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A9N6: Il settimo annuale di narrativa

Malibù

Un racconto di Ottessa Moshfegh estratto dal nostro annuale di narrativa.

Foto di Thomas Northcut/Getty.

Per ottenere il sussidio di disoccupazione dovevo completare il modulo con tutti i lavori per cui avevo fatto domanda. Ma io non avevo fatto domanda per nessun lavoro. Così ci scrissi “avvocato” e di fianco un numero inventato. Poi ci scrissi “assistente avvocato” e lo stesso numero. E avanti così. “Portinaio in uno studio legale.” Guardai il numero che mi ero inventato. Provai a chiamarlo. Suonava e suonava. Poi una donna rispose. “Chi è?” rispose così al telefono. “Sto facendo un’indagine,” dissi. “Come si sente riguardo al farsi vedere nuda da estranei?” “Ho fatto la modella di nudo in una scuola d’arte,” disse, “quindi non è un problema per me.” Disse di chiamarsi Terri e che viveva a Lone Pine con sua madre che aveva il Parkinson. Disse che voleva rimanere incinta, così avrebbe avuto qualcosa a cui pensare. “Sono indiana,” disse in seguito. “Indiana chumash. Tu cosa sei?”

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“Io sono normale,” risposi.

“Bene. Mi piacciono gli uomini normali. Vorrei non essere indiana. Vorrei essere nera o cinese. Be’,” continuò, “che ne dici di venire qui, e vediamo cosa possiamo combinare noi due? Non mi interessano i tuoi soldi, se è questo che stai pensando. Ho la posta piena di assegni, arrivano in continuazione.” Mi sembrava che un avvoltoio starnazzasse in sottofondo. Riflettei un minuto. “Una cosa,” dissi. “Ho i brufoli. E un rash su tutto il corpo. E i miei denti non sono granché.” “Non mi aspetto molto,” disse. “E poi, non mi piacciono gli uomini perfetti. Mi fanno sentire come spazzatura, e sono noiosi.” “Ok,” dissi. Organizzammo un appuntamento per cena per il giorno dopo. Avevo una buona sensazione. Era vero: avevo i brufoli. Ma comunque ero bello. Piacevo alle ragazze. Raramente loro piacevano a me. Se mi chiedevano cosa facessi nel tempo libero, mentivo, dicevo che andavo con le moto d’acqua o andavo al casinò. La verità era che non sapevo divertirmi. Non mi interessava il divertimento. Passavo la maggior parte del tempo a guardarmi allo specchio o diretto al negozio all’angolo per farmi tazze su tazze di caffè. Avevo il pallino del caffè. Era praticamente tutto quello che bevevo. Caffè e diet ginger ale. A volte mi cacciavo un dito in gola. E poi mi torturavo sempre i brufoli. Coprivo i segni che mi lasciavano con fondotinta liquido da femmina, l’avevo rubato da Walgreens. Usavo la nuance Classic Tan. Immagino fossero i miei unici segreti. Mio zio viveva ad Agoura Hills. A volte gli telefonavo, quando ero alla canna del gas, ma lui voleva solo parlare di ragazze. “Ora come ora non mi piace nessuna,” gli dissi. Guardavo nello specchio sopra il lavandino del bagno, schiacciandomi qualche brufolo con una mano sola. “Ma le donne sono buone,” affermò. “Come un buon pranzetto.” “Non posso permettermi un buon pranzetto,” gli risposi. “Comunque, sono per la quantità più che per la qualità.” Mi disse di andare