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"Se fossi greco non avrei la più pallida idea di cosa votare al referendum"

Nonostante qui in Italia molti abbiano le idee chiare sul "Greferendum" e tutte le sue implicazioni, io lo devo ammettere: oggi non avrei la più pallida idea su cosa fare, e non saprei davvero se votare "Sì" o "No."
Leonardo Bianchi
Rome, IT
Tutte le illustrazioni di Ria Petridou.

Questo posto appartiene alla rubrica "punti di vista". Per la nostra copertura sulla Grecia, vai qui.

Nonostante qui in Italia molti abbiano le idee chiare sul "Greferendum" e tutte le sue implicazioni, io lo devo ammettere: oggi non avrei la più pallida idea su cosa fare, e non saprei davvero se votare "Sì" o "No."

L'incertezza sull'esito di una decisione a dir poco storica—che la stampa italiana sta coprendo con l'atteggiamento di chi deve fare la cronaca di una riunione di condominio—è fotografata anche dai sondaggi, secondo i quali lo scarto tra "Nai" e "Oxi" è minimo.

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Two infographics by @AvgiOnline showing the results of its poll. Yes 45.5% No 45% Undecided 9.5% #Grexit #Greferendum pic.twitter.com/pVCQ4WLs8Q
— Jacopo Ottaviani (@JacopoOttaviani) July 3, 2015

Quello che so con ragionevole certezza, invece, è che la situazione è "un casino incredibile." A ben guardare, però, il "casino incredibile" si può tranquillamente estendere agli ultimi cinque di crisi greca dove, per parafrasare una celebre frase di Winston Churchill sui Balcani, probabilmente si è prodotta più storia di quanto non fosse possibile digerire.

Nella convinzione che quello che stava succedendo ad Atene lo si sarebbe rivisto, magari in forme meno violente, anche nel resto d'Europa, negli ultimi anni sono stato diverse volte in Grecia e ho seguito gli sviluppi sociali e politici molto attentamente. E la sensazione che ne ho ricavato è che la "crisi greca" non abbia mai riguardato solamente un paese di 11 milioni di abitanti, ma l'intero continente. O meglio: i principi fondanti dell'Europa—la sua anima, in un certo senso.

Gli sviluppi dell'ultima settimana consegnano un'immagine dell'Unione che, ora come ora, appare pericolosamente vicino alla disgregazione. Tra la crisi legata all'immigrazione, l'avanzata di partiti nazionalisti e la possibilità di una Brexit—ossia, come l'ha definita il Guardian, la "tempesta perfetta delle crisi che fanno a pezzi l'unità europea"—il timore avanzato da alcuni commentatori è che il referendum greco abbia il potenziale di diventare una specie di "Sarajevo del 1914" per l'Eurozona.

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Che qualcosa si sia incrinato nella governance dell'Unione emerge chiaramente dalle recriminazioni reciproche tra Bruxelles, Berlino e Atene—fatto che emerge platealmente anche attraverso l'utilizzo di certi vocaboli. Nel caos totale di questi giorni, infatti, la parola "tradimento" è aleggiata più volte nel dibattito. Il presidente della Commissione UE Jean-Claude Juncker, ad esempio, ha detto di essersi sentito "tradito" da Alexis Tsipras e dal governo greco.

Tuttavia, credo che siano i cittadini europei a doversi sentire intimamente traditi da una gestione dell'Unione Europea sempre più burocratica, rigida e lontana dagli ideali comunitari.

Senza tornare indietro a cercare le cause e i responsabili della crisi greca—semplicemente, è troppo tardi per farlo—il modo in cui sono naufragate le trattative tra il governo di Syriza e le controparti europee la dice lunga su rapporti di forza (o "ricatti," come li definisce Alexis Tsipras), deficit democratico e quant'altro all'interno dell'Unione.

Le ricostruzioni più dettagliate di come sono andate le cose le hanno fatte il New York Times e il Wall Street Journal, non esattamente due giornali stalinisti o smaccatamente pro-Syriza. Entrambi ribaltano una narrativa piuttosto in voga, cioè che la delegazione greca abbia improvvisamente deciso di interrompere il negoziato per un capriccio di Tsipras o per l'arroganza del ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis.

