VICE ITRSS feed for https://www.vice.com/ithttps://www.vice.com/ititFri, 07 Jul 2023 15:49:42 GMT<![CDATA[In questo cocktail bar di Roma si bevono drink con vini di frutta pazzeschi]]>https://www.vice.com/it/article/4a335g/cocktail-bar-roma-cocktail-vini-di-fruttaFri, 07 Jul 2023 15:49:42 GMT“Tutti i nostri drink cambiano quasi ogni giorno, a seconda degli ingredienti che abbiamo trovato al mercato e, oltre a contenere spesso vini di frutta, anche la gradazione alcolica assomiglia più a quella di un vino che di un cocktail.”

Nel mondo dei cocktail, italiani o meno che siano, i trend della sostenibilità dello scarto zero sono ormai imprescindibili.
Ovunque si possono trovare dalle orribili fettine di lime essiccate e pinzate con una mollettina, ai cordiali zuccherini da aggiungere ai drink, per spiegarla in parole semplici.

Il problema è che solo in rari casi l’utilizzo di scarti è interessante; insomma, quasi mai ha un pensiero e una tecnica come si deve dietro e quasi sempre come scarto si intendono bucce, scorze e via discorrendo.
Fortunatamente c’è chi, però, lo prende sul serio, e c’è un nuovo locale a Roma che non si serve di strumenti sofisticati per creare sapori precisi, mai scontati, che molto raramente si vedono in giro.

Smile Bar, cocktail bar aperto recentemente a Garbatella, a Roma, infatti serve cocktail beverini che quasi sempre uniscono uno spirito o un liquore a vini di frutta fatti in casa utilizzando non scarti di lavorazione, ma scegliendo frutta dai mercati che altrimenti andrebbe buttata.
"L’idea mi è venuta anni fa, quando lavoravo da Romeo, il locale multiforma della chef stellata di Glass Hostaria Cristina Bowerman —che oggi non c’è più, NdR—,” racconta Riccardo Gambino, fondatore del bar Smile (di cui è socia anche il wine bar “La Mescita”, dietro l’angolo).
“A quel tempo avevo iniziato a intripparmi con le fermentazioni lattiche in busta e cercavo con qualsiasi cosa di arrivare a una sorta di vino.”

Si è detto che il progetto è serio, e in effetto lo è, molto, a livello di gusti e complessità. Ma è anche stato pensato per essere accessibile a tutte le persone senza per questo essere impostato o pesante. “Smile non voleva essere solo un nome paraculo,” racconta Riccardo Gambino. “Volevamo veramente che la gente si divertisse, che fosse spensierata.”

”E i cocktail sono studiati sul modello di quelli trash degli anni ‘90,” dice il barmanager Biagio Maurice Gennaro, con un passato di livello anche lui in diversi cocktail bar della capitale. “Il nostro motto è: NO ELOQUENCE. Cioè vogliamo dare al cliente la superficie, non perderci in fronzoli inutili ed essere diretti e accessibili. Tutti i nostri drink cambiano quasi ogni giorno, a seconda degli ingredienti che abbiamo trovato al mercato —che lavoriamo subito— e, oltre a contenere spesso vini di frutta, anche la gradazione alcolica assomiglia più a quella di un vino che di un cocktail.”

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Biagio Maurice e Riccardo Gambino. Foto dell'autore.

Smile è un locale piccolissimo, che si svolge praticamente solo nella piazza circostante. C’è uno smile che sorride, cimeli anni ‘90 e anche un giradischi a disposizione dei clienti che possono mettere la musica che vogliono, a volte bella funk, a volte oscura, sempre universalmente da presa a bene.
I vini di frutta non sono una novità, ma hanno tutto il potenziale per esplodere: in paesi come l’Australia, ma anche a Londra, ci sono già da tempo dei bartender che producono i loro vini di frutta da bere lisci o da mettere nei cocktail. La gamma di sapori non solo è diversa anche se riconoscibile, ma la cosa più bella è che, fatto in maniera selvaggia, un vino di frutta restituisce ogni volta sapori diversi: per la fermentazione stessa, ma anche per la frutta che non è mai la stessa.

“Quando ho iniziato a fare vini di frutta,” mi racconta Riccardo Gambino, “ricordo che usavo un sacco di frutta e passaggi. Oggi ho trovato una quadra per cui mi rifornisco da piccoli fornitori, piccole aziende agricole, mercati rionali e facciamo anche foraging. In tutti questi casi, lo scarto è la parte più pregiata, perché è più facile per la fermentazione. Sono particolarmente fiero del Planet of The Apes, un vino fatto con tre tipologie di banana diverse che si fa tre mesi di affinamento in cantina e tira fuori sapori pazzeschi.”
E gli scarti della fermentazione, invece, non vengono buttati: sono riutilizzati per farne drink analcolici molto fichi.

Da qualche tempo, oltre al trend dello scarto zero e della sostenibilità, stanno però tornando in auge anche cocktail che non pensavamo avremmo rivisto: quelli degli anni ‘80 e ‘90. A New York molti locali servono l’Angelo Azzurro e l’Espresso Martini è uno dei cocktail più bevuti al mondo.
”Gli anni ‘80 e ‘90 della mixology erano sicuramente non il massimo, ma il concetto era quello di divertirsi. Le ricette non erano pretenziose, erano divertenti,” ribadisce Biagio Maurice. “Questo volevamo fare: drinketti che guardassero a quel passato spensierato in chiave più complessa. Ad esempio uno dei cocktail che amo di più è il nostro Mostro Mule”, chiara rivisitazione del Moscow Mule. Qui lavoriamo la vodka con acqua di Zenzero Rosa e Cetrioli Cinesi e un Syrup al Lime Wasabi e la garnish è un cucchiaino con Esplosione di Yogurt a forma di Smile, per ricordare la cultura Indiana del Lassi. Ma ci sono anche drink slegati dalla cultura degli anni ‘90, per esempio ne facciamo uno con basilico, vino di kiwi e cachaça.”

Dopo anni di maniche di camicia tirate su e baffi ottocenteschi, il cocktail bar si sta assottigliando sempre di più, tornando alla dimensione che sempre è appartenuta alla cultura del bar italiano, quella dei bar popolari e dei bar sport. Le tecniche nuove sembrano non essere più al servizio della maniera, ma solo un modo nuovo di ritornare alla leggerezza dei bar di una volta, dove quello che contava di più erano lo stare bene e l’ospitalità.

In questo il nuovo Smile ci becca in pieno.

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<![CDATA[Perchè Tinashe balla al suo stesso ritmo]]>https://www.vice.com/it/article/88xxjp/perche-tinashe-balla-al-suo-stesso-ritmoWed, 21 Jun 2023 12:47:55 GMTIn collaborazione con HUGO

Una volta raggiunta la fama, la maggior parte degli artisti lascia la propria città natale e non si volta più indietro. Ma Tinashe, pur essendo nello show business da oltre 20 anni, vive ancora nella stessa città in cui è cresciuta. Anche per questo motivo, l’artista non è più solo una dei tanti giovani talentuosi che stanno cercando di sfondare a Los Angeles, ma è ampiamente conosciuta come un soggetto che l'industria chiama tripla minaccia: cantante, ballerina e attrice di talento.

HUGO/HUGO eyewear
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Dall'apertura del tour My World di Justin Bieber come membro del gruppo femminile "The Stunners" a 16 anni, fino alla sua fusione impenitente di R&B, hip-hop, dance e pop, Tinashe non ha mai limitato il suo panorama sonoro né la sua evoluzione. Nel 2014, la star ha anche ottenuto consensi in tutto il mondo con il suo successo R&B 2 On, singolo principale del suo album di debutto Aquarius, segnando così un’ascesa apparentemente inarrestabile.

Dietro le quinte, Tinashe si muoveva con integrità creativa e combatteva una battaglia che avrebbe influenzato il suo controllo creativo come artista e il suo secondo album Joyride. Nel 2019, infatti, questa disputa ha portato Tinashe e la sua etichetta a separarsi, e la cantante è tornata ai suoi inizi indipendenti.

HUGO/HUGO eyewear
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Tra quella decisione e oggi sono trascorsi quattro anni—quattro anni che hanno portato a tre album acclamati dalla critica, tour sold out e molta più libertà creativa e sicurezza. L'ultimo album di Tinashe si chiama 333, un numero angelico in numerologia che sta per scelte intuitive, creatività, azione e cambiamento. Il ché non fa una piega.

Anche se Tinashe è tutt'altro che finita, abbiamo pensato di incontrare la pop star per riflettere sul suo percorso fino a oggi. E quale posto migliore per farlo se non dove tutto ebbe inizio: Los Angeles. Così, in collaborazione con HUGO, Tinashe ha risposto al Noisey Questionnaire of Life.

Il giorno dell'intervista, Tinashe è arrivata all'ufficio di VICE indossando una t-shirt corta gialla HUGO, un paio di pantaloncini di jeans strappati e occhiali da sole neri, tutti del brand. Un look che celebra decisamente l'individualità, l'attitude e la rottura delle regole.

Il tuo stile si è davvero evoluto nel corso della tua carriera. Come descriveresti il tuo stile di oggi?

Credo che il mio stile sia una riflessione di qualunque sia il mood del giorno. Per la maggior parte del tempo sono decisamente rilassata, ma a volte voglio dare qualcosa in più, giocando con i differenti lati della mia personalità: più femminile, più maschiaccia, più appariscente, o più riservata.

Il tuo stile influenza il tuo sound o pensi che il tuo sound influenzi il tuo stile?

Credo che il mio stile e il mio sound si influenzino a vicenda simultaneamente. Il modo in cui mi esprimo attraverso la moda e lo stile di solito è solo un riflesso di come mi sento dentro. E questo di solito viene fuori anche nella mia arte e nella mia musica.

HUGO/HUGO eyewear
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Qual è il segreto per un outfit di successo?

Qualunque cosa in cui tu ti possa sentire a tuo agio. A prescindere da che capo si tratti. Qualcosa in cui tu tu possa sentire comoda, o qualcosa per cui ricevi sempre i complimenti, o semplicemente qualcosa che ti faccia sentire più forte quel giorno. Che siano un paio di occhiali da sole, delle sneakers stilose… Credo sia divertente avere qualcosa che ogni giorno ti fa dire: okay, oggi questo è il mio statement piece.

Sfilate di moda, party in casa o stare a casa?

Stare a casa. Potrebbe essere una risposta controversa. ma sono una specie di casalinga.

Cos’è più difficile: recitare, cantare o ballare?

Probabilmente la cosa più difficile da fare è ballare e cantare allo stesso tempo. Quindi è una sorta di domanda in due parti. Singolarmente, cantare e ballare sono cose abbastanza semplici. Quindi, se dividiamo il tutto, forse la cosa più difficile è recitare.

Janet Jackson, Michael Jackson o Samuel L. Jackson?

Facile, Janet Jackson. Regina Janet.

Jon And Vinny's, In-N-Out o Pink's Hot Dogs?

Si tratta delle basi di L.A., ma dovrò andare con In-N-Out. Scontato.

Denaro, abiti o auto sportive?

Mi piacciono tutti e tre. Ma credo denaro, con cui puoi comprare sia abiti che automobili. Quindi, domanda a trabocchetto?

333, 444 o 555 - qual è il tuo numero angelico preferito?

Ovviamente 333.

TikTok, Instagram o Twitch?

