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Non è un caso se Breaking Bad ha spaccato i culi per cinque stagioni

Perché l'ultima puntata della serie vi ha lasciato così, o perché—se non l'avete ancora vista—dovreste recuperare immediatamente.

Attenzione: il post contiene SPOILER. Se non avete ancora visto l'ultima puntata (o I Soprano), leggete a vostro rischio e pericolo.

Come nello sketch di Family Guy, Breaking Bad è diventata unanimemente la serie migliore di tutti i tempi “a parte, forse, The Wire.” In effetti le due serie hanno in comune una cosa che le rende grandi: la dimensione tragica.

The Wire era la narrazione a più livelli del fallimento del capitalismo americano come sistema in cui anche se tutti si propongono di fare la cosa giusta, l’assurdità intrinseca alle istituzioni, alle leggi, alle gerarchie e alle pratiche di potere finisce inevitabilmente per portare al risultato opposto: la vittoria del “male”. Un po’ come quando uscite nei bar vicino a casa dicendovi “questa sera bevo solo una birretta” e tre ore dopo vi ritrovate a cantare ubriachi sotto la mia finestra ignari che adesso posso scaricare da internet le istruzioni per la stampa 3D di un fucile da cecchino.

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Breaking Bad, invece, è una serie che stringe il proprio sguardo dal malfunzionamento della macchina sociale alla tragedia esistenziale di un singolo uomo. Riconosce come dato di fatto alcuni elementi contraddittori della società (Walter è un grande chimico ma lavora come insegnante in una scuola superiore a fronte di uno stipendio ridicolo e una copertura sanitaria da paese del terzo mondo) e partendo da un sistema che ha imbrigliato il talento e la volontà di potenza di un uomo, mette il protagonista di fronte ad un'“esperienza di morte”. Come fanno le liceali quando vengono lasciate dal tizio con lo moto più grossa o quale che sia il suo equivalente contemporaneo, allo stesso modo Walter riconsidera tutta la sua vita e non trova granché da mettere sul piatto della bilancia con la scrittina “cose buone”, mentre quello dei “cazzi acidi” risulta particolarmente affollato. I suoi ex soci sono milionari mentre lui non solo non ha nemmeno i soldi per curarsi, ma in attesa di morire gli tocca stare a sentire le sbruffonate di quel semianalfabeta del cognato sbirro che si atteggia a grand’uomo. Ovviamente ce n’è abbastanza per guadagnare 90 milioni di dollari spacciando una droga mortale e mettersi un cappello buffo.

Questo perché Walter White è il tipico nerd ante litteram che si laurea in ingegneria o, appunto, in chimica, un uomo preciso e meticoloso che attraverso il dominio della scienza dà uno sfogo ordinato a una rabbia interiore tale che se da umano potesse tramutarsi in uno stato dell’Europa centrale non vorrei essere la Polonia.

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Nel momento di verità di fronte alla morte, la volontà di potenza di Walter White incomincia a sgorgare prima come un rivolo timoroso per poi diventare un fiume inarrestabile durante un processo lungo cinque stagioni in cui il piacere dello spettatore aumenta di pari passo con la presa di coscienza di sé del protagonista.

Vince Gilligan ha proposto lo show ai network come la parabola da Mr. Chips a Scarface” mostrando così come sia necessario per uno sceneggiatore prendere un po’ per il culo i produttori. È un po’ come se Dostoevskij avesse descritto Il giocatore come “Un libro sulla roulette.” La storia di Walter White è infatti sì l’ascesa criminale di un uomo comune, ma soprattutto un viaggio all’origine del sentimento morale, una destrutturazione impietosa dell’archetipo dell’eroe che lotta per la famiglia: per questo alla fine per lo spettatore vedere dove si spingerà con i suoi cari finisce per essere più importante delle pile di dollari che si ammucchiano nel suo deposito.

