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YAN MORVAN

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Yan Morvan è uno dei fotogiornalisti più cazzuti e navigati che abbiamo mai incontrato. Negli ultimi 35 anni ha preso a calci gli Hell's Angels, si è recato nelle zone di guerra più incasinate del mondo, ha lavorato con i più noti serial killer francesi ed è stato condannato a morte due volte.

Yan ha preso parte alla nascita del fotogiornalismo francese e ha contribuito a elevarlo ad arte. È stato il primo a mostrare interesse per le sbronze e le risse dei rocker francesi, nel lontano 1975. Il suo libro sulle bande di delinquenti della periferia parigina è uno dei pochi esistenti del genere. Yan ha documentato la vita delle persone rimaste gravemente ferite in incidenti stradali, le nuove pratiche sessuali del mondo e le rievocazioni storiche fatte da nerd ossessionati di rievocazioni storiche. Morvan è stato un insegnante, un ladro d'arte e un simpatizzante del situazionismo—il tutto mentre pagava le tasse e cercava di metter su famiglia. Abbiamo parlato con , nella sua cucina davanti a un caffè.

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Vice: Come hai iniziato ad interessarti alla fotografia?
Yan Morvan: Penso che la prima foto che scattai fu nel 1967 al Gran Premio di Monaco. Avevo 13 anni e fotografavo le auto da corsa con mio padre. È stato l'anno in cui Lorenzo Bandini si è schiantato e carbonizzato con la sua macchina, mi ricordo di aver scattato delle foto dell'incidente, con la mia Kodak.

Questo sì che è un buon inizio.
Dopo di che, ho studiato scienze all'università. Ho preso parte ad un piccolo gruppo di cripto-situazionisti, il genere di cosa che piace ai veri fannulloni.

Immagino che abbiate letto tutti i libri sul tema.
Tutti. Ho letto tutto. Il Wyckaert, le cose di Vaneigem…

Be', allora non devi essere stato così tanto fannullone.

Lo sono stato invece, perché all'epoca non capivo niente in realtà. L'unica cosa di Debord che mi è piaciuta sono stati i due volumi di Panegirico, in cui discute dei suoi problemi con l'alcol. Questo è quello che ho apprezzato. Il resto, le sue teorie, be' è innegabile che avesse ragione.

Oltre a questo pseudo impegno politico, come passavi le giornate?
Be', l'aspetto pratico di tutto questo magma teorico è stato qualcosa che si è radicato in ogni giorno, riassumibile con la parola "rubare". Tutto ruotava intorno al rubare. Abbiamo rubato di tutto.

Tutto?

All'inizio rubavo per mangiare. Mio padre voleva studiassi in un'élite politecnica di ingegneria, ma non ero all'altezza. Diceva spesso: "l'università è una perdita di tempo", il che non è del tutto sbagliato. Poi, c'erano le ragazze. E così non mi ha mai dato un soldo. Niente. Ho dovuto contare solo sulle mie forze e risorse. Quindi per me è stato facile dire "rubare è politica." Non c'erano i metal detector alle uscite di negozio, all'epoca. Praticamente potevi davvero prendere quello che volevi.
Non proprio, in realtà. Sono stato inseguito in più di un paio di occasioni. Una volta per aver rubato un pollo in una rosticceria. È stato più o meno nello stesso periodo in cui ho deciso di abbandonare scienze al mio corso universitario.

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Hai lasciato per andare a Vincennes, giusto?
Sì. Era un gran momento per Vincennes, con Foucault, Derrida e gli altri. Mi iscrissi al corso per fare cinema, mentre ero lì. Ho pensato fosse l'unica strada che mi avrebbe aiutato ad evitare tutta la noiosa teoria. Sai, sono un professionista. Sono il tipo di persona che applica le teorie. Ed è lì che ho scattato le mie prime foto, per il mio professore Gérard Girard. Dal momento che ero così preoccupato per la teoria, mi ha dato le chiavi del suo laboratorio di fotografia digitale in modo che potessi lavorare sulla pratica. Il professore mi ha fatto conoscere persone di Libération.

Immagino che Libération era molto diversa da quella attuale.
Esattamente. Non era ancora il giornale borghese bohémien di tendenza che è ora. Ho iniziato nella loro agenzia fotografica passando dalla porta sul retro. Dev'essere stato il 1974, avevo 22 anni. Ho iniziato a vendere giornali o lavoravo presso il negozio di libri di Gibert Jeune. Ho anche lavorato presso la FNAC, dove ho rubato la mia prima fotocamera.