Al momento sono nella mia era TikTok. TikTok è la mia droga preferita al momento.

Electronic, R&B o Pop?

Credo di trovarmi un limbo tra i tre. Questo è un po' il mio sogno quando si tratta di fare musica. Ma se dovessi scegliere un genere in questo momento, sceglierei il classico R&B.

Il trend che vorresti tornasse: vecchie maglie sportive, jelly sandals o pantaloni Capri?

Sceglierei sicuramente le vecchie maglie sportive. Un po' di atmosfera streetwear fa sempre bene, e poi in questo periodo ci sono anche i playoff NBA, quindi ha senso.

HUGO/HUGO eyewear
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Affermazione, oroscopi o tarocchi?

Hmm. Andrò per i tarocchi—sono un po’ più intriganti.

Quando arriverà l’apocalisse zombie, in che ruolo ti vedi: medico, sindaco o soldato in prima linea?

Mi candido a sindaco. Penso di avere molte grandi idee che potrei implementare nella comunità.

Hai un consiglio di stile?

Scatta una fotografia di quello che indosserai prima di uscire, perché non sai mai che aspetto ha finché non lo vedi in foto.

È un grande consiglio. Preferiresti seguire un progetto con Kaytranada o con Boy Wonder?

Oh, non saprei.Li amo entrambi. Penso che entrambi farebbero emergere un lato molto diverso di me. Quindi, direi che in estate farei un progetto Kaytranada e in inverno farei un progetto Boy Wonder.

Preferiresti andare sotto copertura nei panni di un alieno, Mario di Super Mario Bros o un boss di Wall Street degli anni '80?

È tutto così random. Credo che andrò per l’alieno.

Hai più paura di non imparare lezioni dal tuo passato, di non realizzare ciò che hai nel presente o di non essere preparata per il futuro?

Probabilmente la cosa più importante per me in questo momento è vivere il momento. Si tratta di osservare ed essere grati per quello che mi ruota intorno oggi. Quindi, sceglierò "non sapere cosa sta succedendo nel presente".


Photography: Randijah Simmons

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<![CDATA[Alcune coppie di ristoratori ci hanno detto com'è il sesso quando lavori insieme]]>https://www.vice.com/it/article/5d935d/coppie-di-chef-spiegano-come-fanno-sessoTue, 23 May 2023 14:17:25 GMT“Lo facciamo più di mattina che di sera. Abbiamo sicuramente una routine obbligata ma il pilota automatico non lo mettiamo mai.”

Nel mondo della ristorazione non sono poche le coppie che lavorano insieme, sia in cucina, sia sotto lo stesso tetto. Anzi, possiamo dire che da sempre il mondo della ristorazione italiano sia formato da coppie, data la tradizione che abbiamo da decenni di aprire posti a conduzione familiare.

Ora, aldilà della questione se sia saggio o meno stare insieme e lavorare anche insieme, la vera domanda che mi sono chiesta questa volta è stata: come vanno le loro relazioni? Come le gestiscono? Ma, soprattutto, come va il sesso?

Per me le cucine trasudano sesso da tutte le parti: c’è quel clima un po’ rude, si ride, si urla, il ritmo è frenetico. Stando a come l’ho messa, potrebbe sembrare che appena staccano si buttano nudi a letto, ma non ne sono nemmeno così sicura, data la stanchezza che viene fuori da uno o più turni passati a spadellare. 
Così ho deciso di chiedere direttamente a loro come si affronta il sesso quando si condividono un lavoro adrenalinico e stancante, ma anche il letto la sera. 

Piccola premessa: non mi aspettavo di fare così tanta fatica a trovare qualcuno disposto a parlare della propria vita sessuale e della sua connessione al mondo del cibo, eppure così è stato. Almeno quattro coppie hanno rifiutato di parlarmene. 

Qualche coppia coraggiosa, però, c’è stata: grazie al cielo qualcuno che non considera il sesso come un tabù nel 2023 ancora si trova.  

Cosa eccita le e gli chef

“Vedere il viso di Isabella in cucina è sempre devastante. E poi mi eccitano le persone che fanno le cose bene e Isabella è una di queste, il che mi eccita moltissimo.”

Daniele Antonelli e Giorgia Proia hanno una pasticceria non molto distante dal Colosseo, a Roma: Casa Manfredi (per inciso, la mia pasticceria preferita della Capitale). Ho voluto iniziare da loro perché stanno insieme da un bel po’, si passano due generazioni —come nel mio caso con il mio compagno— e hanno un figlio, Manfredi. “All’inizio avevamo una relazione sessuale normale, possiamo dire” mi racconta Giorgia Proia. “Io ero più piccola e avevo qualche insicurezza. Daniele, però, nel tempo mi ha fatto scoprire nuove cose a letto. Principalmente a casa, se devo essere sincera: siamo andati a convivere quasi subito.” 

Pensando che il desiderio possa essere ammazzato dal lavoro, gli chiedo cosa eccita l'una dell’altro. “A me eccita l’uomo che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno,” mi dice Giorgia mentre prepara qualcosa di cremosissimo. “Mi eccita da matti quando Daniele si incazza con la gente che pensa di sapere le cose ma non ci capisce niente.” E Daniele dice, semplicemente: “Forse ti sembrerà strano, ma a me basta guardarla. Dopo tanti anni ancora mi eccita guardarla.”

Più giovani sono invece Floriano Pellegrino e Isabella Potì di Bros’, a Lecce, un universo gastronomico che comprende un ristorante stellato, una trattoria e un’accademia. Sono una delle coppie più cool della cucina italiana, amano la musica, la moda e lo sport. Si sono conosciuti quando Isabella andò a fare uno stage da Bros’, non ancora diciottenne. “Mi sono accorto subito di lei,” dice Floriano Pellegrino. Si sono conosciuti perché Isabella andò a fare uno stage al da Bros quando non aveva ancora diciotto anni “e sì, certo che mi sono accorto di lei al lavoro, come fai a non vederla, guardala” mi dice Floriano.

“Il carisma e il talento sono le prime cose che mi saltano all’occhio e che mi eccitano,” dice Isabella Potì. “Mi piacciono le persone valide, che evolvono, non solo quelle belle esteticamente e in Floriano vedo sempre queste due cose.” Floriano Pellegrino continua, non senza una vena quasi poetica: “Vedere il viso di Isabella in cucina è sempre devastante. E poi mi eccitano le persone che fanno le cose bene e Isabella è una di queste, il che mi eccita moltissimo.”

Anche Lea Pedrinella e Lorenza Licciardello, inizialmente entrambe estranee al mondo della ristorazione —una proviene dal teatro e l’altra dalla fotografia— si sono conosciute nel 2019 sul lavoro: durante il colloquio di assunzione da O|nest, nota enoteca con cucina di Milano. Lea, il capo, cercava un part time per il suo team e Lorenza, con un diploma di sommelier, si è presentata. “Mi eccita vedere Lorenza  quando propone il vino al tavolo: la trovo sempre meravigliosa, super sexy, anche dopo 11 anni,” confessa Lea Pedrinella. Invece Lorenza si scioglie quando vede Lea è in divisa da chef. Si capisce che si è creata subito una connessione tanto che qualche anno dopo l’apertura del primo locale hanno inaugurato una seconda attività, Clandestino Non Esiste , bakery con specialty coffee.

Sempre a Milano c’è chi si è innamorato in un secondo e sto parlando di Eugenio Boer e Carlotta Perilli, proprietari di Bu:r, che si sono anche sposati da poco. “È stato amore a prima vista: il giorno dopo esserci conosciuti, siamo andati a vivere insieme,” mi racconta chef Boer. “Mi fa morire il suo piglio, come si muove, come mi guarda quando lavoriamo. In più l’uomo che cucina è super sexy, se poi è tuo marito…che vuoi di più?” risponde Carlotta Perilli. “A me di Carlotta eccita tutto,” ribatte Eugenio Boer. “Come si muove, come parla, per me è l’erotismo fatto a persona.”

Il sesso e lo stress della cucina

“Non è vero, io sono sempre disponibile a fare pace, però come si deve, ” chiude Daniele Antonelli, sornione.  

Non voglio rovinare questo momento sdolcinato e fare l’avvocata del diavolo, ma in questo impiego ci sono continue tensioni dettate da diverse dinamiche dovute per esempio al lavoro in brigata, al servizio. Insomma, il battibecco è dietro l’angolo. Nelle mie fantasie erotiche lo chef, perennemente su di giri e incazzoso a fine giornata, dopo aver insultato un collega o una collega lo seduce. Sì, lo so, non funziona quasi mai così, ma lasciatemi sognare.

Nella realtà invece, la coppia se ha discusso poi fa sesso per calmare le acque o uno dei due si nega? 

Secondo la mia esperienza, gli uomini stanno spesso fermi e imbronciati, aspettando che passi lo sclero. È così, per esempio, per Floriano Pellegrino e Isabella Potì: “Floriano non vuole portare a casa le questioni spinose dentro casa,” mi dice Isabella. E Floriano: “Ma quando ci capita di discutere, ci passa velocemente. Cerchiamo di essere molto professionisti, separando rapporto e lavoro e senza stare incazzati più del dovuto.” 

A Roma, per la coppia di Casa Manfredi, le cose vanno diversamente. 
“Dipende: se litighiamo per colpa mia allora la sera per farmi perdonare faccio di tutto per fare l’amore con Daniele, ma di solito l’intento è vano,” racconta Giorgia Proia. “Non è vero, io sono sempre disponibile a fare pace, però come si deve, ” chiude Daniele Antonelli, sornione.  

E se Lea Pedrinella e Lorenza Licciardello mi dicono solo che vogliono chiarire subito, senza entrare nei particolari, Eugenio Boer e Carlotta Perilli sono decisamente assai più chiari e diretti: “Fare sesso è per noi il miglior modo per risolvere qualunque cosa. Con un’extra dose di coccole,” aggiunge Eugenio. 

La gelosia

“Quando si presentano ex o potenziali flirt può anche essere divertente. Soprattutto quella volta in cui mi ha rincorso minacciandomi con il bastone per prendere il vino dagli scaffali.”

Si polemizzerà per i conti, per i fornitori forse anche per i clienti, ma a me interessa più scavare nell’animo umano. Il che significa: come trattano la gelosia queste coppie della ristorazione. 

Mettiamola così, negli anni ho imparato a domare la mia pazzia possessiva, ma credo che sarei messa a dura prova se avessi un partner che quotidianamente sta a stretto contatto con il pubblico. 

“Adesso sono molto meno geloso, anzi non lo sono proprio. Ci sono stati però degli episodi in passato che mi hanno fatto venire il sangue al cervello, come quando un personaggio famoso era molto interessato ad Isabella,” dice Floriano Pellegrino. “Però abbiamo imparato a parlarci sempre e ho superato questa fase di gelosia, ho capito che era solo insicurezza.” Isabella Potì, invece, mi dice: “Sono abbastanza sicura di me, anche se qualche volta mi è successo di essere gelosa, ma devo fuori dal lavoro. Non entrerò nei dettagli ma Floriano, tempo fa, vedeva nemici ovunque e una volta ha quasi minacciato un ragazzo. Ci ha messo un po’ a togliersi dei comportamenti un po’ sopra le righe.”

Eugenio Boer e Carlotta Perilli —quelli dell’amore a prima vista, ricordate?— sono invece più equilibrati. “Ci fidiamo ciecamente l’uno dell’altro, anche perché siamo fortunati, abbiamo un rapporto che auguriamo a tutti quelli che si amano, fatto di libertà, fiducia, passione e rispetto”. 