Già in partenza W.W. è un eroe negativo: non libera donzelle dai draghi fiammeggianti, ma mette il fuoco sotto becchi Bunsen e sintetizza una delle droghe più devastanti fra quelle che un dio particolarmente ironico ha permesso di creare combinando gli elementi.  Non so, ma quando penso a dio e le droghe l’immagine che mi viene in mente è una specie di avvocato Agnelli dei cieli che gioca a Destruction Derby con un’arena piena di Fiat Seicento.

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Anche se siamo cresciuti in anni in cui sadici pubblicitari al soldo di uno Stato paternalista riempivano le città di cartelloni con gente con gli occhi sbianchettati dalla DROGA, sappiamo che le sostanze psicotrope sono quasi sempre una questione di scelte e che di fronte ai comportamenti di certe aziende o governi, produrre stupefacenti non è certo l’atto moralmente più deprecabile della nostra epoca. Per questo farci parteggiare per uno che cucina metanfetamine, specie considerato quanto raramente si vedano durante la serie gli effetti sociali della sostanza (al contrario di The Wire), non è stata la più grossa conquista di Breaking Bad.

La parabola di Walter White è sì una scalata testosteronica al racket della droga ma anche un viaggio nell’autocoscienza, che si conclude quando, dopo aver ripetuto circa 1.346 volte che se scioglie nell’acido gangster e fa saltare in aria vecchi messicani in sedia a rotelle è ovviamente solo per il bene della famiglia, nell’ultima puntata arriva ad ammettere che in effetti l’ha fatto soprattutto per sé, e gli è pure piaciuto parecchio.

La cosa bella è che la profondità del ritratto, la cura nella costruzione dei personaggi e degli archi narrativi ci permette di dire che entrambe le cose sono vere.

Sostenere la famiglia, dimostrare che non ha messo al mondo altre vite per poi abbandonarle a loro stesse in una società cinica e dollaro-centrica fa di certo parte della volontà di potenza di Walter, ma questo non rende il suo amore meno autentico.

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È qui che le visioni da casalinga isterica tipiche della prima Skyler e di Marie vanno definitivamente in frantumi, il bene abbraccia il male e la morale si mostra come un composto di elementi primari, apparentemente opposti, dei quali, una volta avvenuta la reazione chimica che dà origine alla molecola “essere umano”, si finisce per perdere le tracce.

È il tipo di costruzione morale che ci permette di prendere l’autobus senza accoltellarci alla fermata ma che la grande narrativa ha il dovere di smantellare e mettere in crisi per ricordarci di cosa siamo fatti.

Così anche se Walter White doveva morire o finire in carcere questo non ci impedisce di capire le sue ragioni, la sua tragedia, ed empatizzare con lui. È in questa contraddizione in termini che va in frantumi un altro archetipo, quello della giustizia. Walter è cattivo, ma una parte di noi lo capisce. E vuole comprarsi un cappello buffo.

Questo rende Breaking Bad un altro, sostanzioso capitolo di quella produzione seriale che in perfetta antitesi con la televisione etica della guerra fredda ha preso l'abitudine di portare massicce dose di realtà nelle case degli spettatori.

Grazie a queste serie oggi siamo diventati incapaci di guardare un telefilm degli anni Ottanta senza coglierne l’ironia. Fra macchine che si guidano da sole, trame scritte con i piedi, personaggi tagliati con l’accetta, dosi mortali di buonismo e finali dove gente con pettinature assurde trionfa sul male sia esso un comunista, un russo, un mafioso o un attivista per la difesa dei panda, riconosciamo in quel tipo di produzione un gigantesco quanto (ora) patetico  tentativo pedagogico di massa, forse il più ambizioso mai tentato.

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Ma dopo che l’occidente ha vinto sul nemico rosso e ha cominciato a rivolgere la propria voracità contro se stesso, lavorando alacremente per autoestinguersi neanche fosse la versione geopolitica di MySpace, si è stabilizzato abbastanza da lasciare spazi a narrazioni televisive realistiche.