a informarmi se Sears o T.J.Maxx assumevano, o Burger King. Per qualcun altro, magari era un buon consiglio. Lui nemmeno aveva bisogno di lavorare. Aveva il sussidio per disabili perché era zoppo da una gamba. E poi aveva una colostomia a cui non prestava l’attenzione che avrebbe dovuto prestare. Dislocava per casa un sacco di profumatori d’ambienti alla pesca per coprire l’olezzo. Non lasciava quasi mai il salotto e gli piaceva ordinare quantità enormi di messicano da asporto o pizze intere. In continuazione, mangiava e scaricava immediatamente il pasto nella colostomia. “Non mi sento bene,” gli dissi. “Sto troppo male per trovarmi un lavoro.” “Vai dal medico,” rispose. “Guarda nell’elenco. Non fare l’idiota. Devi stare attento alla salute.” “Mi presti dei soldi?” chiesi. “No.” Trovai un medico poco costoso in un grande magazzino coreano su Wilshire. Il grande magazzino era praticamente vuoto, se non per il finto ottone e le vetrine appannate e i pavimenti arancioni di finto marmo. Guardai in alto nella galleria. Il soffitto di vetro era tutto crepato. Un piccione svolazzava senza meta, poi si posò su un fi lo di luci natalizie spente. C’erano un deposito bagagli, una macchinetta per le foto, un parrucchiere. Nient’altro—gli altri loculi commerciali erano vuoti. Una senzatetto coreana mi passò accanto, con indosso biancheria lunga, sporca e pesante, spingendo davanti a sé un passeggino di immondizia. Sbuffai. Trovai lo studio medico in fondo a un corridoio poco illuminato con uffici senza targhetta. Sulla porta c’era un cartello arancione con tutti i servizi che forniva il dottore. Ci ritrovai i miei sintomi: aumento di peso, perdita di capelli, rash cutaneo. Entrai. Una donna grassa stava al bancone di fronte alla receptionist. “Questa ricetta è per quello giallo e io ho bisogno di quello rosa. Il Percodan,” diceva. Avevo un problema con le persone grasse. Lo stesso che avevo con le persone troppo magre: li odiavo a morte. Qualche minuto dopo un’infermiera mi disse di seguirla nello studio. Sorpassammo un poster senza cornice con delle hot rod e uno con dei gattini dentro a un cappello a cilindro. L’infermiera mi indicò un uomo con indosso una camicia di flanella e un block-notes in mano. Sembrava un wrestler della WWF in pensione. Gli occhi erano nascosti dietro pieghe di pelle, aveva i nei in rilievo e le sopracciglia avevano estremo bisogno di una spuntatina. Aveva anche bisogno di farsi la barba. Molti uomini non hanno idea di come darsi una sistemata. Da come la camicia cedeva tra un bottone e l’altro potevo dire con certezza che sotto la flanella non portava nulla. Ispidi peli neri stavano sul ventre grasso. Puzzava di cibo andato a male. “Lei è un vero medico?” chiesi. Mi guidò verso un lettino bisunto. “Così lei ha un problema,” disse, guardando il mio questionario. “Cerco di vomitare tutto ciò che mangio, ma continuo a essere grasso,” dissi. “E ho un rash.” Mi alzai la manica. Il dottore fece un passo indietro. “Fa mai il bucato?” “Sì,” mentii. “Cosa c’è di sbagliato in me?” “Non sono qui per giudicare,” disse, mettendosi una mano sul cuore.