Io però adoro gli animi fumantini e Lea Pedrinella e Lorenza Licciardello mi regalano belle soddisfazioni: “Quando si presentano ex o potenziali flirt può anche essere divertente,” racconta Lea. “Soprattutto quella volta in cui Lorenza mi ha rincorso minacciandomi con il bastone per prendere il vino dagli scaffali,” dice ridendo. Ma è Giorgia Proia che mi fa sentire un po’ meno folle. “Sì, sono gelosa, sempre. Daniele fa sempre il piacione, ma alla fine è da me che torna.” 

Sesso e cibo 

“Il toast nappato con il burro che le faccio di notte dopo aver fatto sesso, nessun dubbio.”

Mi sono sempre chiesta, nei miei pensieri volatili, anche se, chi opera in questo settore, parla sempre di cibo. Persino a letto, ovviamente. Mi sembrava l’occasione giusta per saperne di più. 

“Ma anche no,” mi dice secco Floriano Pellegrino, anche se Isabella Potì mi sembra più possibilista: “Può capitare. Sai, quando magari organizziamo la giornata successiva e dobbiamo parlare di preparazioni. Ma non durante il sesso, dai, quello ci preoccupiamo di farlo bene, dargli il suo tempo e spazio.”

Carlotta Perilli e Eugenio Boer, invece, non ne parlano, mangiano direttamente di notte, quando finiscono.  

Qui scatta in automatico la domanda più ovvia ma anche più esemplificativa del rapporto cibo-sesso: c’è un piatto che rappresenta al meglio il rapporto sessuale? 

Per Lea Pedrinella e Lorenza Licciardello è il ramen, “pieno di sorprese e fatto con amore.” Eugenio e Carlotta, invece, tornano sulla tematica del mangiare a letto di notte: “Il toast nappato con il burro che faccio di notte a Carlotta, nessun dubbio.” Carlotta conferma a piene mani. 

Daniele Antonelli di Casa Manfredi, da padre di famiglia, mi dice che la cosa più sexy è il pranzo della domenica, “anche perché è sempre più una rarità.”

Chiudono Floriano Pellegrino e Isabella Potì, buttando un carico da 90: “Secondo noi un piatto non sarebbe sufficiente a raccontare il sesso. È più una cena, un insieme di piatti, un’esperienza come in un ristorante fine dining.”

Sveltine in cucina

“Quando eravamo più piccoli succedevano spesso al lavoro, per quanto riguarda ora, beh, tengo il segreto.”

Ancora una volta, però, è bene ribadire dei ritmi allucinanti che fanno questi professionisti. Quando riescano a fare l’amore proprio non ne ho idea e suppongo anche che le sveltine siano la loro religione. “Sono amiche che ogni tanto ci piace incontrare,” specifica Floriano Pellegrino e Isabella Potì aggiunge: “Quando eravamo più piccoli succedevano spesso al lavoro, per quanto riguarda ora, beh, tengo il segreto.” 

Ormai abbiamo capito che Carlotta Perilli ed Eugenio Boer sono i romanticoni del gruppo. Infatti affermano, convinti: “Non ci sono mai piaciute le cose fatte di fretta, ogni cosa ha il suo giusto tempo e l’amore e il sesso hanno il loro”. Anche Lea e Lorenza non sono da meno: “Il lavoro ci devasta ma ritagliamo sempre tempo per noi due, con calma”. 

Daniele Antonelli e Giorgia Proia, con estrema schiettezza chiudono dicendo che “non riusciamo a fare sveltine perché purtroppo Manfredi, nostro figlio, dorme ancora con noi e al lavoro è semplicemente molto difficile.” Quindi fanno sesso programmato o al contrario quando capita? “Più la mattina che la sera. Abbiamo sicuramente una routine obbligata ma il pilota automatico non lo mettiamo mai.”

Sesso e cucina, quindi, è confermato, vanno parecchio d’accordo. Se da una parte c’è un ambiente lavorativo familiare, dall’altra c’è il peso dello stress e delle aspettative. In ognuno dei due casi, il sesso è un utilissimo antidoto.

E a quanto pare mi sono dovuta ricredere: lavorare insieme al proprio partner, sessualmente parlando, non è poi così male.

Quasi quasi mi fidanzo con uno chef. O forse un sommelier, o meglio ancora un pasticcere, che mette le mani in pasta. 

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5d935dPaola BuzziniRedazione MunchiesWTF MunchiessessoStressChef
<![CDATA[Come questo distributore ha cambiato il mondo del vino naturale in Italia ]]>https://www.vice.com/it/article/3akb98/distributore-che-ha-cambiato-il-mondo-del-vinoWed, 10 May 2023 16:50:12 GMT“Nel tempo la gente ha capito che vedere l’etichetta sul collo con la scritta Triple A era sinonimo di naturalità e buone pratiche agricole.”

Qualche mese fa sono stato invitato in una villa del 1700 appena fuori Bologna tutta addobbata a festa. E a buona ragione, visto che la festa in questione era per i 20 anni di Triple A, il primo vero distributore di vino naturale in Italia.

Al mio arrivo, circondato da persone che bevevano e chiacchieravano incredibilmente distesi e felici, mi hanno piazzato in mano un bicchiere di vino rosso e del pane come benvenuto. E ho proprio pensato che tutta l’essenza di Triple A fosse racchiusa in quel gesto: pane e vino; convivialità e amore per le cose semplici, per la terra.
Il resto della giornata è stato speso tra un banchetto di vino e un altro, passeggiata inframmezzata da pezzi di salami e formaggi di piccoli produttori, una pastasciutta con una pasta da sballo e la visione di un signore che braciava una carne bellissima in mezzo al grande giardino. È finita, naturalmente, che ero bello brillo e assai felice.

Ma ora un passo indietro, perché la storia che voglio raccontarvi non è tanto quella di me spappolato in un giardino bolognese, ma di questo mondo che, da anni, è un simbolo di cose fatte per bene.

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Forse avrete visto qualche volta delle bottiglie in enoteche con una piccola etichetta ovale che recita “TRIPLE A” sul collo. Forse avrete pensato che si leggesse all’inglese, traipl ei (giuro che pensavo si leggesse così).
Le tre “a” di triple a, però, sono un acronimo tutto italiano: Agricoltori, Artigiani, Artisti.
Iniziata da Luca Gargano, patron-guru di Velier, distributore molto incentrato su cose buone e soprattutto persona che ha fatto conoscere il rum di livello al grande pubblico (sarebbe più giusto dire che l’ha educato), questa nuova distribuzione di vino doveva essere un filo coerente con la sua persona, le persone che ha conosciuto nel suo percorso decennale e la sua filosofia di fare sì affari, ma con roba di grande qualità.

“Devi metterti nei panni di un distributore di vino di 20 anni fa,” mi racconta Margaux Gargano, che gestisce il catalogo Triple A. “Mio padre, che all’epoca distribuiva vini convenzionali, a un certo punto si è reso conto che usciva affaticato dalle degustazioni e tutto gli risultava piatto. Parlando, ricercando, ha capito che il motivo erano i lieviti selezionati, che toglievano carattere al vino. Così, di colpo, ha cancellato tutto il catalogo vini e ha cominciato a interessarsi di naturalità biodinamica nel vino.”
Provate però davvero a immaginarvelo: affari da un sacco di soldi buttati al vento per inseguire un’idea. Non è azzardato dire che quello che successe 20 anni fa fu una vera e propria rivoluzione; parlare non di cantine ma di territorio e di persone, di terra e di diversità.

“Se ti dovessi dire cos’è Triple A, ti direi che non è solo un catalogo,” continua Margaux Gargano. “Le persone che entrano —che vengono selezionate— poi fanno come parte di una famiglia. In effetti chi abbraccia questo tipo di agricoltura naturale ha un po’ le idee degli altri, condivide dei valori come una grande famiglia.”
Ed era una grande famiglia che ho visto, spalmata su tre piani di villa: gente felice di fare il vino in questo modo, di vivere la terra a tutto tondo in questo modo.

Uno di questi produttori, Francesco Brezza, mi ha raccontato cosa significa per lui fare vino: “Sono nato nella mia azienda, letteralmente. Con mio padre che già trattava la terra in maniera sana, circondato da mucche al pascolo.” Tra l’altro la sua Tenuta Migliavacca è stata la prima in Italia ad avere il certificato Demeter, il più importante organismo che certifica l’agricoltura biodinamica, nel 1965. “Noi siamo non solo completamente autosufficienti, ma lavoriamo per la terra, per la sua salubrità. A me non interessa molto andare ai convegni e alle fiere, perché ho delle mucche da sfamare, cose da raccogliere, una terra da rispettare.”

“Ho sempre creduto nei rapporti veri, non è mai stato business fine a se stesso. E loro sono stati i primi a credere in me, il mio primo vero rapporto esterno con il mondo del vino.”

A proposito di etichette, chiedo a Margaux Gargano perché non hanno mai deciso di fare una vera certificazione che attesti la buona produzione di quei vini. “Per noi è iniziata per differenziarsi tra gli scaffali: certo, dovevi fidarti, ma nel tempo la gente ha capito che vedere l’etichetta sul collo con la scritta Triple A era sinonimo di naturalità e buone pratiche agricole. Non volevamo addentrarci in pratiche legali e amministrative complessissime, non era quello il concetto.” E continua: “Ad ogni modo ci sono dei criteri e tutte le cantine vengono ispezionate e devono rispettare criteri di biodinamica e buone pratiche agricole.”

Oggi, a quanto mi dice, il 50% dei produttori sono italiani, il 30% francesi e il 20% vengono dal resto del mondo. “Luca Gargano non ha solo deciso che la strada migliore del vino fosse quella naturale, ma che anche territori non famosi per il vino dovessero essere considerati. Per questo fu anche tra i primi a parlare di vini argentini, sudamericani e sudafricani.” Per dovere di cronaca non c’è solo la Francia, si trovano anche produttori austriaci, per esempio.

Tra i produttori italiani, un nome di punta è sicuramente quello di Arianna Occhipinti, molto conosciuta e apprezzata nel mondo dei vini naturali sia in Italia sia all’estero. E ci ho fatto due chiacchiere. “Sono affezionatissima a Triple A,” mi ha raccontato. “Luca Gargano venne nel 2004 quando i miei primi vini erano ancora in affinamento, assaggiò direttamente dalla produzione e mi disse che lo avrebbe voluto non appena fosse stato pronto. È davvero come essere in una famiglia.”

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Luca Gargano, fondatore di Triple A

E riguardo alla fiducia che è necessaria instaurare con distributori e persone, mi ha anche detto: “Ho sempre creduto nei rapporti veri, non è mai stato business fine a se stesso. E loro sono stati i primi a credere in me, il mio primo vero rapporto esterno con il mondo del vino. Oggi vivo il mio vino in maniera personale —cioè come rapporto con la mia terra, con introspezione— e lo mescolo con l’esterno, con le cose che mi fanno aprire. Persone, scambi, incontri: questo è come esprimo il vino nelle mie bottiglie.”

Agricoltori, artigiani, artisti. Può sembrare una manovra di marketing, ma non lo è. Questa gente semina la terra, la lavora con le proprie mani e tira fuori sempre bottiglie che sono espressione di sé stesse e sé stessi.
Sono artisti più puri di molti altri nelle gallerie d’arte.