Uno dei vantaggi di vivere in un sistema economico folle ma apparentemente privo di alternative è infatti avere diritto a un intrattenimento di qualità mentre fuori dalla porta si avvicina inesorabilmente la guerra civile. Siamo una generazione nata con tutte le fortune.

Vince Gilligan più semplicemente ha detto che questo è un periodo dove “I personaggi cattivi vanno di moda.” Non credo sia così semplice e per quanto conti penso che non lo creda nemmeno lui. Serie come Breaking Bad piacciono per la loro perfezione drammaturgica, per l’abilità eccezionale degli attori ma anche perché grazie all’accuratezza del risultato finale rappresentano piccole riserve indiane di verità all’interno dell’incessante fluire mediatico di menzogne aziendali e politiche. Le narrazioni seriali di qualità interrompono la liturgia del falso e con le loro storie predicano ai telespettatori sincerità su se stessi e sul fatto di essere umani.

Lo spettatore sa che c’è più verità nel ritratto di Walter White che non nelle promesse di un politico o nello slogan di uno shampoo o di un cellulare. Uno è vero, duro, spietato ma anche umano nel suo essere pericolosamente imperfetto. L’altro è allegro, ottimista, photoshoppato e disumano nella sua abbacinante perfezione fascista. Nessuno sarà mai veramente felice per avere comprato un nuovo snack ma molti, senza bisogno di cuocere metanfetamine nel deserto, proveranno sensazioni simili a quelle dei personaggi di Breaking Bad. È questo che fa grande una storia.

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Una volta uno sceneggiatore americano mi ha detto che “Il segno della grandezza delle serie di oggi è che le persone si riferiscono ai loro protagonisti come se fossero amici loro.” Tutti crediamo di sapere cosa farebbe Walter White in una determinata situazione (anche se poi ci stupisce sempre) e riconosciamo al volo i pattern comportamentali dei personaggi seriali quando li vediamo nelle persone reali.

“Ahah, sembravi il tizio di Breaking Bad” è la frase che fa stappare gli spumanti nelle writers' room. Non è un caso che nessuno al mondo direbbe mai "Ahah, sembri Nunzio di Un posto al sole”.

La credibilità, la sovrapposizione alla realtà non si ottiene a buon mercato. Uno dei tratti caratteristici di Breaking Bad è proprio questa incredibile attenzione al particolare, la dedizione totale degli autori alla costruzione di “ostacoli” credibili restituiti nella loro apparente piccolezza e irrilevanza. Ed è proprio la fede nel realismo che li innalza a massi insormontabili per poi trovare il modo inaspettato di superarli.

Problemi che per un protagonista di un telefilm degli anni Ottanta sarebbero stati risolti con un cambio di scena e nessuna spiegazione in Breaking Bad richiedono spesso una o due puntate. Le infinite complicazioni per procurarsi la metilammina la dicono lunga su quanto ci sia in questa serie una grandiosa dedizione alla veridicità, al mostrare la difficoltà del fare, ai limiti quotidiani dell’essere umano. Un’attenzione che si inserisce in pieno nella poetica di un protagonista alla prese con il suo limite estremo, quello della morte. Ogni cosa in Breaking Bad costa fatica, ogni cosa è sudata, molte soluzioni sono assolutamente geniali persino nell’accezione che la parola aveva prima di significare “pubblica status su Facebook che non riguardano cosa ha mangiato a pranzo.”

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È perciò triste che questo marchio di fabbrica si sia un po’ perso nel finale di serie, per due ragioni, solo una delle quali imputabile agli sceneggiatori.