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Foto di Jessie Kennedy.

Nonostante fossi bello, temevo che nessuno mi avrebbe mai sposato. Avevo le mani piccole. Erano come quelle di una ragazza, ma coi peli. Nessuno sposa un uomo con mani simili. Quando mi metto le dita in gola, è facile. Le mie dita sono sottili, delicate. Quando le infilo lì sotto, è come una brezza fresca. Non riesco a spiegarlo meglio di così. “Zio,” dissi al telefono. “Posso fare qualche lavatrice da te?” “Certo,” rispose. “Vieni pure. Ma porta il tuo detersivo. E anche della Coca-Cola Light!” Mio zio viveva fuori dalla 101. Mi fermai da Albertsons per il detersivo e la Coca-Cola Light. Comprai anche una cheesecake e una torta di carote. Usai la carta EBT. Non mi sono mai vergognato della cazzo di EBT. Comprai un caffè grande e sigarette dal benzinaio lì a fianco. Non le fumavo davvero. Accendevo le sigarette e me le portavo in giro per casa dello zio, e basta. Coprivano l’odore. “Guardalo qui il mio ragazzo,” strillò mio zio, barcollando in piedi dalla poltrona reclinabile. Aveva due poltrone reclinabili di pelle verde abete a circa dieci centimetri da un televisore gigantesco. Il genere di televisione che c’è nelle lobby degli alberghi. Tutto quello che faceva era guardare la TV o parlare al telefono o mangiare. Gli piacevano i telequiz e i programmi di cucina. Non sto dicendo che fosse un idiota. Era esattamente come me: le cose buone gli facevano venire voglia di morire. Alcune persone intelligenti hanno questa caratteristica. “Ciao,” dissi. Aveva la vestaglia aperta, a penzoloni. Vedevo la cazzo di colostomia. “Dimmi,” disse tirando fuori le torte. “Stai uscendo con una ragazza, in questo periodo?” “Forse, ma non voglio portarmi sfiga,” dissi. “Non voglio parlarne.” “Mi deludi sempre.” Ci sedemmo sulle poltrone reclinabili. Mangiai la cheesecake e lo zio mangiò la torta di carote. Stavamo guardando la fi ne di un fi lm che si chiamava Un amore tutto suo. Poi lo zio svuotò la sua colostomia mentre io facevo andare la cheesecake giù per il cesso. Poi iniziai le lavatrici. Bevvi del caffè e tornai al bagno a vomitare ancora un po’. Quando fui a posto, presi il rasoio di mio zio e mi tagliai i peli dalle nocche. Gli mostrai l’opera. “Qualcuno dovrebbe massaggiarmi i piedi con quelle mani, ma non tu,” disse. Mi sedetti, annusai l’aria, accesi una sigaretta. “Non mi sento bene,” dissi, “e sono al verde.” “Io non ti darò neanche un dollaro,” rispose. “Ma se tagli l’erba, ti pagherò il tempo che impieghi.” “Quanto tempo?” “Il corrispettivo di venti dollari.” “Considererò la tua offerta e ti farò sapere,” dissi. A mio zio piacevano i discorsi ufficiali come quello. “Non vedo l’ora,” rispose. Infilò una mano sotto la vestaglia e trafficò con la sacca. Roteai gli occhi. Guardammo Law & Order, poi Oprah, poi Il tempo della nostra vita. Tagliai l’erba. Avevo già avuto altri appuntamenti. Non era mai successo nulla di eccezionale. Una ragazza era stata suora, quando era giovane. Mi piaceva, ma parlava sempre di se stessa. Era come se aspettasse che nella mia faccia si accendesse una luce, e non è mai successo. “Non sono il personaggio di un programma TV,” le avevo spiegato. “Voglio solo vederti nuda, e valutare dopo.” Mi aveva seguito al bagno. Eravamo in un bistrò asiatico a Century City. Il bagno era in cemento lucidato. La luce era fredda e soffusa. Si era spogliata metà per volta. Prima via la maglietta, e poi di nuovo addosso, poi giù la gonna, e su di nuovo. Ci eravamo visti per un paio di settimane—solo petting pesante, niente dentro-e-fuori. Alla fi ne le avevo mentito, le avevo detto che avevo preso il morbo di Teeny dal gattino di un vicino e che dovevo rimanere solo durante la convalescenza. Alla fine smise di telefonarmi. Solo una volta sono andato con una prostituta. L’ho trovata seduta sul ciglio della strada fuori dal Super 8 vicino a Little Armenia. Aveva una borsa di plastica trasparente con dentro i suoi averi: una trousse, un paio di scarpe da tennis, due banane, un fi ore di plastica. “Come ti sembro?” le avevo chiesto in camera, al motel. “Com’è il mio odore?” “Profumi di deodorante per ambienti,” aveva detto. “Non profumi di niente.” “Ottimo,” avevo risposto. Mi ero tolto la maglia. “Sono grasso?” le avevo chiesto. Aveva strizzato gli occhi e contratto le labbra. “Non sei né magro né grasso,” aveva detto. Il modo in cui univa la punta delle dita mi ricordava il preside del mio liceo. “Ti sembra che la mia faccia sia gonfia?” le avevo chiesto. “Cosa vuoi dire?” aveva risposto. Aveva tirato fuori una banana dalla borsa di plastica e aveva iniziato a sbucciarla. “Vedi i brufoli, da lì?” avevo chiesto. Stava seduta sul copriletto sfilacciato. Mi alzai e mi fermai vicino alla finestra. “Certo, li vedrebbero tutti,” aveva detto. Mi ero spostato di un paio di passi nell’ombra. “E ora?” “Li vedo ancora,” aveva detto. Chiusi le persiane e chiesi di nuovo. Aveva annuito. Allora mi sedetti di fianco a lei e aprii le mani sul letto. “Che ne pensi di queste?” chiesi. Nessuno mi ha mai dato la risposta che volevo. Nessuno ha mai detto, “Oh, che meraviglia!” Il giorno dopo, a casa mia, avevo ancora il rash. Non c’era nulla che potessi fare a riguardo prima di uscire quella sera con Terri. Mi sdraiai sul letto e con una mano toccavo il pavimento e piluccavo dal tappeto briciole e peli. Mi faceva male lo stomaco. Non riuscivo ad andare in bagno da giorni. Bevvi un litro di acqua salata e accesi la radio. Ascoltai un po’ di hip-hop. Mi piacevano le canzoni hip-hop perché mi tiravano su il morale senza incasinarmi la testa. Quaranta minuti dopo, andai in bagno.