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3akb98Andrea StrafileRedazione MunchiesFatto per Bene Munchiesvinosostenibilitàbiodinámica
<![CDATA[Sono stato a mangiare in un posto a Roma che serve solo cucina dell'Est Europa]]>https://www.vice.com/it/article/bvjndv/mangiare-cucina-est-romaWed, 03 May 2023 12:04:29 GMTL’insalata shuba è fatta a strati di barbabietole, patate, uova e aringhe affumicate tenute insieme dalla maionese il cui ultimo strato è rosa shocking e sembra una lasagna cucinata da un cuoco strafatto di acidi.

Ho sempre preferito gli skyline brutalisti a quelli di vetro e acciaio “Made in USA”, ed è forse per questo che non mi tiro indietro quando trovo i sapori forti e acri della cucina nata a est della Cortina di Ferro. 

Questi sapori sono di casa sono di casa in un ristorante di Roma, Associazione Culturale Caucaso, in zona San Paolo. Ben mimetizzato tra una trattoria di quartiere e un’osteria moderna, da quasi quindici anni è il polo enogastronomico della comunità est europea della Capitale.

Caucaso ai tempi fu “Matrioska” –come l’insegna suggerisce–, prima che l’inizio della guerra in Ucraina rendesse impossibile anche solo nominare parole russofone. Ma non è mai stato un ristorante russo: è da sempre un melting pot di persone ucraine, russe, armene, moldave, georgiane e bielorusse che convivono e si divertono assieme. 

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L’ingresso è alla fine di una rampa che scende al piano sotterraneo di un palazzo, come per l’accesso a un parcheggio. Il ristorante ha l’estetica elegante alla paraffina della casa di una vecchia zia o di un albergo di provincia, con le pareti coperte di specchi che poggiano su uno stucco veneziano rosa e i quadri con le cornici pesanti. I tavoli sono apparecchiati con cura, i coperti non più di quaranta. 

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L'autore all'ingresso dell'associazione culturale Caucaso

Quando entriamo c’è una saletta privata con luci blu e flash stroboscopici dove si sta festeggiando un compleanno a suon di hit est-europee; Il DJ passa anche una versione house della canzone sovietica Katjuša (noi ne facemmo una versione italiana, partigiana, “Fischia il Vento”), prima di virare verso ben altro immaginario con Bailando e Danza Kuduro. Gli invitati gradiscono sia la prima che la seconda parte della selezione musicale e in tutto il locale si respira un’atmosfera entusiasta, ma composta, con le persone che a giro si alzano dai tavoli, ondeggiano davanti alla consolle e tornano a mangiare borsh e caviale, mentre i camerieri fanno slalom educati servendo piatti coloratissimi. 

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È chiaro che qui il protagonista sia il cibo, ma sarebbe sbagliato tagliare fuori anche le altre attività aggregative, come il karaoke, le esposizioni d’arte e le partite di scacchi.

Siamo entrati in punta di piedi con la strana sensazione di essere in casa d’altri, ma dopo Katjuša che mi riporta ai tempi più barricaderi dell’adolescenza e dopo il primo bicchierino di vodka, mi è sembrato subito di essere stato invitato alla festa. Tutti qui sembrano conoscersi e, se non si conoscono, brindano dopo avere scoperto di avere lontani parenti in comune, dopo aver scoperto di passare le vacanze estive a qualche km di distanza. E se non hanno niente che li colleghi, sembra che ci pensi la loro viscerale passione per le aringhe a metterli d’accordo.

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Il proprietario, Gagik Aveetisjan, ci porta un menu, che è ricchissimo e non si limita ai soli piatti russi, ovviamente: è un viaggio tra Russia, Polonia, Ucraina, Armenia, Georgia, Bielorussia e Moldavia, un omaggio gastronomico a questi popoli e queste culture. 

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L'entrée: vodka, pane di segale, cetriolino e burro.
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Il menu con le immagini dei piatti.

Gagik Aveetisjan è armeno, arrivato a Roma nel 1999, e ci dice di aver aperto l’associazione proprio per costruire un luogo di ritrovo per la comunità dell’Est, che 14 anni fa qui era pulviscolare e dispersa. Ecco perché scelse il nome “Mastrioska”: “Doveva essere un contenitore che al suo interno accoglie, una dentro l’altra, tante differenti identità,” ci spiega Gagik Aveetisjan. “Questo posto è, ed è sempre voluto essere, un luogo aperto per le persone e in particolare per le persone dell’ex Unione Sovietica,” continua Aveetisjan. “Prima della pandemia eravamo un punto di riferimento forte per la comunità. Poi, quando è scoppiata la guerra, sono cominciate telefonate di minaccia solo perché credevano fossimo russi, fino a che non ci hanno suggerito di cambiare il nome dell’associazione.”

Eravamo rimasti al menu, torniamoci. Per qualche piatto c’è persino una foto scontornata con il nome sia in cirillico, sia in italiano. Il che ci aiuta non poco, in questa gastro-playlist pressoché inifinita di portate del Caucaso. Preso dalla paura di perdermi l’imperdibile, chiedo a Gagik di aiutarmi nella scelta. “Ci penso io,” mi dice. 

Il risultato è stato una sorta di menu degustazione per farmi assaggiare quello che lui pensa essere il meglio della sua cucina.

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L'autore mentre si mangia l'insalata shuba.

Si parte con un “amuse-bouche” molto est europeo: bicchierino di vodka accompagnato da una fetta di pane di segale con cetriolo e burro. Non poteva esserci partenza migliore. Il cameriere li trasporta su una paletta di legno con disegni floreali. “Noi prima di mangiare ci disinfettiamo” dice Gagik con il vago accenno al sorriso di chi non vuole nasconderti di saperla lunga. 

Poi gli antipasti: melanzane con panna acida e noci, l’insalata russa e quella shuba, fatta a strati di barbabietole, patate, uova e aringhe affumicate tenute insieme dalla maionese il cui ultimo strato è rosa shocking e sembra una lasagna cucinata da un cuoco strafatto di acidi. E ancora: il salmone marinato e le tartine di pane di segale con il caviale di salmone che esplode in bocca tipo le palline del Solero Shots, ma meglio. 

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Le tartine di uova di salmone.

Mi sto ancora interrogando sul sapore, colore o consistenza mi abbia colpito di più, se il gusto acre della melanzane, quel tenerissimo salmone marinato o il trip inaspettatamente delicato tra aringhe e barbabietole della shuba, quando arrivano a tavola il borsh rosso di manzo e a seguire i khinkali –ravioli georgiani ripieni di carne e spezie che si mangiano aggiungendoci sopra del pepe nero–.

Gagik sembra un santone culinario e mi spiega con attenzione sacrale il rito del mangiarli, come rispettare il gesto di prenderli rigorosamente con le mani e rigorosamente per la punta per poi rovesciarli e portarli alla bocca. Sembra che senza questa cerimonia il piatto perda il suo senso di esistere. In effetti è proprio così, perché nel raviolo c’è un accenno di brodino che senza questo movimento andrebbe perso per sempre tra piatto, tovaglia e vestiti. 

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L'autore si pappa il salmone.
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Il Borsch.

È anche il momento in cui decido di rompere ogni indugio e passo dal bere un buonissimo vino georgiano che Gagik paragona a un Chianti, al pasteggiare con vodka ucraina. È imparagonabile a quella che siamo abituati a bere nei cocktail allungata con la tonica o a quella che finisce in qualche improbabile shot dolciastro e colorato. Ha un aroma delicato che sovrasta il sapore dell’alcool, il che complica non poco le cose dato che è molto facile finire col berne parecchia.  

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Il menù continua con l’iconico spezzatino di manzo alla Stroganoff cotto nella panna acida e il manzo allo spiedo, per finire con la torta “Napoleone”, cioè una millefoglie, ma con la crema al burro. 

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La torta Napoleone.
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L'autore non può più fare a meno della vodka ucraina.

Quando mi alzo dal tavolo una delle invitate al compleanno mi chiede una foto, si mette una rosa tra i capelli e tiene in mano un piatto con una torta. Mi metto a sedere con loro: sono un gruppo di polacchi che vivono fuori Roma. È la prima volta che si ritrovano qui al Caucaso, ma ne avevano sentito parlare benissimo e sono felici di essersi ritrovati in una situazione come questa, e io non stento a crederlo. 

Quando Gagik ha aperto l’associazione, lo fatto per costruire un angolo dove sentirsi a casa. Oggi è un angolo in cui a casa si sentono in molti. 

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bvjndvGian Mario BachettiRedazione Munchiesristoranti MunchiesWTFrussiaucrainaest europacucina etnica
<![CDATA[I caffè infusi alla frutta potrebbero avvicinare tutti al mondo dello specialty coffee]]>https://www.vice.com/it/article/4a3wyq/caffe-infusi-alla-fruttaWed, 26 Apr 2023 15:18:37 GMTIn sostanza questi caffè sono fatti con della frutta inserita in fase di fermentazione: la drupa viene raccolta nel periodo di massima maturazione e messa nelle vasche a riposo per 18 ore con i frutti o le spezie selezionate, rigorosamente coltivati nel territorio circostante.

Posso tranquillamente affermare che il caffè, quello buono, è ormai una mia nuova ossessione.
Mi ero un attimo tranquillizzata, ma l’ossessione è tornata forte e chiara qualche mese fa, quando sono andata al Milan Coffee Festival –alla sua terza edizione, NdR–, e devo dire che da allora non mi accontento più dei soliti caffè bruciati e fatti male. Diciamo pure che non tutte le ossessioni vengono per nuocere.

È qui che ho anche scoperto una nuova possibile frontiera del caffè, grazie ai ragazzi di Ditta Artigianale, una torrefazione di Firenze: gli Infused Coffee alla frutta.

In particolare, da questa esperienza e da questi caffè infusi, mi sono chiesta che strada prenderà il mondo del caffè, che sta velocemente evolvendo: se sarà un trend veramente forte (come sembra essere per i vini naturali) o qualcosa il cui entusiasmo è destinato a spegnersi (come fu con l’olio o, in parte, con la birra artigianale). 

Di sicuro c’è in atto un cambiamento nel mondo, soprattutto all’estero, e sempre più si sta capendo l’importanza della filiera del caffè e di sapori molto più pieni e diversi.

L’affare diventa un po’ più complicato in Italia, però, dove siamo ancora appannaggio del nostro caro vecchio espresso e della nostra benamata moka, quasi sempre corredati da tipologie di caffè scurissime che rendono le nostre tazzine abbastanza uno schifo. Ma si sa, a noi italiani piace da morire difendere a spada tratta le nostre tradizioni, guai a chi le toccasse. 
Francesco Costa, in una puntata del suo podcast “Morning”, ha riassunto bene i nostri problemi con il caffè: “Non distinguiamo le varietà, se è un po’ bruciato ci piace, viene servito ustionante e in più ci mettiamo lo zucchero…” In teoria quasi tutto sarebbe sbagliato. 

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Francesco Sanapo, uno dei fondatori di Ditta Artigianale.