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In realtà, la decisione di indire il referendum—una mossa politica rischiosissima e potenzialmente letale per Tsipras e Syriza—è arrivata dopo che la controproposta di Atene è stata ricoperta di segni rossi dai creditori, e Jeroen Dijsselbloem (presidente dell'Eurogruppo) ha intimato ai greci che l'ultima offerta era una questione di "prendere o lasciare," troncando così ogni minimo margine di trattativa.

La beffa finale è arrivata con il comunicato ufficiale dell'Eurogruppo del 27 giugno, in cui la Grecia è stata relegata in una nota a piè di pagina.

Greece reduced to a footnote… #Greece #Eurogroup #referendum pic.twitter.com/JmchHYEM9P
— Kostas Kallergis (@KallergisK) June 27, 2015

Non sorprende che, in un contesto del genere, i cittadini della Grecia siano stati i primi a sentirsi traditi. In un post pubblicato su Byline, il giornalista greco Alex Andreu ha scritto:

Sono un eurofilo. Non solo, sono un prodotto dell'Unione. Ho strutturato la mia vita intorno all'idea della libertà di movimento; la mia identità intorno al concetto che posso essere più di una cosa sola: greco, londinese, britannico, europeo. Per la prima volta nella mia vita mi sto chiedendo seriamente se il progetto europeo non sia troppo danneggiato per essere aggiustato.

E qui torno sul referendum. Ragionando istintivamente, avrei tutte le ragioni per votare "NO"—del resto, lo farebbero anche premi Nobel del calibro di Joseph Stiglitz e Paul Krugman. Eppure, non prenderei questa decisione a cuor leggero.

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In un post molto sentito e anche drammatico, la blogger greca Theodora Oikonomides si è schierata per il NO con motivazioni decisamente amare. "Il quesito posto ai greci," scrive la blogger, "è diventato molto semplicemente se vogliono una morte veloce e violenta o una lenta e dolorosa. Queste sono le scelte che il referendum ha da offrire, queste sono le scelte che la democrazia in Grecia nel 2015 ha da offrire."

Vista la situazione—"dal 2010 siamo i testimoni di un disastro ferroviario al rallentatore"—Oikonomides mette nero su bianco lo stato d'animo che l'ha portata a compiere questa scelta:

Voglio uscire dall'Eurozona e voglio uscire dall'Unione Europea. Voterò "No" perché qualsiasi cosa possa eventualmente, forse, auspicabilmente, avvicinarci all'uscita dall'Euro è per me cosa abbastanza buona […]. Ne ho abbastanza di questi anonimi alti funzionari europei che raccontano al Financial Times che stanno prendendo delle decisioni per me e di come vogliano un cambio di regime in Grecia. Almeno, se quello con cui devo avere a che fare è il mio governo, posso decidere anche per loro.

In caso di vittoria del "No," Alexis Tsipras è convinto di poter trattare con più forza. Da Bruxelles però è arrivato un avvertimento piuttosto netto: se passa il NO, nell'Eurozona (e anche in Europa?) non ci sarà più spazio per la Grecia.

Giusto per rincarare la dose, ieri il presidente dell'europarlamento Martin Schulz ha evocato scenari apocalittici: "Senza nuovi soldi gli stipendi non saranno pagati, il sistema sanitario smetterà di funzionare, non ci sarà più luce elettrica e i trasporti smetteranno di funzionare."

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A quel punto la Grexit, lo spauracchio che agita i mercati finanziari e le cancellerie di mezza Europa da diversi anni, potrebbe concretizzarsi. A differenza del 2012, però, i leader europei hanno scommesso che i meccanismi di protezione dell'Euro reggeranno e non ci sarà nessun "contagio"; ma finché non arriverà il "momento della verità," nessuno sa come andrà a finire. Certo, a livello geopolitico ritrovarsi con uno stato fallito nel bel mezzo dell'Eurozona non è un'idea particolarmente brillante.

Dall'altro lato, il voto per il "Sì" è ugualmente un terreno inesplorato e zeppo di incognite. Al netto della propaganda che stanno facendo i media greci—e non solo—gli argomenti per votare in tal senso non mancano.

how Greek media covered #Greferendum demos: left circle is time for "no", right is for "yes". #greekmediapropaganda pic.twitter.com/vySZwziHLZ
— spyros gkelis (@northaura) July 1, 2015

In un articolo apparso sul sito di analisi Macropolis, Yiannis Mouzakis sostiene che la strategia di Tsipras—tornare al tavolo delle trattative forte della vittoria del "No" al referendum—non sia semplicemente praticabile, visto che la Troika ha già fatto vedere chi comanda veramente e mostrato l'insofferenza nei confronti del premier greco e di quello che rappresenta.

