Le cose più strane che ho scoperto sulla mia vita facendo terapia

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salute

Le cose più strane che ho scoperto sulla mia vita facendo terapia

Come cambia la tua esistenza quando ti rendi conto che tua madre ha cercato di avvelenarti per tutta l'infanzia.
Niccolò Carradori
Florence, IT

Chiunque abbia mai frequentato una facoltà di psicologia sa bene quanto questi luoghi attirino—tra gli altri—individui che tentano di analizzare ogni ione della propria esistenza in termini psicoanalitici, e che finiscono per chiedersi se l'intolleranza ai latticini nasconda un recondito rigetto del seno materno.

Il punto è che la psicoterapia, e certe teorie in particolare, a volte rischiano di far incagliare le persone in elucubrazioni basate sul niente, spesso dannose, quando potrebbero semplicemente realizzare il fatto che non hanno alcun problema. È una questione non banale da accettare: nel mondo esistono anche individui che non hanno turbe esistenziali. Facciamocene una ragione.

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Questo però non significa che la terapia sia inutile. Ci sono tantissime persone che attraverso un lungo e faticoso percorso fatto di piccole epifanie, intoppi e ricadute, riescono finalmente ad ammettere cose di cui magari erano perfettamente a conoscenza, ma che non riuscivano ad affrontare da sole.

E poi ci sono i casi straordinari, quelli di persone che grazie al proprio terapeuta fanno emergere problemi inconsci la cui rilevanza all'interno della propria vita era enorme. Grazie a un po' di amici ho raccolto alcune di queste storie—storie in grado di esemplificare come cambi la tua esistenza quando ti rendi conto che tua madre ha cercato di avvelenarti per tutta l'infanzia.

LA MATRIGNA

La prima volta che mi sono sentito veramente a disagio con la mia terapeuta, è stato quando mi è venuto duro parlando del rapporto che avevo con la mia matrigna. Stavamo discutendo del senso di inferiorità e contrasto che provavo nei confronti di mio padre, un argomento che affrontavamo spesso, ma era la prima volta che veniva menzionata seriamente la donna che aveva sposato dopo aver divorziato da mia madre.

Quella volta il discorso fu abbozzato, ma nelle sedute che seguirono diventò il tema principale—finché non ammisi che probabilmente la moglie di mio padre era la donna che aveva avuto il maggior impatto sessuale sulla mia vita. Non ci avevo mai pensato con razionalità, o forse avevo evitato di farlo, ma parlandone mi resi conto che era vero. Le prime pugnette della mia vita me le ero fatte pensando a lei, e quando anni dopo cominciai a fare sesso, a volte capitava che per venire pensassi facessi lo stesso.

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Parlandone in terapia, peraltro, quell'attrazione si era come risvegliata. Ricominciai a pensare continuamente alla moglie di mio padre: quando mi masturbavo fantasticavo di scoprire una sua relazione clandestina, e di ricattarla con pretese sessuali. Era passato diverso tempo, e lei era chiaramente invecchiata, ma anche a quasi 50 anni continuava a eccitarmi. Quando ne parlai con la terapeuta, lei mi disse che l'unico modo per sbloccare la situazione era quello di affrontarla: avrei dovuto parlarle e rivelarle quello che provavo. Ovviamente non nella speranza che mi scopasse, ma per affrontare il nocciolo del problema: vincere il senso di obbligo e sottomissione che provavo nei confronti di mio padre. Fare qualcosa alle sue spalle.

Devo dire che alla fine è servito: quella conversazione è stata probabilmente la cosa più imbarazzante che ho dovuto affrontare. Ebbi un'erezione per tutto il tempo. Rimase piuttosto interdetta, ma disse che un po' lo aveva sempre saputo, e mi promise che la cosa sarebbe rimasta fra noi. Nei mesi successivi ho provato un forte senso di vergogna e di colpa, ma anche di liberazione. L'anno successivo me ne andai a studiare in un'altra città: da allora ho smesso di pensare alla mia matrigna e di essere ossessionato da mio padre.

—Tommaso, 27 anni

L'OSSESSIVO-COMPULSIVO

Ho sempre pensato di essere una persona nevrastenica, ma è stato solo quando ho cambiato terapeuta che ho capito di soffrire di un lieve disturbo ossessivo-compulsivo. Il primo psicologo a cui mi sono rivolto mi obbligava ad analizzare per ore dinamiche familiari che non mi interessavano, il che non risolveva in nessun modo il fatto che mi sentivo continuamente stressato e vivevo la quotidianità con estrema fatica. Quello che a tutti sembrava normale, come uscire a cena con gli amici, a me provocava ansie terribili.