Ma torniamo a Ditta Artigianale, che è un po’ il faro delle roastery italiane. 
Fondata nel 2013 da Francesco Sanapo e Patrick Hoffer, si prefissa da anni di far conoscere il caffè specialty, quello buono, al pubblico più vasto; al momento hanno cinque caffetterie a Firenze, con un’altra in apertura nel 2023, una a Toronto in Canada e oltre 70 dipendenti.
“Sono una persona che controlla tutto,” mi racconta Francesco Sanapo. “Giro in bici per i locali ogni giorno alla ricerca di errori e cose da aggiustare.” Insomma, sono persone che vogliono spingersi sempre oltre. 
Riguardo la diffusione di un caffè senza compromessi mi dice anche che “cercare di spiegare il caffè senza troppi tecnicismi è la nostra missione.”
E direi che ci stanno riuscendo, dato che il loro specialty coffee è entrato anche sugli scaffali dell’Esselunga. 
“Uno dei miei obiettivi, forse il principale, è quello di portare il caffè di qualità alle persone, far capire l’importanza del prodotto tostato fresco e in grani.” 

Il mercato, come si può immaginare, è già in partenza molto limitato, dato che il prezzo è tre volte superiore alla media del caffè che si trova sugli scaffali, ma in questo modo si pone il cliente di fronte a delle domande fondamentali: da dove arriva il caffè che ho sempre usato? Perché costa così poco rispetto a quell’altro? Cosa c’è dietro?
“Forse solo così pian piano si evolverà tutto il sistema, dai produttori fino al bancone del bar,” chiude Sanapo.

Ed è anche nell’ottica di far conoscere al grande pubblico a piccoli passi il vero mondo del caffè che sono stati creati questi Infused Coffee alla frutta. “È un percorso iniziato 5 anni fa con alcuni produttori di caffè tra Costa Rica, Honduras e Colombia con i quali lavoriamo da 10 anni. Ma il primo risultato ottimale è arrivato l’anno scorso e solo ora approda sul mercato, anche se con una piccolissima produzione: 700 kg di chicchi che ci siamo divisi con La Cabra, un noto distributore di caffè danese,” mi racconta Francesco Sanapo. 

Se non si è dei fissati del caffè, sicuramente non è facile, non si ha il palato per cogliere tutte le sfumature di sapori e odori e progetti come questo potrebbero accorciare le distanze tra consumatore e il mondo degli specialty coffee. 

Ma come funzionano, quindi, questi Infused Coffee?  
“Sono miscele, chiamiamole pure contaminate, nate da diverse sperimentazioni con la fermentazione anaerobica (che significa senza ossigeno: i chicchi sono messi a fermentare in vasche d’acqua private di ossigeno, il che dona sfumature molto diverse e aumenta la complessità di sapore, NdR.). In particolare è un lavoro fatto con Felipe Arcila, produttore e agronomo colombiano. Abbiamo cercato di andare oltre le frontiere del fare il caffè.”

“Sono stati scelti pesca, fragola e cannella, perché sono quelli che hanno dato i risultati migliori. Abbiamo fatto prove anche con la menta, la papaia, il frutto della passione e sicuramente continueremo a sperimentare.” 

In sostanza questi caffè sono fatti con della frutta inserita in fase di fermentazione: la drupa –ovvero il frutto del caffè, simile a una ciliegia– viene raccolta nel periodo di massima maturazione, messa nelle vasche a riposo per 18 ore con i frutti o le spezie selezionate, rigorosamente coltivati nel territorio circostante. A questi vengono aggiunti anche dei lieviti del vino che riescono a rendere gestibile la fermentazione naturale che, essendo totalmente spontanea, ogni volta è diversa.  

“È sempre un caffè, ma con note chiare di frutta” afferma Francesco. 
Mi trovo d’accordo; all’assaggio è chiaro che stiamo parlando di un caffè ma devo ammettere che le papille gustative un po’ impazziscono, non capiscono esattamente cosa sta succedendo. Poi, ad una drogata come me degli infusi e delle tisane, si crea un sorprendente cortocircuito nel cervello.
“Sono stati scelti pesca, fragola e cannella, perché sono quelli che hanno dato i risultati migliori,” mi racconta Francesco Sanapo. “Abbiamo fatto prove anche con la menta, la papaia, il frutto della passione e sicuramente continueremo a sperimentare.” 

Alla fine questi Infused Coffee strizzano un po’ l’occhio alle tisane, anche se nella loro forma di filter coffee lo hanno sempre fatto: hanno l’identità di un caffè filtro con nette sfumature di quelle che potrebbero essere delle classiche tisane. Infatti è con la tecnica del V60 (per percolatura) e con l’Aeropress (a pressione manuale, una specie di french press molto più fica) che danno il loro meglio ma, come dice Francesco: “Non mi voglio fermare con quesi due processi, mi piacerebbe creare una miscela per espresso.”

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L'estrazione del caffè tramite V60, per percolatura.

E aggiunge: “L’idea non è solo però di avvicinare le persone comuni, che non sono nerd del caffè, insomma, ma di dare in primis un prodotto nuovo, di creare un mercato nuovo, di dare nuovo entusiasmo in questo mondo del caffè. Ma anche usarli come pairing o come ingredienti per cuochi e pasticceri, ad esempio.”
In effetti me lo mangerei uno strudel accompagnato dall’infused coffee alla cannella. 

“Non temo nemmeno che verremo additati come quelli che hanno creato un qualcosa di orribile, rovinando il caffè, o magari usando cose chimiche in produzione: abbiamo lavorato tanto per farci conoscere come persone del caffè precise e affidabili e questo ci ripagherà anche nel nuovo progetto.”

Non so se finalmente avremo intere pagine di caffè da scegliere a breve e un po’ ovunque. Non so nemmeno se mai riusciremo a capire che il nostro caffè non è niente di che.

Ma certi processi possono rivelarsi rivoluzionari e a me, che ormai sono ossessionata, non può che fare piacere, se succede.  

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4a3wyqPaola BuzziniRedazione MunchiesFatto per Bene MunchiescaffèsostenibilitàWTF
<![CDATA[Sono stato in una spa dove puoi fare trattamenti alla grappa]]>https://www.vice.com/it/article/g5yg7w/sono-stato-in-una-spa-dove-puoi-fare-trattamenti-alla-grappaMon, 24 Apr 2023 14:25:49 GMTLa prima parte è stata con uno scrub di zucchero ed estratto di vinacce, con tanto di crema idratante ai vinaccioli, che è anche stata la parte più kinky del trattamento,: quando ti scartavetrano la pelle fa male, ma godi anche un po’.

A Mombaruzzo, località da cartolina nell’astigiano, famosa per gli amaretti, nei sotterranei di un antichissimo relais, Villa Prato, c’è una spa peculiare: una spa che offre l’opportunità di fare trattamenti a base di grappa.
Avevo sentito parlare di trattamenti alla birra, di vinoterapia, ma la grappa e i suoi materiali di scarto per farmi massaggiare mi mancavano. 

Ovviamente, quando mi hanno invitato, mi sono fiondato.
Spoiler: i trattamenti alla grappa mi hanno scacciato l’ansia che mi attanagliava da giorni.  

Quando dico che Villa Prato è antichissima, non sto scherzando: parliamo di una dimora del 13esimo secolo, che fu la casa della famiglia aristocratica dei Prato. Oggi è stata acquistata dalla famiglia Berta (quella della famosa grappa Berta), che l’ha ristrutturata e riportata ad antico splendore. 
All’interno ci sono otto suites, una cigar lounge dove provare a essere Tony Montana in Scarface per un momento, un bistrot, un ristorante e una sala costruita sotto terra che è molto figa. 

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Villa Prato dove abbiamo fatto il percorso di grappaterapia.

E poi c’è, ovviamente, la spa, che pare essere una delle più grandi e belle d’Italia, nella quale, oltre ai soliti massaggi, idromassaggio con vista sulle colline (oh, sì), bagno turco e il percorso Kneipp (quella follia per cui passi da acqua calda ad acqua gelida), c’è, appunto, la nostra grappaterapia

La grappaterapia è una serie di trattamenti fatti con le vinacce esauste che arrivano alle distilerie Berta dalle cantine di tutta Italia.
La filiera funziona pressapoco così: dopo che l’uva è stata vendemmiata e pressata —nel caso dei vini rossi e rosati si è fatto un breve periodo di contatto tra mosto e bucce—, le vinacce, che devono essere soffici e umide, vengono raccolte e destinate alle Distillerie per la produzione della grappa.

Dopo che la vinaccia passa nel primo alambicco, la componente alcolica prosegue il suo viaggio per diventare grappa, mentre la vinaccia è, come si dice in gergo, esausta: ci sono aziende che la usano per farne bio-combustibile, mentre in questa struttura viene utilizzata per la nostra grappaterapia. Si usano persino i semi dell’uva, che vengono isolati e spremuti per farne delle creme. Insomma, un’economia di riciclo niente male. 

Direte voi: la solita trovata di marketing per ricchi. Diranno loro: no, la grappaterapia è supportata da basi scientifiche, come dice questo studio e pure questo; gli estratti d’uva sono ricchi di proprietà antiossidanti, quelli dei polifenoli e dei flavonoidi contenuti nelle vinacce.
I prodotti di bellezza a base di uva e vinacce aiutano a contrastare l’invecchiamento cellulare, a purificare la pelle, tonificare la microcircolazione periferica, ad idratare e donare nutrizione proteica, lipidica, vitaminica e minerale. Insomma: direte voi, hanno detto loro e ora dico io: è stato incredibilmente rigenerante, per farla breve.

Ma veniamo all’esperienza.  

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I fanghi alle vinacce spalmati sull'autore.

Partiamo dicendo che non sono un grande frequentatore di spa.
Ritengo soprattutto il massaggio una cosa un po’ troppo intima per lasciare che mani sconosciute, per quanto professionali e disinteressate, maneggino il mio corpo. Ma dovevo farlo per voi. 

Dopo avermi fatto accomodare per un pranzo in accappatoio con vista sulla terrazza della Villa, la ragazza gentilissima del desk —con la quale condividevo l’anno di nascita e una passione comune per la musica techno, che lei esprimeva in maniera un po’ nostalgica io un po’ più attuale— mi ha mostrato tutto il labirinto a tre piani della spa. 

Un po’ terrorizzato all’idea di perdermi o, peggio ancora, di risultare agli occhi dei pochi presenti un non-habitué, mi sono diretto subito all’appuntamento con la mia massaggiatrice, per mostrare a tutti che sarò anche goffo, ma affronto la cosa in maniera seria.

Quindi eccomi  qui, sdraiato su un lettino con la faccia in un buco, ignaro di cosa sarebbe successo al mio corpo. Ora che lo so, un grazie speciale alla mia massaggiatrice, che è stata bravissima e mi ha pure scattato foto mentre ero sciolto da quanto rilassato.
Se volete qualche dettaglio in più sul mio massaggio alla grappa, vi accontento subito: è durato la bellezza di due ore (capito perché ero sciolto?).

Una prima parte con uno scrub (85 euro per 50 minuti) di zucchero ed estratto di vinacce con tanto di crema idratante ai vinaccioli, che è anche la parte più kinky del trattamento, perché quando ti scartavetrano la pelle fa male, ma godi anche un po’. La qual cosa è seguita da fanghi termali, un massaggio su tutto il corpo, fronte-retro, come una fotocopia, a base di creme e cremine di grappa e una mossa cranio sacrale; una di quelle che fanno paura da morire perché stai affidando il tuo collo a una sconosciuta, ma che ti rimette al mondo. 