Il punto è che anche nel caso di un nuovo negoziato i controlli di capitale rimarranno in piedi e avranno "un enorme impatto" sull'economia greca, già completamente allo stremo. In tutto ciò, le scadenze "finanziarie" che la Grecia deve affrontare assomigliano a un vero e proprio percorso di guerra.

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Una, quella del rimborso di 1,6 miliardi di euro al Fondo Monetario Internazionale, è già stata mancata il 30 giugno. La data cruciale sarà il 20 luglio, quando scadranno i 3,5 miliardi di euro di bond in mano alla Bce e alle banche centrali nazionali. Il mancato pagamento equivale al default nei confronti della Bce, e a quel punto "si arriverebbe veramente al capolinea."

Per Mouzakis, dunque, il #Greferendum rimane una scelta tra il "pessimo" (il "Sì") e "l'ancora peggio" (il "No"). Il "Sì" permetterebbe di guadagnare ancora un po' di tempo e sopravvivere—ma senza "il romanticismo di quelli che vogliono restare nel cuore di un'Europa che non esiste più."

E che si tratti davvero di due opzioni disperate lo confermano anche gli scenari dell'eventuale vittoria del "Sì." Uno dei possibili esiti, infatti, è quello di provocare nuove elezioni, visto che Tsipras probabilmente si dimetterà; un altro, il peggiore, è che si esca comunque dall'Eurozona.

Secondo l'editorialista del Financial Times Wolfgang Munchau, quest'ultimo è indubbiamente "lo scenario più tossico," perché implica che "un'unione monetaria senza l'unione politica possa esistere solamente con la violazione dei principi basilari della democrazia. E questo sarebbe percepito come un regime totalitario."

Europe GDP per capita, post-2007 Germany +8% France/Ireland/Portugal/Spain Flat Italy -10% Greece -20% pic.twitter.com/YPT0zv8cbc
— ian bremmer (@ianbremmer) July 4, 2015

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In tutto ciò, l'aspetto ancora più assurdo è che un altro bailout potrebbe non essere sufficiente per restare a galla. Il 30 giugno il Guardian ha pubblicato dei documenti riservati del Fondo Monetario Internazionale sulla sostenibilità del debito greco—documenti che alcuni governi dell'Eurozona hanno cercato di bloccare in tutti i modi.

Il motivo di questo affanno è piuttosto semplice. "Nel 2030 la Grecia dovrà fare i conti con un debito pubblico insostenibile," si legge nell'articolo di Alberto Nardelli, "anche se dovesse accettare il pacchetto di riforme e di nuove tasse che le chiedono i creditori." Per una "ripresa economica duratura," dunque, servirebbe "una riduzione sostanziale del debito"—una misura che il governo di Syriza chiede da quando è salito al potere e che gli altri creditori, Berlino in primis, vedono come il Male Assoluto.

A ogni modo, fortunatamente oggi non dovrò scegliere in prima persona. Se da un lato sono sollevato, dall'altro sono abbastanza preoccupato dal fatto che, in un futuro nemmeno troppo remoto, potrei essere chiamato a fare questa scelta anche in Italia. E no, le parole di Matteo Renzi—"L'Italia non ha paura di conseguenze specifiche sul nostro Paese"—non mi hanno rassicurato per nulla.

In quest'ultima settimana, inoltre, mi è tornata in mente una scritta apparsa sui muri di Atene nel dicembre del 2008 che recitava: "Siamo un'immagine dal futuro." Era il periodo della rivolta scoppiata dopo l'omicidio del 15enne Alexis Grigoropolous—la prima insurrezione di massa nell'Europa della Grande Recessione.

Via.

Ecco: quello slogan mi è sempre rimasto impresso per il suo significato al contempo utopico e distopico, e soprattutto per il suo carattere profondamente profetico. Con il "Greferendum," credo che l'Europa intera sarà costretta a scoprire il reale significato di quell'"immagine dal futuro."

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