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Se mai scriverò un libro, sarà pieno di trucchetti e consigli per i maschi. Per esempio, se avete la faccia gonfia, riempitevi la bocca di chicchi di caffè. Se avete la mascella poco segnata, fatevi crescere la barba. Se non riuscite a farla crescere indossate colori più chiari del colore della vostra pelle. Se volete qualcosa e non potete averlo, vogliate qualcos’altro. Vogliate quello che vi meritate. Probabilmente lo avrete. E soprattutto, controllatevi. A volte, per trattenermi dal mangiare, picchiavo la testa contro il muro o mi davo dei pugni allo stomaco. A volte iperventilavo o mi strangolavo un po’ con un asciugamano. Con un pennarello permanente demarcavo con linee tratteggiate il grasso che sporgeva sui fianchi, sulle cosce. Facevo ginnastica calistenica sul pavimento della cucina. Invece della schiuma da barba usavo crema idratante. Al posto del sapone, shampoo e balsamo due in uno. Suonò il telefono. “Sto facendo testamento,” disse mio zio. “Ti sto lasciando tutto, anche la televisione,” disse. “Grazie,” risposi. “Pensi che posso avere un anticipo di 200 dollari?” “A una condizione,” fece lui. “Voglio che le mie ceneri vengano lanciate nello spazio. Una volta ho visto una pubblicità. Penso che costi più di quanto valga davvero, ma mi sentirei meglio a sapere che non mi accadrà nulla di male quando sarò morto. Potresti dover vendere parte del mobilio, e la TV.” “È una bella pretesa,” dissi. “Non potresti accontentarti della cima di una montagna che dà sulla spiaggia?” “Prima voglio vedere il posto,” disse dopo una lunga pausa. “Se potessimo incontrarci questo pomeriggio, sarebbe meglio per me.” “Esci con una ragazza, stasera?” chiese tutto eccitato. “Con chi?” “Ti passo a prendere tra un’ora,” dissi. Avevo davvero un buon presentimento su Terri. Poteva essere quella giusta. Quando me la immaginavo, mi vedevo un’indianina con le trecce lunghe e le piume attaccate alla fronte. Me la vedevo in un tipì, con una pelle di cervo cucita addosso. Me la vedevo nuda, che guardava la TV sulla poltrona reclinabile di mio zio, e sbadigliava. Me la vedevo al bagno, che leggeva un vecchio libro sulla spiritualità. Magari potevamo andare insieme al casinò. Magari potevamo andare a un buffet. Dopotutto aveva detto che soldi ne aveva. “Hai i soldi?” urlai a mio zio da dentro la macchina, mentre lui barcollava fuori da casa. “E tu questo lo chiami tagliare il prato?” sbraitò gesticolando con il bastone da passeggio alla volta dell’erba. “Hai portato i soldi?” dovevo saperlo. “Li hai portati?” “Sì,” fece mio zio, allacciandosi la giacca a vento e dandosi qualche colpetto dove stava la colostomia. Bussò al finestrino con l’impugnatura del bastone. “Fammi vedere i soldi,” dissi. Tirò fuori il portafoglio e mi sventolò le banconote da 20 dollari. Sbloccai la portiera.

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Foto di Christian Storm.