Nel complesso mi sono sentito un po’ a disagio, perché la massaggiatrice ha toccato il mio corpo per due ore e mi ha salutato con un “hai i muscoli un po’ riginidini, eh,” ma l’odore di grappa, dei profumi delle vinacce per due ore non era affatto male. Avrei preferito finire il tutto con uno shot di grappa barricata, ma c’erano solo tisane nella stanza degli infusi.

Se volete un’immagine semi erotica di me, pensate a quando in treno non ho fatto altro che accarezzarmi le braccia lisce, a volte con le labbra, per godere di più dell’effetto seta.

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Lo scrub alle vinacce.

Tutti questi trattamenti di grappa esausta, però, hanno un’origine: la grappa che si beve davvero delle distillerie Berta. Sono quindi andato anche a vedere come si fa. La distilleria è, letteralmente a tre minuti di macchina.

Per chi, come me, è abituato a vedere solo cantine e acetaie, una distilleria ha un non sono che di speciale: è affascinante vedere al lavoro degli alambicchi, che fanno subito Mago Merlino.
Loro distillano in maniera discontinua, il che, per farla facile, è il modo nel mondo degli spirits per dire che è più “artigianale” e la grappa Berta, in particolare, viene fatta invecchiare in botti speciali (barrique, tonneaux  e botti piccole di legno). La loro idea di invecchiamento si rifà a quella dell’invecchiamento del whisky scozzese. Anzi: le botti si scelgono proprio da distillerie scozzesi e si portano in Piemonte per dare note affumicate e torbate. 

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La sala della grappaterapia.

Tra l’altro, poeticamente ma anche in maniera bizzarra, nella fase di invecchiamento il tutto è accarezzato dalla musica classica che, pensano, aiuti la maturazione. A completare questa bella pazzia, luci a led che cambiano colore che fanno cromoterapia alla grappa che verrà.

Essendo poi le botti traspiranti per definizione, l’aria è invasa da un sacco di profumi; peccato solo che non ci si sbronzi solo con i soli fumi profumati. 

Per chi non fosse pratico dell’alcolico preferito dagli alpini, la grappa è un distillato ottenuto dalla vinaccia, ovvero dalla buccia e dai semi dell'uva che rimangono dopo la spremitura. 

Dopo la fermentazione del mosto per il vino, le vinacce vengono separate e lasciate a contatto con il mosto per un po' di tempo. Successivamente, il mosto prosegue la sua evoluzione, mentre le vinacce vengono scartate e utilizzate per produrre la grappa. Il fattore cruciale nella produzione della grappa sono le bucce dell'uva, che devono essere fresche e ancora impregnate di vino, il che rende la creazione di una buona grappa un'impresa non facilissima. Se si utilizzano vinacce bianche, per esempio, che di solito non rimangono a contatto con il mosto, è necessario attendere che fermentino per trasformare lo zucchero in alcol.

Un'altra difficoltà nella produzione della grappa sono le impurità. Più sono presenti vinaccioli e raspi (i rametti dei grappoli d’uva), minore sarà la qualità del prodotto finale.
La distillazione di vinacce ha origini remote non certe, ma il Piemonte ha certamente ha una tradizione lunga nella produzione di distillati d’uva. Nel 1739, fu creata la Corporazione dei Confettieri e Distillatori di Acquavite di Torino, che forniva norme e regolamentazioni specifiche per tutti coloro che praticavano l'arte della distillazione della grappa, dimostrando l'importanza e la valorizzazione della produzione di distillati nella regione.

Nel dialetto locale, la grappa è chiamata branda per motivi oscuri (ma ricordatevi che il termine grappa arriva solo a inizio secolo scorso). 

Insomma, la grappa è il distillato italiano per eccellenza ed è ancora appannaggio di anziani e persone di montagna. 

Magari farsi un trattamento alle vinacce, con la pelle tutta profumata dopo ore di massaggi, può convincervi che è ora di smetterla di chiedere Gin Tonic e provare un distillato che ha decine di sfumature pazzesche.

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g5yg7wCarlo GibertiniRedazione MunchiesWTFbenessere MunchiesGrappaalcoldistillati
<![CDATA[Questo ragazzo produce un'acquavite con una bacca introvabile]]>https://www.vice.com/it/article/93kyke/acquavite-sostenibile-viterboFri, 14 Apr 2023 13:59:17 GMTHo sempre trovato affascinante il mondo degli alcolici. Sì, mi piace bere –e ogni tanto mi piace anche buttare giù Peroni da 66cl una dopo l’altra–, ma bere bene e approfondrire la storia di bottiglie, alcolici e cocktail è una cosa che mi interessa. 

In questa ricerca c’è un distillato che mi ha fatto lambiccare il cervello, un’acquavite dalla storia interessante e bizzarra: Yuvi, prodotta a Vetralla, nella campagna vicino Viterbo. 

Qui, dal 1983 risiede dal, una piccola azienda agricola, la Villa Chiarini Wulf, gestita oggi da Kostantyn Wulf, e prima dai sui genitori. Se vi state chiedendo perché ci sia un ragazzo con un nome che non suona molto della provincia di Viterbo è perché Konstantyn è metà tedesco, metà americano ed è cresciuto in provincia di Roma. 
La scelta del territorio non è casuale: il terreno tufaceo nei dintrorni di Viterbo offre una fertilità del terreno molto di livello.

Ma stavamo parlando di acquavite. Per quanto riguarda Konstantyn,  sicuramente non manca l’esperienza sul campo nel mondo degli alcolici. 

Dopo più di sette anni fuori dall'Italia, gestendo bar a Bangkok come il Blaq Lyte e in Vietnam, sviluppando e creando drink di prim’ordine, ha deciso di tornare in Italia e iniziare una nuova storia sfruttando la sua esperienza nel campo della mixology. Che gli sarebbe tornata molto utile per la sua acquavite.

Dopo essere stato invitato alla villa, cibato di carne locale e aver bevuto sontuose bottiglie di vino naturale prodotto da loro, ho voluto approfondire la storia di Kostantyn ma anche scoprire un prodotto, in questo caso l’acquavite, che non mi è nuovo: avevo già assaggiato l'acquavite di Psenner prodotta da Williams Christ in Alto Adige e un distillato di pesche di Saturno di Capovilla. 

Se non sapete cosa sia l’acquavite, ve lo spiego in due parole. 

Tecnicamente “acquavite” è il termine con cui, quando si è iniziato a distillare nella storia, chiamavamo la roba distillata. “Acqua”, “Vite”, inteso come “acqua di vita.”
Oggi però, nello specifico, consideriamo l’acquavite una categoria alcolica a sé, un po’ labile e non troppo riconosciuta, ma a sé. L’acquavite è un distillato che si ottiene o dal mosto di vino (quindi succo e vinacce fermentate), ma anche dalla frutta o da altro. Diciamo che ci rientra abbastanza roba sotto il cappello di acquavite. A volte ci si comprende anche la grappa nella categoria di acquaviti, anche se la grappa ha una base diversa, cioè le vinacce vergini.

Pare, parlando di grappa, che il nord-est fosse predestinato: una leggenda parla di un legionario romano che portò la distillazione in Friuli (cosa così improbabile che suppongo l’abbiano inventata i friulani stessi); ma, sempre in Friuli, nel 500 d.C, si scopre la prima installazione adibita alla distillazione del sidro di mele, a opera di una tribù della Germania dell'est, i Burgundi. 

Oggi, dopo aver rischiato di perderci per strada le microdistillerie di grappa e acquaviti del nostro paese, stanno finalmente rifiorendo, dopo un periodo, gli anni ‘80, in cui le aziende grandi la facevano da padrone. La passione dei distillati cresce, sta crescendo, e così le micro distillerie sono rifiorite, dagli USA all’Europa, all’Italia. Negli anni abbiamo visto variazioni di acquavite con prodotti che vanno dalla semplice uva, alla pera, l’albicocca fino alla ghianda, prodotto molto popolare in Sardegna. 

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Ma ora torniamo a Yuvi: Konstantyn Wulf sceglie un prodotto diverso, dolce, complesso: le bacche di aronia. 
“Mi sono sempre piaciuti i distillati a base di frutta fermentata,” mi dice Konstantyn mentre sorseggiamo la sua Yuvi. “Trovo che tutti i distillati a base di frutta abbiano un profilo molto distinto, perfetti come base per cocktail persino. Ed è un pregio raro, anche perché non molti alcolici hanno questa flessibilità’. 

La bacca di aronia è strana: non si trova in Italia –a parte qualche coltura sperimentale in Friuli e poco altro–. È originaria del Nord America e in Europa si trova in Polonia e in Russia. 

Bacca che arriva alla maturazione durante la stagione autunnale, conosciuta per la sua resistenza e capacità di crescita autonoma e molto pregiata per le sue qualità antiossidanti. 

‘‘Abbiamo piantato le piante di aronia nel 2016,” mi racconta Konsantyn. “Cercavamo un arbusto resistente con la capacità di crescere 100% organicamente senza nessun utilizzo di pesticidi. Le bacche che abbiamo piantato sono originarie dell'America del Nord e le abbiamo scoperte in viaggio, in Est Europa’.

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Villa Chiarini Wulf.

La Villa Chiarini Wulf e dal 1989 ufficialmente riconosciuta come azienda bio, con un focus molto forte sulla tracciabilità e sostenibilità. Questo significa di non usufruire di macchinari o elementi industriali, ma un grandissimo lavoro di artigianato con rispetto per il suolo, le piante e tutto il resto. Quindi come funziona il processo? 

“Ci sono voluti un paio di anni di sperimentazione prima di decidere concretamente di tramutare le bacche in distillato, però stavamo già lavorando con il vino, il che voleva dire introdurre pochi cambiamenti nel processo di produzione. Abbiamo cominciato I primi esperimenti fermentando le bacche con la sansa (residuo della spremitura dei noccioli, buccia e polpa dell’oliva) che è una tecnica simile a quella usata per ottenere più tannini per il vino rosso,” mi racconta Konstantyn Wulf. +

“Una volta pressate le bacche ed ottenuto il succo, trasferiamo tutto alla nostra distilleria di fiducia in Toscana, distilleria Nannoni, gestita dalla signora Priscilla Occhipinti, con cui lavoriamo da più di 20 anni”. 

Arrivate in distilleria, le bacche vengono sottoposte a una fermentazione in serbatoi di acciaio inox, una fermentazione che avviene a 20 gradi. I serbatoi di acciaio offrono un contenitore perfetto, perché non ha alcun effetto sui contenuti e offre un perfetto controllo per  quanto riguarda le escursioni termiche. 

“A fermentazione completata , i contenuti vengono poi distillati in alambicchi di rame con un sistema discontinuo a vapore. Un sistema discontinuo vuol dire che dopo ogni ciclo di distillazione, bisogna interrompere il processo per aggiungere altra vinaccia. Per questo processo necessitiamo di 4 parti: un contenitore, dove tenere il liquido da distillare, dove troviamo anche un sorgente di calore, per esempio una caldaia. Un coperchio, che copre il liquido e di conseguenza crea condensa dove si formano i vapori ricchi di sapore e alcol. Un tubo, o anche conosciuto come ‘collo di cigno’ dove il vapore può muoversi. E infine, una parte di tubo a serpentina dove il vapore si raffredda e viene riportato allo stato liquido.”

Persino il vetro di imbottigliamento e la carta per le etichette sono sostenibili, riciclati al 100%. Anche se non è una cosa semplice, mi dice Konstantyn, è una delle parti più gratificanti di tutta la produzione.