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La persona a cui mi sono rivolto in seguito, invece, aveva un approccio totalmente diverso. Per due intere sedute mi chiese di elencargli in modo minuzioso la mia vita quotidiana: le mie abitudini, le mie paure consce, le cose che per me avevano importanza. Alla fine di questo lavoro, mi mostrò il suo blocco degli appunti, in cui aveva segnato tutta una serie di piccole compulsioni che compivo ogni giorno. Raggruppare i vestiti nell'armadio e organizzarli in modo da sapere sempre quale maglione dovessi indossare il lunedì e quale il martedì, rinunciare ad uscire di casa senza la batteria al 100 percento, studiare nella biblioteca della facoltà soltanto se potevo sedermi in determinate postazioni, lasciare la macchina sempre nello stesso parcheggio: avevo tutta una serie di piccole fissazioni che mi aiutavano a mantenere una sensazione di controllo. Avevo sempre pensato di essere semplicemente una persona metodica e precisa, ma lo psicologo mi fece capire che quando non esiste alcun tipo di flessibilità nelle proprie abitudini, queste diventano ossessioni.

La soluzione che mi propose era quella di abbandonare totalmente questa storia del controllo. Per un periodo indefinito, non solo avrei dovuto rinunciare alle mie abitudini, ma anche forzarmi ad accettare tutte quelle situazioni che mi mettevano a disagio: andare a feste in cui non conoscevo nessuno, cominciare a prendere i mezzi pubblici e non la macchina per spostarmi, passare più tempo possibile fuori da casa, organizzare i miei impegni in modo caotico, disposto a cambiare completamente i miei pieni all'ultimo minuto. Il senso di tutto questo ovviamente era quello di forzarmi ad abbandonare l'ossessione per il controllo. Inizialmente è stata piuttosto dura, ma dopo un anno questa specie di esperimento cognitivo ha cominciato a funzionare. L'ansia e il senso di oppressione cominciavano a diminuire. Alla fine ho capito il mio vero problema: ho sempre pensato di essere una di quelle persone riflessive, che hanno bisogno di comprendere bene una situazione prima di affrontarla. Volevo essere preparato. La verità, è che a volte pensare troppo innesca una specie di paralisi, e che la smania di controllare tutto è soltanto un'illusione.

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—Ivan, 34 anni

MUNCHAUSEN PER PROCURA

Gli attacchi di panico sono iniziati subito dopo essere andata a vivere da sola. Così, nonostante pagassi un affitto molto alto, trovavo qualsiasi scusa per tornare a dormire a casa di mia madre. La maggior parte delle volte fingevo di avere le febbre o mal di stomaco, così mi diceva di rimanere a letto nella mia vecchia camera.

Quando ne ho parlato per la prima volta con il mio terapeuta, lui mi ha chiesto per quale motivo la scusa per tornare a casa fosse sempre quella della malattia. Quasi di getto, gli ho risposto che mia madre—da sempre—mi considerava solo quando pensava che stessi male.

I miei avevano divorziato quando ero molto piccola, e subito dopo mia madre aveva sviluppato una fissazione per la mia salute: anche quando mi sentivo bene, mi obbligava a rimanere chiusa in casa, perché ero cagionevole e avrei potuto raffreddarmi scendendo a giocare con i miei amici in cortile (nonostante poi magari uscisse di casa senza accendere il riscaldamento a dicembre, lasciandomi da sola al freddo). La mattina insieme alla colazione mi dava un sacco di piccole pasticche che non sapevo nemmeno cosa fossero, ma spesso provavo dei forti mal di pancia mentre ero a scuola, e lei doveva venire a prendermi tutta felice di poter litigare col medico di base per telefono su disturbi che lui non riusciva a identificare. Poi chiamava mio padre, rinfacciandogli che mentre io stavo male lui si faceva i cazzi suoi.

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I miei malanni fisici cessarono magicamente durante la pubertà, quando raggiunsi un minimo di autonomia, ma cominciarono quelli mentali: ero troppo introversa, e quindi avevo bisogno di aiuto; ero troppo magra, e allora avevo un problema di anoressia. C'era sempre qualcosa che doveva non andare in me, per mia madre. Il fulcro delle mie malattie, però, per lei era sempre il disinteresse di mio padre: sfruttava ogni occasione per chiamarlo e tentare di farlo sentire in colpa. Tutto questo l'ho realizzato a posteriori, parlandone durante la terapia.

Da un paio d'anni non ho rapporti con mia madre: la vedo soltanto a Natale e per il suo compleanno. Lei continua a chiamare mio padre preoccupata perché pensa che sia depressa. In compenso a me gli attacchi di panico sono passati.

—Lavinia, 25 anni

BISOGNO DI MORTE

Quando lo psicologo mi chiese se mi ero mai interrogato sul mio desiderio di morte, lo guardai come se fosse scemo. Gli stavo parlando della mia paura di volare, e mi aveva interrotto all'improvviso.

