposizione per abbandonare le tende o, per chi le ha, le casupole abusive. Chi rifiuta rischierà due anni di prigione. Questa volta, invece dei ricorsi legali contro il piano, sono scoppiati gli scontri: dalle porte di Be’er Sheeva fino a Gaza, le barricate in mezzo al deserto sono l’unica sbarra di tribunale dove la comunità beduina in cerca del suo riscatto sociale trascina lo Stato d’Israele.

È così che improvvisamente il resto della popolazione israeliana ha badato al 25 percento dei residenti del Negev, alla demolizione delle loro case e alla più grossa confisca di terra di proprietà palestinese dagli anni Cinquanta. La mobilitazione e gli scioperi popolari hanno paralizzato il Paese, dal giorno della rabbia e nelle settimane seguenti, fino a che uno dei promotori del Prawer, Benny Begin, non ha pubblicamente ammesso di non aver coinvolto nessun beduino della comunità prima e durante l’esecuzione del piano. Il Prawer rimane così sospeso in attesa di essere ridiscusso. Approvato o meno, i beduini continueranno a resistere, senza acqua potabile e lavoro, a un governo che combatte i poveri dichiarando di combattere la povertà. Se un nuovo prossimo piano è in arrivo, potrebbe anche essere peggiore, “addirittura più radicale, con rimborsi del tutto assenti,” ipotizza il giornalista Haggai Matar. In prospettiva, si intravede un nuovo e definitivo esodo, la scomparsa di una cultura già quasi estinta.

Due anni fa, contro la privatizzazione dei mutui e il neoliberismo della destra di Netanyahu, erano i figli della classe borghese impoverita del popolo eletto a piantare tende, farsi arrestare e pestare dalle cariche a cavallo, come i beduini: non nel Negev, ma lungo l’avenue Rotschild, la strada più costosa della costosissima Tel Aviv. Dopo tre anni di servizio militare in difesa dello Stato di Israele, non potevano permettersi neppure una stanza in affitto. Fu allora che beduini, palestinesi, associazioni dei diritti umani si unirono a loro per la prima volta in piazza Rabin. “Questa è la nostra primavera araba”, “Avrahim ve jehudim neged kol hapinuim” (arabi ed ebrei chiedono insieme giustizia sociale). Lo gridavano allora, tirando insieme pietre alle sedi di Amidar, l’agenzia statale addetta agli sfratti, vero gestore della risorsa più importante d’Israele: lo spazio. Oggi il governo incentiva quegli stessi giovani a trasferirsi oltre la linea verde, nelle colonie di ultraortodossi ebrei, esattamente dove i neolaureati laici israeliani non vorrebbero andare. Anche da lì si vede il deserto, un altro, ma che come il Negev, insegna qualcosa, che tu lo voglia o no.

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