Come hai fatto a conoscere gli Hell's Angels?
Be', una cosa tira l'altra. I meccanismi alla base delle relazioni sono sempre gli stessi: si inizia con i piccoli contatti, poi ti presentano a qualcun altro che ama le tue foto, allora questo qualcuno vuole che gli fai il ritratto, e così via. Al momento sto lavorando a Gang II, ed è lo stesso procedimento. Questi ragazzi sono grandissimi esibizionisti. Sono divi. Per questo, alcuni di loro sono venuti a cercarmi dicendomi: "Ehi, hai creato Gang—l'unico libro sui teppisti che sia mai stato realizzato. Dovresti farne un altro con noi."

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È stato difficile pubblicare un libro a quell'età?
Non lo so. Non è una faccenda di cui ero conscio. Ha combaciato con il periodo in cui ho incontrato Maurice Lemoine, l'autore. Stava lavorando per un'agenzia chiamata Norma, e mi ha detto che gli piacevano le mie foto. Era l'unico che mostrò interesse, perché a quel tempo a nessuno fregava un cazzo di fotografare i rocker. Scrisse del mio lavoro, ed è così che alla fine nacque Gang. Un sacco di gente ne parlò, Le Monde, L'Express, Le Figaro, e Paris Match, per cui ho avuto parecchio lavoro non molto tempo dopo.

Per riuscire ad avere la libertà di fare ciò che volevi, dovevi piazzarti in un ufficio in cui il pericolo non entrava mai. Non era noioso?
Non necessariamente. Lavorare per Match era pericoloso. Mi sono trovato in certe situazioni difficili, ma non mi dilungherò. Quando le cose cominciarono a deteriorarsi a Match, prese piede Le Figaro. Dev'essere stato nel 1977, ero una sorta di celebrità in quel momento. Ho cominciato a fare delle fotografie, ho imparato il mio mestiere, fino al giorno in cui ho avuto un totale e paranoico esaurimento. La croce rossa è arrivata e si è presa cura di me. Miracolosamente, non c'era nulla che non andasse fisicamente. Il giorno dopo sono andato a Le Figaro e dissi loro: "Scusate ragazzi, è tutto veramente bello ma non posso restare o finirò per morire." Era il 1979.

Cosa hai fatto allora?
Sono andato in Asia per sei mesi, prinicpalmente nei ghetti delle grandi città.

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Cosa hai fatto mentre eri lì?

Giravo con le ragazze nei bordelli, ho vissuto in un albergo… all'inizio avevo affittato un monolocale con un marchettaro del posto, dopo le ragazze mi portarono nel bordello. Ho utilizzato quell'esperienza per scrivere una sorta di diario. Lo pubblicherò a breve. Poi sono tornato in Francia.

La gente ti stava aspettando al tuo ritorno in Francia?
Questo lavoro è tantissimo showbiz. La gente sa tutto di tutti, così mi hanno etichettato come "out." Oltre a questo, era magro come un rastrello. Indossavo gli occhiali neri, stivali di pelle di serpente e una giacca rossa. La mia carriera era più o meno fottuta a quel punto.

Poi, qualcuno mi ha fatto conoscere un ragazzo della SIPA, una delle più grandi agenzie di giornalismo in Francia. Il ragazzo era turco e aveva l'accento più incredibile che avessi mai sentito. Il suo capo mi vide e disse: "Chi diavolo è questo ragazzo che hai portato qui?" Ovviamente i fotografi a quel tempo erano tutti vestiti a puntino, con piccole cravatte e completi fighetti. Così il tipo che mi accompagnò disse: "OK, hai ragione: lui non fa una buonissima prima impressione, ma ti prometto che è bravo." Così mi hanno preso per un periodo di prova. Per fortuna, perché ero appena ritornato senza niente, non avevo nemmeno un appartamento, pagavo l'affitto per un piccolo monolocale di merda.

Quindi è stato questo ragazzo turco che ti ha portato di nuovo sulla giusta strada?
Sì, credo di sì. Durante quel periodo ho fatto due o tre lavori come paparazzo. Scattare fotografie ai flirt della baronessa de Rothschild e di Greta Garbo, questo genere di cose. Poi, leggendo Le Monde—di solito lo leggevo ogni giorno—ho capito che in Turchia stava per essere messo in scena un colpo di stato. Sono andato a trovare il ragazzo turco alla SIPA per farmi spiegare meglio la situazione, e lui mi disse: "È tutta una stronzata, non c'è alcun colpo di stato, la Turchia è un paese democratico." Una settimana dopo ci fu il colpo di stato.