Mi disse che da tempo rifletteva su questa cosa: a più riprese avevo manifestato un disagio strano riguardo alla paura di morire. Il terrore di prendere l'autostrada con la macchina convinto che mi sarei schiantato, il mio rifiuto di assumere ansiolitici perché avevo letto da qualche parte che si poteva avere un'insufficienza respiratoria durante il sonno, la fissazione di tenermi appoggiato al muro aspettando la metro per la paura di finire in qualche modo sulle rotaie. Mi fece molti esempi. Tentai di giustificare la cosa parlando del mio senso di ansia perenne, ma non lo convinsi, e nelle successive sedute continuò a chiedermi se avessi riflettuto su questo desiderio latente: mi disse che non si può essere tanto ossessionati e spaventati da una cosa, se in fondo non si desidera che accada.

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Inizialmente reagii male a questo tipo di osservazione, e per un paio di settimane saltai le sedute. Ma in quei giorni non riuscivo a non pensare che in fondo aveva ragione: quando mi immaginavo di morire, inconsciamente pensavo sempre al tipo di liberazione che sarebbe stato andarsene. Capirlo e tornare a parlarne con il terapeuta—che mi spiegò che il mio era desiderio di annullamento, non di morte—mi ha spinto a chiedermi quali fossero le cose dai cui stavo cercando di fuggire.

Il mio approccio alla terapia è completamente cambiato: prima di allora semplicemente mi sedevo di fronte al terapeuta e gli sparavo in faccia tutta una serie di pensieri e ansie astrusi, convinto che in qualche modo lui avrebbe saputo metterli in fila. Il tipo di accettazione a cui mi aveva spinto quel giorno, invece, mi aveva fatto capire quanto la terapia sia un processo attivo, che consiste in buona parte nel riconoscere e rispettare le parti più schifose e ridicole di se stessi.

—Marco, 29 anni

MASTURBAZIONE INFANTILE

Ricordo distintamente che quando ebbi il primo ciclo mio padre mi guardò con aria disgustata: un'espressione fredda e di repulsione che da allora gli vidi comparire spesso. Ogni volta che mi vestivo per uscire, che mi truccavo troppo, che mi scopriva mentre parlavo al telefono con qualche ragazzo che mi interessava. Ho sempre pensato che mi ritenesse una troia, fin da ragazzina. Non sapevo nemmeno quando era cominciato quel tipo di rapporto fra me e lui, visto che mi sembrava di non aver mai fatto niente di male.

Arrivai in analisi anni dopo, convinta che i miei problemi dipendessero interamente dal mio bisogno di farmi sfruttare dagli uomini: per lungo tempo mi ero buttata in relazioni con ragazzi che mi trattavano come se fossi un bagno pubblico. Pensavo di avere realmente qualcosa che non andava. Quando la mia terapeuta cominciò a chiedermi di mio padre, le dissi che era stato il primo a farmi sentire così. Cominciammo a ripercorrere il mio rapporto con lui, e di punto in bianco—quasi come un flashback improvviso—mi tornò in mente il giorno in cui da piccola mio padre obbligò mia madre a mettermi in punizione perché smettessi di strusciarmi contro gli oggetti.

Avevo circa 5-6 anni, e in modo del tutto inconsapevole avevo scoperto la masturbazione infantile. Solitamente mi mettevo a cavalcioni sul bracciolo del divano, e strusciavo il pube con vigore; oppure mi mettevo un cuscino fra le gambe mentre guardavo i cartoni in tv: ovviamente era un vizio di cui non mi curavo affatto, per me era come grattare con soddisfazione la crosta su un ginocchio sbucciato. Per questo, spesso, lo facevo anche con mia madre e mio padre, strusciandomi contro le loro cosce quando gli stavo in grembo. In una di quelle occasioni, mio padre era sbottato e dopo avermi dato uno schiaffo mi aveva detto che nemmeno i cani si comportavano così. Una reazione totalmente incontrollata, che manifestava un disagio profondo.

È stato allora, credo, che è iniziata la repulsione di mio padre per me e per la mia sessualità. Mia madre cercava di tranquillizzarmi, dicendomi "il papà vuole solo che ti comporti bene", ma anche lei era succube. Cercava di controllarmi: stava sempre attenta che non rimanessi da sola, e anche anni dopo pretendeva che lasciassi la porta di camera mia sempre aperta. Tutto questo aveva creato un clima di colpa e di freddezza. Grazie alla terapia, ho scoperto che per anni ho subito di rimbalzo il fatto che mio padre fosse una persona sessualmente spaventata e repressa. Talmente terrorizzato—o ossessionato—dal sesso, da rovinare il rapporto con la propria figlia.

—Francesca, 31 anni

Grafica di Andrea Cacace. Segui Niccolò su Twitter.