Quando arrivammo ai piedi della montagna, mio zio scosse la testa. “Non mi piace questo posto,” disse. “Troppa luce, troppo sole. E comunque dove siamo? Che posto è?” “Malibù,” dissi. Il parcheggio era praticamente pieno, e c’erano tavoli da picnic e scritte nel legno e un sentiero che portava in una radura con dei piccoli alberi. Mio zio allungò il collo e strizzò gli occhi fuori dal finestrino, guardando la cima della montagna. “Deve essere pieno di animali lassù,” disse. “Puma, coyote. Guarda tutti quegli uccelli!” Si guardava intorno nervosamente, tocchicciandosi la pancia. “E c’è spazzatura ovunque!” “Hai ragione,” dissi roteando gli occhi. Incrociò le braccia e scosse di nuovo la testa. “Non voglio che gli animali piscino sulle mie ceneri.” “Spruzzerò del repellente sulle tue ceneri, se vuoi,” dissi. “Promesso.” “Vai lassù e dai un’occhiata. Io sono troppo vecchio. Sono stanco. Resterò in macchina. Se trovi un posto all’ombra, senza animali, be’, allora avremo un accordo.” Così uscii dall’auto e cominciai a camminare. Ma non avevo intenzione di farmi tutta la scarpinata fi no in cima. Trovai uno spiazzo d’erba tra gli alberi e feci un po’ di addominali e scatti e allungamenti a terra, e pensai a Terri. Me la immaginai posare nuda nel deserto—tranquilla, immobile, i lunghi capelli neri indomiti sparsi sui seni perfetti. Quando la baciavo, la sua bocca era gelato alla fragola. “Sei così bello,” mi diceva. “Sei così in forma.” La vita era meravigliosa, pensai, camminando verso una roccia che sporgeva sul fianco della collina. Vedevo l’oceano e le colline e l’autostrada da lì. Mi sembrava il posto perfetto per passarci l’eternità. Era pieno di scoiattoli. “Non male,” dissi allo zio quando tornai in auto. “Paga.” Quando lo guardai in faccia, era grigia e segnata. “Stavo solo pensando,” cominciò. La voce era acuta e strozzata, e sentivo il catarro che gli scoppiettava in gola. “Quante volte ancora ti vedrò? Qualche dozzina?” Sembrava che non riuscisse a respirare. Gli diedi delle pacche sulla schiena. “Ti sta venendo un attacco di cuore?” chiesi. “Hai bisogno un’ambulanza?” “Portami a casa,” disse stridulo. Tirò fuori il portafoglio e mi passò i soldi. Quella sera, mentre guidavo verso Lone Pine per vedere Terri, non riuscivo a levarmi dalla testa lo zio. Quando l’avevo scaricato a casa non mi aveva invitato a entrare né chiesto del mio appuntamento né detto nulla. Era solo uscito dalla macchina, era rimasto sul marciapiede poggiando tutto il peso sulla canna e fissando il prato. Era vero, non avevo tagliato l’erba a dovere. C’erano lunghi rappezzi triangolari che avevo ignorato, e avevo lasciato fuori il tagliaerba, di fianco al vialetto, invece che riportarlo in garage. Ma cosa si aspettava per 20 dollari? Come poteva arrabbiarsi con me dopo tutto quello che avevo fatto per lui? “Ce l’hai fatta,” disse Terri, in piedi in veranda. Casa sua era una costruzione da pochi soldi in stile ranch con un cane vecchio e grigio che dormiva nel giardinetto. Era sera. Uccelli volavano in cerchio. Avevo mal di testa. “Ho preparato la cena,” disse Terri. Era bassa e con i fianchi larghi e sembrava timida, in jeans e camicetta con fronzoli intorno al collo. Salii i gradini della veranda e guardai con attenzione. Aveva l’ombretto blu e una collana con delle pietre rosa pendenti. Il suo seno era grande, ma sembrava che si sarebbe afflosciato ed esploso ovunque se non fosse stato costretto in un reggiseno. Cercai di immaginarmi cosa ci potessero mai aver visto quegli studenti d’arte. Non avevo un buon presentimento. Aveva i capelli pesanti e costretti in una coda di cavallo. Il naso era piatto e largo e con piccole macchiette scure intorno alle narici. Cercai di non fissarle. “Hai fame?” chiese, sorridendo. Aveva denti gialli e macchiati. Cercai di guardare al di là dei denti all’interno della bocca. “Ho anche dei biscotti,” disse. Indicò l’interno nella casa attraverso la zanzariera. Non sapevo cosa dirle. La casa puzzava di aglio e bucato. Mi fece vedere il salotto, il