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Questo deve averlo convinto a mandarti lì. La SIPA ti ha pagato il biglietto?
Biglietto? C'era un ragazzo con gli occhiali scuri, gli davi 100 dollari e ti lasciava passare, alla vecchia maniera. Sono arrivato in Bulgaria, non so neanche bene come. Sono stato fortunato. Poi ho preso un autobus malandato e sono sceso fino ad Ankara. Sono riuscito a scattare tre rullini di quelle fotografie atmosferico-notturne. Sono tornato a Parigi praticamente il giorno dopo. Il turco ha detto "Sei proprio un idiota, potevi almeno dormire!" Lunedì mattina su Match pubblicarono sei pagine. Boom.

Hai guadagnato dei soldi per questo?
Niente, avrò fatto al massimo 500 franchi. Ma il turco era felice. Mi disse che potevo rimanere ìl un po' se volevo. Cosa che poi ho fatto.

E sei diventato un fotoreporter di guerra così, perché leggevi Le Monde?
Ho seguito i conflitti per otto anni, 20 guerre in totale. Sono stato in Libano per tre anni. Ho lavorato per la SIPA fino al 1988, ma ho continuato ad andare nelle zone di guerra fino al 2000. Dopo il Kosovo ero stanco.

Gli articoli che scrivevi erano buoni?
No, mai. Mi chiamavano solo per le foto, la parte tecnica. Sai, i fotografi sono sempre stati visti come montagne di merda.

Pensi che sia cambiata questa visione nel corso degli anni?
Sì, le cose stanno cambiando, ma negli anni '70 i fotografi erano cibo per maiali più o meno. L'ho realizzato quando ho iniziato a lavorare con gli americani. Per cominciare, vedevano i francesi come noi vediamo gli arabi. In Libano, sono stato responsabile dell'ufficio di Newsweek. Quando gli americani venivano uccisi, scrivevamo articoli lunghi sei pagine. Quando qualche francese moriva, a nessuno fregava un cazzo.

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Morirono molti giornalisti laggiù?

Alcuni, ma per lo più libanesi. E nessuno ha scritto niente su di loro. Mi sono fermato a Newsweek fino al mini crollo di Wall Street nel 1987, poi hanno licenziato tutti. Non ricordo neanche in che cazzo di Paese fossi so che un tizio arrivò e disse: "Sei licenziato."

Che Paesi hai visitato dopo?
Ne ho visitati parecchi. Uganda, Mozambico, Kurdistan, Afghanistan, Cambogia e Iraq un paio di volte.

Per la guerra del Golfo?
No, per la guerra Iran-Iraq. Sono stato il primo sul fronte iraniano. Ho fatto un sacco di cose, contemporaneamente, come sempre. Stavo lavorando su Gang, Mondosex e sul mio giornale on-line. Ho continuato ad interessarmi alle zone di guerra. Sono stato fotografo per Parisien, e ho insegnato presso la scuola di rue du Louvre di giornalismo.

A occhio e croce hai avuto qualcosa come sei carriere diverse?
Sì, è stato dopo la pubblicazione di Gang, ho avuto quello che si potrebbe chiamare il blocco dello scrittore. Poi sono stato rapito da Guy Georges, il serial killer, il che mi ha terrorizzato a morte.

Come è successo?
È complicato, è una storia lunga e non posso raccontartela tutta. Grosso modo, ciò che accadde fu che avevo iniziato a frequentare questa gente rissosa che alimentava i disordini, e mi sono ritrovato faccia a faccia con Guy Georges e altra gente che mi chiese di fare fotografie che non ho voluto scattare. Foto delle periferie, per creare una sorta di paura, se sai cosa intendo.

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La frattura sociale del 1994.
France 2 all'epoca falsificava le foto ma era stata scoperta. Allora sono incappato in questi ragazzi che hanno tentato di minacciarmi. Mi hanno preso e torturato per tre settimane. Poi hanno continuato dicendomi che avrebbero sventrato le mie piccole e violentato mia moglie, così ho scattato le foto. Sapevo che questi tizi avevano già ferito della gente, l'avevo visto. Così ho preso un volo con la mia famiglia e i negativi. Mi hanno cercato per tre mesi. Guy Georges è stato infine catturato dalla polizia perché il suo complice vuotò il sacco.

Come è successo?
Erano veri delinquenti, permanentemente fatti di coca. Potrei raccontarti un sacco di storie pazze. Una volta sono andato a prendere Guy Georges, nella tarda mattinata per lavorare su Gang, e lui aveva appena ucciso una ragazza! Era il mio assistente alla fotografia in quel periodo. Mi aiutava a portare tutto il materiale di cui avevo bisogno per scattare le foto fasulle. A casa sua era pieno di armi. C'erano le granate. Ricordo di essere andato verso il suo appartamento, uno squat in cui viveva come un animale. Non si svegliava, doveva aver lavorato sodo la sera prima. Forse aveva sgozzato e fatto a pezzi persone mentre erano ancora vive. Ad ogni modo ho avuto lui e la sua banda attaccati al culo per un bel po' e mi portavano in giro.