Le rivelazioni sulla sorveglianza orwelliana messa in atto dalla Nsa, il fatto che all’intelligence Usa basti un campione di voce per tracciare immediatamente una persona da qualsiasi telefono stia chiamando, hanno reso incredibilmente obsoleti tutti i lunghissimi dialoghi telefonici nell’ultima parte della stagione finale. Ma questo nella writers' room non potevano immaginarlo e nessuno di noi avrebbe potuto credere a uno sviluppo così inquietante del potere tecnocratico solo un anno fa.

Quello su sarebbe stato lecito aspettarsi più cura sono però alcuni particolari come la sostituzione dello zucchero dietetico di Lydia (quando avviene?) o il fatto che la strage di nazi con l’M-60 nascosto nel bagagliaio sia aperta a un milione di variabili che la rendono una soluzione decisamente non all’altezza di Walter White. Tutto questo volendo sorvolare sulla sparatoria nel deserto in cui Hank perde la vita mentre il Suv in cui è prigioniero Walter sembra fatto di cemento armato, visto che blocca tutte le pallottole (al contrario tra l’altro del bagagliaio della macchina-che-uccise-i-nazi) o, ancora,  sul deus ex machina che fa trovare le chiavi della Volvo sotto l’aletta parasole.

Ora, se stessimo parlando di un telefilm vecchia scuola, a questo punto dopo dovrei girarmi sull’altro lato del letto e scrollare le briciole dei biscotti al burro e cioccolata da una pancia prominente per poi postare queste recriminazioni in forum di nerd psicopatici senza una vita sociale. Ma trattandosi invece di una serie come Breaking Bad la questione è invece è aver infranto proprio nel finale un patto d’alto livello fra autori e spettatori. E questo è un peccato, oltre che un perfetto argomento per forum di snelli e sexy giornalisti psicopatici senza una vita sociale.

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Un’ultima annotazione va al grande potenziale tragico, finora scarsamente teorizzato, del formato serie. Da quando Adamo raccontò a Eva che stava giù al bar con il leone quando all’improvviso era entrata una gazzella,  c’era stata una lunga colluttazione fra i due animali e alla fine lui si era trovato un capello di donna bionda presumibilmente fra i 20 e i 25 nelle mutande, le storie sono sempre state strutturate in tre atti.

Il grande vantaggio della lunga serialità è che permette di giocare con questa struttura, dilatarla, ripeterla, sfasarla su un’infinità di story line o, e qui scatta la dimensione tragica, non risolvere mai la tensione interna al personaggio se non con l’intervento della grande livellatrice:  la morte.

Non è un caso che I Soprano siano finiti con la morte del protagonista, esattamente come Breaking Bad. In The Wire la società fallisce un’infinità di volte ma non muore mai veramente, perché sono gli uomini a morire, non le loro aggregazioni. Quelle si limitano a cambiare in peggio fino a che non diventano West Baltimore o il Molise. I personaggi seriali al contrario di quelli classici non possono risolvere i propri conflitti senza perdere mordente, senza rinunciare per sempre alla loro natura. Walter White che si ritira dal business e investe tutto in una fabbrica di cuscinetti a sfera che gli garantisce un rendimento non eccezionale ma sicuro grazie alle tutele di Stato per il settore non è una storia, è un rompimento di coglioni senza precedenti.

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Le possibilità di apertura drammaturgica potenzialmente infinita che hanno le serie sono una straordinaria opportunità narrativa, a maggior ragione in un'epoca come la nostra, fatta di rifiuto concettuale dei limiti, di rimozione degli errori, e contraddistinta da un entusiasmo sistematico che nasconde un vuoto di idee preoccupante per un’umanità che non ha mai avuto così tanti mezzi per comunicare e un cazzo di sensato da dire.

Un tizio scopre che vogliono che sia felice e ottimista per forza, il problema è che riesce ad essere felice solo quando prova a dare una spiegazione ironica al folle apparato che vuole che lui sia felice e ottimista ad ogni costo.

O come direbbe Vince Gilligan: da aspirante protagonista di X-Factor a Woody Allen.

Chissà se così gliela comprerebbero.

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