Ho provato tre bottiglie di Yuvi, da quella del 2021 a quella di quest’anno: è un alcolico dal sapore pieno, da degustare con calma, a grado alcolico pieno.

Quando bevi qualcosa i cui sorsi immediatamente successivi al primo vanno lisci come l’acqua, significa che stai bevendo qualcosa di fatto come si deve. 

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Le bacche di aronia con cui fanno Yuvi.

Gli aromi erbacei e quelli di ciliegia escono forti e chiari, ma in maniera raffinata, ti viene voglia di berlo e non solo di assaporarlo. 

E non stiamo parlando qui di un ottimo digestivo: credo sia anche un ottimo prodotto per risolvere la questione dei prodotti come le grappe in mixology. Come ho potutto assaggiare, Yuvi lavora benissimo nei cocktail, li arricchisce con le sue sfumature aromatiche. “A me piace farci il Blood and Sand (un cocktail classico del 1930 con scotch whisky, vermouth rosso e succo d’arancia NdR). Mettere Yuvi al posto dello scotch. Avrai altri sentori, ma la stessa potenza alcolica e il cocktail non risulterà poi così alterato, anzi.”  

Che vi piaccia pasteggiare con alcolici forti dopo cena o cerchiate qualcosa di nuovo in un cocktail, fidatevi: questa acquavite è una bomba che dovreste provare.


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93kykeSebastiano AlessandroniRedazione Munchiesalcol MunchiessostenibilitàdistillatiGrappa
<![CDATA[In questo ristorante di montagna ho capito davvero cosa vuol dire cucinare sostenibile]]>https://www.vice.com/it/article/m7bej8/reis-ristorante-sostenibile-cuneoWed, 12 Apr 2023 13:55:24 GMT“Avere la stella ti fa capire di aver raggiunto un livello per cui puoi decidere cosa fare, ma io non riconosco più quel mondo. Io ho scelto una nuova filosofia di ristorazione e la mia missione è condividerla”

Dall’annuncio della chiusura del Noma di Copenaghen si è molto parlato della crisi dei ristoranti stellati, o di un cambio per la cucina fine dining come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi.
Si è parlato di rimettere in discussione un sistema —un concetto ancora abbastanza labile— e io, nel mio piccolo, penso di aver trovato una buona rivoluzione da Reis-Cibo Libero di Montagna a Chiot Martin, nel cuneese.

Qui lo chef Juri Chiotti ha deciso di cambiare vita e proporre la sua idea di cucina, di mettere in discussione anche lui l’alta cucina così come è sempre stata conosciuta, dopo esperienze in ristoranti come “Cracco”, “Rosa Alpina”e dopo aver preso una stella Michelin a Cuneo, “Dalle Antiche Contrade”.

Il suo nuovo Reis è un micro-mondo a 1000 metri d’altitudine, nascosto in un angolo della Valle Varaita, in Piemonte, in cui la strada si inerpica, il navigatore si perde e il panorama si apre sulle Alpi, con il Monviso in faccia che ammicca come ad approvare la scelta del ripopolamento di questi luoghi. In cucina si sta preparando il nuovo menu, ma lo chef Juri Chiotti ci accoglie con gli stivali di gomma e la tenuta da lavoro, ovvero da contadino. Davanti a me non ho lo chef stellato di cui parlano tutti gli articoli che ho letto su di lui: “Sono stufo della narrazione dello chef stellato,” mi dice.

“Le ho avute [le stelle Michelin] per due anni e ti restano addosso per tutta la vita. Certo, è un bel traguardo che sono riuscito ad ottenere, ma ora sono più uno chef stallato. Avere la stella ti fa capire di aver raggiunto un livello per cui puoi decidere cosa fare, ma io non riconosco più quel mondo. Io ho scelto una nuova filosofia di ristorazione e la mia missione è condividerla”.

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Lo chef Juri Chiotti e uno dei suoi agnellini.

E per farlo non si parte dalla cucina, ma da tutto quello che viene prima. Allora lo seguiamo tra le incombenze del giorno, nel caldo innaturale di un pomeriggio di marzo che scioglie la poca neve della stagione e copre i pendii di fango. Siamo a Chiot Martin, una borgata in cui affondano le radici della famiglia di Juri, dove è nato suo padre e dove tutto è in equilibrio tra tradizione e sostenibilità. Non perché sia di tendenza, ma perché la vita di montagna deve assecondare la natura per necessità, cosa che Juri ha amplificato in ogni aspetto.

Il ristorante si trova nel vecchio fienile e la stalla è diventata una delle salette. La casa dello zio ospita i conigli e il pollaio, mentre le pecore e le capre, quando non sono in giro per i prati a banchettare con le erbe fresche, stanno in un’antica stalla di pietra.
“Cuneo per molti è già un luogo abbastanza remoto, cosa ha fatto scattare l’asticella e ti ha fatto decidere di spostare tutta la famiglia (incluse tre bambine e un bambino in arrivo) fin qui"?”

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“Lavoravo con Diego Rossi di Trippa a Milano, chef di città ed è stato lui a farmi notare che passavo i miei giorni liberi tornando sempre qui, in cerca di erbe spontanee e formaggi,” mi dice lo chef. “Così mi sono detto che se i sapori migliori si trovavano qui, allora valeva la pena tornare per restare. Mi ha aiutato a capire che avrei fatto il mio mestiere al meglio nel posto che più conoscevo e che con quel mestiere avrei anche potuto raccontare qualcosa. Mi son detto che forse potevo fare quella rivoluzione di cui la ristorazione ha così fame.”

“Assistendo alla fatica concreta nel produrre il cibo diventa facile da comprendere la scelta di ottimizzare gli sforzi.”

Juri Chiotti dà il fieno alle pecore, vicino a me due capre ammirano il paesaggio, l’immenso cane da pastore (unico alleato contro i lupi) rincorre il fotografo e io ancora mi chiedo quale sia questa grande rivoluzione, al di là di avere prodotti a metro zero e avere il coraggio di cucinare gli agnellini che stanno gironzolando attorno alla mamma tra la paglia. Ma lo chef me lo chiarisce presto: “Il cambiamento più grande è che solitamente un cuoco pensa ad un piatto e poi cerca gli ingredienti. Io faccio il contrario,” mi racconta. “L’approccio è diverso perché noi sappiamo che non possiamo sprecare nulla, quindi non mettiamo al primo posto l’estetica.” Che comunque c’è, aggiungo io.

“Assistendo alla fatica concreta nel produrre il cibo diventa facile da comprendere la scelta di ottimizzare gli sforzi. Se ho un prodotto che voglio lavorare e so benissimo che ci sarebbe, da qualche parte nel mondo, un ingrediente che si abbinerebbe magistralmente, ma io ne ho un altro che non è altrettanto perfetto, allora scelgo quello vicino a me. Mi limito per rispettare e dare maggior valore a quello che ho”.

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Lo chef ci mostra la carne che viene dal suo allevamento.

Facciamo un esempio: il riso è uno dei suoi prodotti preferiti perché “il risotto è come un foglio bianco.” Ecco, invece di prendere il Carnaroli, Juri ne sceglie uno tecnicamente imperfetto, ma prodotto all’Abbazia di Staffarda, pochi chilometri a valle. Poi lo cuoce al putagè, la classica antica stufa a legna piemontese, ma in versione un po’ più moderna e lo prepara con quello che offre l’orto. “Questa settimana, ad esempio è con porri, kefir di capra e rosmarino.”

Anche la quotidianità nella gestione di un ristorante a come Reis è diversa. Anzitutto, il ristorante è aperto soltanto dal venerdì al lunedì, perché la settimana è dedicata al lavoro agricolo, che determina il gusto nel piatto, ma anche il menu. Qui la carta non cambia soltanto in base alla stagionalità, ma in base alla dispensa. Se un prodotto finisce durante il servizio non lo si può comprare, ma finisce e basta e sarà sostituito da un nuovo piatto.
La scelta di un’apertura limitata è anche etica, dunque: “Siamo andati troppo oltre, ci siamo abituati ad andare sempre a cena fuori, ma il cibo non è una cosa che possiamo delegare ad altri. È una comodità insostenibile,” mi dice Juri Chiotti. Un passaggio un po’ confuso, devo ammettere, dato che ha lui stesso un ristorante. Ma suona poetico lo stesso.

“Cibo libero di montagna, per me, vuol dire anche non limitarsi a cosa cucina la nonna, ma cercare di ritagliarci un futuro in cui decrescita e progresso si equilibrino.”

“L’alta cucina, almeno per me, non dovrebbe essere un mezzo per divertirci, ma dovrebbe essere una fotografia fatta da un esperto di cibo che ti dice come ti dovresti nutrire. Sappiamo che il cibo oggi è responsabile del 40% dell’inquinamento del mondo e il cuoco, in quanto esperto in materia, deve responsabilizzare il suo pubblico. Invece molti continuano a voler accontentare solo il loro ego e le loro tasche. Non possiamo più concentrarci sull’abbinamento, la tecnica o la creatività: dobbiamo imparare a coltivare, a capire da dove arrivano le cose che cuciniamo, poi viene il resto. Dobbiamo proprio rivedere tutto. Il cibo non può più essere solo divertimento.”

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Mi ha convinto e continua a farlo: il caffè sostenibile di D612, il cioccolato etico di Lim Chocolate, le vecchie porte recuperate nelle baite abbandonate e riutilizzate per rivestire l’interno del ristorante, le travi portanti in legno di castagno locale, la selezione di vini naturali di montagna e le conserve in vendita fatte con il surplus dell’orto. Eppure, mi chiedo, non è che a voler produrre tutto da sé si rischia di perdere la bellezza della diversità e di diventare un po’ reazionari anche nel piatto?

“Io non voglio scendere a nessun compromesso sul come si coltiva un prodotto, ma non pongo nessun limite alle varianti, ad esempio abbiamo piantato dei peperoncini che qui non si sono mai coltivati, ma che tra cambiamento climatico e voglia di sperimentare hanno trovato il terreno perfetto. Cibo libero di montagna, per me, vuol dire anche non limitarsi a cosa cucina la nonna, ma cercare di ritagliarci un futuro in cui decrescita e progresso si equilibrino. Per fare questo lo scambio e la commistione sono fondamentali, ecco perché abbiamo uno staff internazionale.”

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Questo chef mi ha spiazzato con la teoria. A ogni colpo di vanga corrisponde una domanda etica, a ogni inforcata di fieno la sua risposta ben ponderata e articolata. Manca soltanto una cosa: insomma, cosa si mangia alla fine? Juri cambia divisa, si fa cuoco e mi illustra quel che bolle in pentola o, meglio, sul putagé.

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Batsoa fritto con cipolle in agro e cavolo alla brace. Foto per concessione di Reis.

Il menu degustazione, detto “A Nostro Modo”, è composto da sette portate (50 euro) in cui il rapporto tra carne e vegetale è sempre di 1 a 1 per dare il giusto valore alla verdura e nel menu ci sono cinque portate vegetariane”, mi spiega.
Considerando poi che gli agnelli non vengono macellati a due mesi (Juri gli mette un elastico sui testicoli, castrandoli in modo indolore, e li macella quando hanno un anno) e che vivono liberi nei prati, anche le due portate di carne sono un concentrato di consapevolezza e rispetto.

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L'insalata di Reis contro lo spreco. Foto per concessione di Reis.