Gesù. È stato intorno al 1995, vero?
Esattamente. Dopo quello, non avevo alcun soldo perché tutti i miei risparmi erano stati presi. Mi ci sono voluti due anni per tornare in pista.

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Ne avevi abbastanza della fotografia dopo questo?

Non volevo scattare più. Be', dopo ho messo insieme photographie.com, ma era più per hobby. Ero vicinissimo al rinunciare alla fotografia. Provavo le stesse sensazioni di quando mi hanno condannato a morte.

Come hai detto?
Sono stato condannato a morte due volte in Libano.

Cazzo. Cosa è successo?
È stato durante l'invasione israeliana, all'inizio degli anni '80. Questi ragazzi mi avevano preparato a morire, mi hanno cosparso il corpo con le cose che si mettono alle persone prima dell'esecuzione. Lì ho provato una paura fottuta.

Cosa ti passava per la mente?
Quando sono stato condannato a morte, mi sentivo come un cavallo destinato al mattatoio. Ho iniziato a sudare a secchiate ed ero incapace di muovermi. Il boia mi stava spruzzando con il patchouli, perché si suppone purifichi l'uomo prima dell'esecuzione. Avevano catturato il mio autista, che era una spia sunnita. Quella volta però è stata diversa dall'ultima, quando mi hanno quasi giustiziato con una pallottola nella testa, che non è così impressionante alla fine. Diciamo che quella del proiettile è l'esecuzione più semplice.

Sì, la parte peggiore sta nell'attesa.
Esattamente, e il timore annesso che l'attesa ti provoca. Il rituale. Poi hanno finalmente ricevuto la telefonata dall'ambasciata che ordinava loro di fermare il massacro. Invece, mi hanno costretto a leggere il Corano. Ero iper balbuziente, incapace di dire in arabo: "Allah Onnipotente, mi inchino davanti a te." Me l'hanno fatto ripetere tre volte e io ero ancora bloccato su "La-la-la." Quando sono tornato a Beirut, ho imparato tutti i versetti del Corano a memoria, per ogni evenienza. Be', l'ho ricordato per un mese e poi è andato nel dimenticatoio.

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Cosa hai fatto dopo il Kosovo?

Ero stanco della guerra, tornai a casa in Francia. Ho avuto un incidente in moto non molto tempo dopo, mi sono dilaniato. Ho una protesi in titanio in un arto e ancora un mucchio di roba nel corpo.

Stai lavorando a più libri adesso, giusto?
Ho intenzione di pubblicarne quattro. Continuo a lavorare per un sacco di riviste. Ho lavorato talmente tanto con il giornalismo che oggi è la cosa che mi interessa meno. Mi occupo pure di film. Ho anche ripreso ad insegnare in una scuola. Faccio sempre dieci cose in una volta. Sono alla mia quinta carriera adesso.

Che cosa ha riacceso l'interesse nelle bande?
Si sono messi loro in contatto con me. I problemi sono sempre gli stessi, i ragazzi sono un incubo, si vede. Mi piacciono ovviamente, ma in un modo simile a come mi sono piaciuti i rocker. Sono pieni di energia selvaggia, impossibile da contenere. E hanno degli ego enormi. La tv li ha resi stelle. Pensano che ci si possa fare dei soldi. E poi si sa, sono africani. Quei ragazzi discutono di tutto senza alcun motivo. A volte si mettono in posa e passano tre ore a discutere su quanto le fotografie saranno inutili e verranno gettate da qualche parte.

Sono davvero nella mise-en-scene.
Sì, e sostengono di sapere cosa stanno facendo.

Cosa fanno questi ragazzi?
Di base sono dei criminali. Mi hanno detto, "Abbiamo un patto con la squadra anti-sommossa per il momento: possiamo fare di tutto in una certa zona franca." La polizia sembra essere d'accordo.

E i ragazzi sono davvero sulla piazza, mi pare.
Sì, fanno pure delle rapine. Non sono un grande fan dei ladri, cerco di starci lontano. A Grigny i ragazzi che sono venuti ad accogliermi erano 30 e tutti tra i 15 e 16 anni. È sempre la stessa storia: sesso e violenza. Se dovessi paragonare il mio lavoro precedente alla musica, direi che ha un suono pesante, tipo AC / DC. Ma per Gang II, vorrei testare qualcosa di un po' più calmo, più adulto, più simile alla musica contemporanea. Voglio fare scultura con ragazzoni neri palestrati e duri come il ferro.

INTERVISTA: JULIEN MOREL

RITRATTO: MACIEK POZOGA