sofà era coperto di plastica e il mobilio era bianco e oro e pacchiano. Tirò fuori una sedia dal tavolo della cucina e spense la piccola TV bianca e nera sul piano. Immaginai che passasse le giornate lì seduta davanti allo schermo a mangiare biscotti. Pensai che forse sarebbe stata ok se l’avessi messa a dieta, le avessi comprato dei DVD di aerobica e le avessi fatto sistemare i denti. Non era la ragazza che mi ero immaginato, ma c’era qualcosa di dolce in lei. “Hai dei parenti?” mi chiese, rovesciando dei biscotti Nutter Butter su un piatto. Ne misi in bocca uno e annuii. “Fratelli e sorelle?” chiedeva. Scossi la testa. Si alzò e mi versò un bicchiere di acqua dal rubinetto. Il bicchiere era di Disneyland. “Ho uno zio,” dissi, prendendo un altro biscotto. “Io ho solo mia mamma,” disse. “Sta dormendo. Non fa altro che dormire.” La sua faccia era gonfi a e triste. Immaginai che sarebbe stata migliore dopo un ciclo di diuretici, un po’ di perossido di benzoile. Mangiai altri biscotti. “Hai fame?” chiese di nuovo. Cercai di immaginarmi sopra di lei. Pensai che sarebbe stato come dormire su un materasso ad acqua. “Meglio farlo prima di mangiare,” dissi, spingendo via il piatto di Nutter Butter. Terri arrossì. Sapevo di essere più bello di lei. Sapevo che sarebbe stata grata qualunque cosa avessi deciso di farle. Si alzò e mi condusse in camera da letto. La guardai lottare con i suoi jeans. Le cosce le traballavano mentre gattonava sul letto. Tenne su il reggiseno, grazie a Dio. “Sei così bello,” disse. Torreggiavo sopra di lei e mi tolsi la maglia. Terri si tirò su a toccarmi. Non ero molto interessato ad essere toccato. Non volevo che sentisse il mio rash. Quello che volevo era metterle le dita in bocca. Chiusi gli occhi e palpeggiai la sua faccia e misi dentro l’indice. Usava la lingua e lo succhiava, ci misi un altro dito. Continuò a succhiarmi le dita. Era una sensazione meravigliosa. Stavo uscendo dal gelo per entrare in una stanza accogliente con il focolare acceso. Era come entrare in un bagno caldo. Volevo metterle in bocca la mano intera. Le tenni la nuca con una mano e con l’altra raggiunsi la gola, fino in fondo. Soffocò e cercò di parlare, ma la ignorai e continuai a spingere la mano più giù. Potevo vedere la mia mano gonfiare la sua gola dal fuori. Alla fine smise di lottare. “Brava ragazza,” volevo dire, ma non lo feci. Quando guardai in basso, vedevo qualcosa luccicarle negli occhi. Dopo non la baciai né la accarezzai né niente. Non era così che funzionava. Ci alzammo e mangiammo quello che aveva preparato: spaghetti e polpette e budino al cioccolato. Poi vomitai e salutai. Le dissi che l’avrei chiamata. Rimase in veranda con una vestaglia rosa e mi guardò allontanarmi. Più tardi, quando mio zio chiese come era andata, gli raccontai tutti i dettagli. “Terri è la donna più bella del mondo. Seducenti capelli castani, un nasino piccino, occhi da cerbiatto. Ha classe. Non come tutte quelle puttane. Ed è anche divertente. Siamo stati davvero bene.” Mio zio brontolò qualcosa e aggiustò l’angolazione dello schienale della poltrona reclinabile. “Stai attento alle donne,” disse. “Vogliono solo amore e soldi.” “Terri è diversa,” dissi. “Non puoi essere semplicemente felice per me?” Giunsi le mani in preghiera e le alzai davanti a lui, come invocandolo. Da quella volta di Malibù si comportava come se ogni cosa che facevo fosse stupida, come se tutto quello che facevo gli desse fastidio. Non mi guardava mai. Fissava la televisione davanti a sé. “Se è così fantastica,” disse lo zio, “perché non è qui a imboccarci di gelato? E in ogni caso, dov’è?” Prese una manciata di noccioline dalla ciotola che teneva in grembo e se le fece cadere dal pugno chiuso in bocca. Lo guardai masticare e picchiettare sulla colostomia. Non rispondevo mai alle sue domande. Poi guardammo il Maury Povich Show e Una vita da vivere e un film sulla gente che vive nei tunnel della metropolitana di New York. Tagliai l’erba di nuovo.

Altro dal numero:

Sono la moglie

Lupo Mannaro