Dalla rollata di pecora cotta per inerzia tutta la notte nel putagé spento, al tataki di salmerino con tomatillo, mela, capperi di aglio orsino e olive o ai gyoza di cotechino e verza in brodo affumicato di testina e zenzero, il gioco è quello di attirarti con sapori che ricordano la cucina della nonna e spiazzarti con note che ti portano via lontano. Rigorosamente senza sporcare il pianeta con la tua carbon footprint). E per chi cerca i sapori di montagna ci sono i piatti più tipici, sempre rivisti secondo i principi di Juri, come il Tumin dal Mel con patate arrosto e spuma di aiolì o il signature dessert: panna cotta al fieno di montagna e sciroppo di pino cembro.

C’è un angolo della cucina che mi attira perché sembra il banco di un alchimista. Qui, scopro, si gioca con le fermentazioni: che anche Juri si sia fatto sedurre da una moda del momento? Ovviamente no, hanno un loro senso.
“Le fermentazioni saranno mainstreem, ma se non vuoi buttare via nulla e preservare i tuoi prodotti, sono una tecnica importante. In montagna le conserve, le marmellate e, perché no, anche le fermentazioni, sono passaggi fondamentali”.

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La sala con vista di Reis.

Facendo un rapido controllo: con la teoria ci siamo, con i gusti stiamo volando, il locale è stiloso e sostenibile. Manca solo una voce per capire se questa rivoluzione può davvero funzionare.
I soldi. Insomma, si può campare così? “Se ti fai il culo, sì”.
O meglio: “La cosa più difficile è la costanza di essere presenti sette giorni su sette in azienda. Stanno succedendo molte cose belle e vorrei che succedessero più in fretta, ma qui i tempi li decide la natura. Da lunedì a giovedì sono nell’orto, o tagliare la legna, o a spalare la neve. In settimana posso gestire il mio tempo in un’anarchia agricola, mentre nel weekend torno alla tempistica precisa della cucina. Mi sembra un buon equilibrio. Però ci va molta manualità e con gli animali devi sempre essere presente, che tu abbia l’influenza o che sia Natale,” mi spiega Juri.

“È un progetto fattibile solo se hai un’ossessione, più che una passione. Poi in questo tipo di allevamento non vedi il ritorno economico subito, ma arriva lavorando l’animale e, quindi, cucinandolo.”

C’è ancora molto lavoro da fare, e le idee di Juri non mancano, dalle attività didattiche per i bambini al salorto per l’estate (un orto in cui mangiare circondati da frutta e verdura).

Del resto, nessuno pensa che la rivoluzione sia facile ma sembra sempre più necessaria.

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m7bej8Giulia GrimaldiAndrea Strafileristoranti Munchiessostenibilitàmontagnaetico
<![CDATA[In questa trattoria in Emilia ho scoperto la bontà della Torta degli Ebrei]]>https://www.vice.com/it/article/k7zajm/storia-della-torta-degli-ebrei-finale-Fri, 07 Apr 2023 10:58:14 GMTLa Torta di Finale sarà anche una bomba calorica, nessuno lo nasconde, ma soddisfa il palato in modo disarmante. Mangiarla è come sfogliare una rosa, o addentare una millefoglie fatta di strati sottili e resi morbidi dall’untuosità dello strutto e del formaggio filante

Finale Emilia è un piccolo comune di nemmeno 16mila abitanti immerso nella Pianura Padana, in provincia di Modena, ma più vicino— geograficamente e culturalmente— alla città di Ferrara. Che, per la nostra storia, è cosa importantissima.

Questa cittadina vanta un passato da “Venezia degli Estensi”, prima che deviassero il corso del fiume Panaro che prima attraversava le vie del paese, e mostra ancora le cicatrici del terremoto del 2012 che ne ha seriamente compromesso l’architettura. Onestamente non saprei come giudicarla, ma la consiglierei a chi sa apprezzare la nebbia e le fotografie di Luigi Ghirri.

Insomma, in questo paesino dell’Emilia, mai ci si aspetterebbe di trovare un segreto gastronomico degno di uno spillo sul Google Maps dei gastro-nerd (o forse sì, è pur sempre l’Emilia).
Sto parlando della “Torta degli Ebrei”, chiamata anche Tibùia o, più comunemente, Sfogliata.

Questoa specialità, a differenza di quello che può far intuire il nome, è una sorta di focaccia salata: un impasto di farina, burro, strutto e Parmigiano Reggiano.
Se state pensando che è strano trovare del maiale in una pietanza di origine ebraica è perché, effettivamente, è strano. Infatti è nata con il grasso d’oca; come sia arrivato il maiale, è una storia che ora vi racconto. 

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La preparazione della Sfogliata da Osteria La Fefa.

Dicevo storia mica per dire, dato che ci sono svariate nozioni storiche da sciorinare. E la prenderò anche larga.
Verso la fine del ‘400, mentre Cristoforo Colombo salpava verso le Indie, dando il via a una inconsapevole catastrofe, la cattolicissima regina Isabella di Spagna ordinò a chi era ebreo di battezzarsi immediatamente, pena l’emigrazione forzata. Venne chiamato il “Decreto dell’Alhambra”.
Seguirono anni di discriminazione, furti, ricatti e vessazioni ai danni di ebrei spagnoli e portoghesi, come potete immaginare. Addirittura Emanuele, re del Portogallo, volle togliere i figli minori di 14 anni ai suoi sudditi non cattolici per farli cristiani: alcuni ebrei preferirono ucciderli, altri invece cercarono ospitalità nei Paesi vicini, specialmente in Italia.

Da noi non ce la si passava poi tanto meglio, ma c’erano alcune significative eccezioni. Come i territori governati dagli Estensi, signori di Ferrara e Modena. E così cominciò un importante flusso di ebrei spagnoli e portoghesi verso questi territori, compresa anche Finale Emilia, che si trova a metà strada tra Ferrara e Modena, come abbiamo detto. Era la metà del sedicesimo secolo.

La ragione principale dell’insediamento di un primo nucleo di ebrei era insita nello sviluppo di commerci e, quindi, nella necessità di avere stabili in qualche luogo dei banchieri. Gli Estensi, lungimiranti e amanti dell’arte, ma che non se la passavano benissimo a livello economico in quel periodo, avevano perciò deciso di adottare una posizione di apertura e accoglienza verso la comunità ebraica.
Non fu tanto una questione di liberalità culturale, quanto la necessità di portare nel piccolo ducato nuovi capitali da investire in nuovi commerci e industrie.

Ma toniamo a Ferrara. Chi erano gli ebrei che iniziarono a stabilirvisi? I Erano inizialmente parenti di famiglie ricche residenti a Ferrara, ma nel Seicento la comunità crebbe fino ad arrivare a oltre duecento componenti.

La vita degli ebrei da queste parti non era facile: erano continuamente vittime di vessazioni e costretti a vivere in un ghetto. Questo, paradossalmente, li aiutò a mantenere vive le tradizioni, anche gastronomiche. Gli ebrei a Finale Ligure sono quasi del tutto scomparsi, come comunità, nella seconda metà del Novecento.

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La Torta degli Ebrei, bomba calorica.

Ma la loro torta-focaccia, la loro Tibùia, no.
Certo, è cambiata, ma non è scomparsa per niente.

Tanto che, possiamo tranquillamente dirlo, la Torta degli Ebrei è il piatto tipico di Finale Emilia per eccellenza, ma quasi nessuno lo conosce al di fuori, è contenuta nel raggio di pochi chilometri.

Non abbiamo tracce certe delle sue origini, ma secondo la professoressa e studiosa Annamaria Masina, la Torta ha fatto la sua comparsa a Finale Emilia nel 1600.
Gli storici riportano inoltre una vicenda successiva che riguarda la conversione dell’ebreo finalese Mandolino Rimini, avvenuta nel 1861, proprio mentre nasceva l’Italia. Mandolino, figlio di Aronne Rimini, si fece cristiano e prese il nome di Giuseppe Maria Alfonso Alinovi, destando l’avversione della sua comunità che gli impose un ostracismo molto duro.
Lui, per vendicarsi di questa reazione, divulgò la ricetta della Tibùia —fino a quel momento custodita molto gelosamente— e cominciò a produrne in proprio, ma utilizzando lo strutto di maiale al posto del grasso d’oca: un gesto molto oltraggioso, come si può ben immaginare. Ben lontano dalle regole kosher.

Il successo della Torta tra i cittadini cristiani di Finale Emilia fu immediato ed enorme, con la sua fragranza e il suo apporto calorico che lo ha reso un piatto molto adatto alla stagione invernale.

La Torta degli Ebrei è iscritta nell’elenco regionale dei prodotti tradizionali dell’Emilia Romagna fin dal 2002 e dal 2010 è entrata a far parte dei prodotti della tradizione modenese con il nome di “Sfogliata di Finale Emilia (Torta degli Ebrei)”. Secondo la tradizione, la sfogliata va mangiata il 2 novembre, giorno dei morti, accompagnata da un bicchiere di anicione, un liquore d’anice locale che libera ogni via respiratoria. E ha pure la sua sagra, l’8 dicembre, giorno dell’Immacolata Concezione (secondo smacco alla cultura ebraica non molto carino).

È ottima calda, appena sfornata e va mangiata ovviamente con le mani. Essendo una preparazione semplice, ma molto lunga e fatta di passaggi laboriosi, è raro che oggi venga fatta in casa come invece avveniva un tempo, quando si preparava per il consumo famigliare ma anche rivenduta per le stradine di Finale da signore anziane che la esponevano su un trabiccolo di legno.

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L'ingresso dell'Osteria La Fefa.

Oggi si trova nei forni e in alcune pizzerie al taglio, ma la Torta degli Ebrei più buona si trova indubbiamente all’Osteria La Fefa di Finale Emilia: l’osteria deve il proprio nome alla signora Genoveffa, che gestì questo storico locale alla fine del 1800, quando davanti non c’era nemmeno la strada, ma scorreva il fiume Panaro. Era il tradizionale centro di ritrovo e ristoro sul fiume.
Oggi è della chef Giovanna Guidetti, che l’ha resa un punto di riferimento nella “Bassa Modenese”, con clienti che fanno anche centinaia di chilometri per assaggiarne le specialità e soprattutto la Torta degli Ebrei, sempre presente nella sua carta degli antipasti.

La Sfogliata di Finale sarà anche una bomba calorica, nessuno lo nasconde, ma soddisfa il palato in modo disarmante. Mangiarla è come sfogliare una rosa, o addentare una millefoglie fatta di strati sottili e resi morbidi dall’untuosità dello strutto e del formaggio filante. La superficie è croccante e contenta la nostra necessità di quel crunch di cui nessuno sa più fare a meno.

Ora, noi non sappiamo con certezza se questa Torta degli Ebrei sia stata inventata a Finale Emilia o portata dagli ebrei con il flusso spagnolo della diaspora. Ma è possibile che la verità stia nella seconda ipotesi, visto che ci sono ricette simili a Reggio Emilia (le Chizze), a Ferrara (le Buricche, la cui assonanza con le burek turche è palese) e in Spagna (le Hojaldres salate e le Panades a Mallorca).

Diciamo pure, sbilanciandoci, che gli ebrei di Finale Emilia hanno preso una licenza poetica e cambiato il formaggio turco con quello locale.
Il risultato non cambia: restano un piatto che si scioglie in bocca a ogni morso in un orgasmo di sapore e deliziosa untuosità.

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