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Esistono dei film serbi che non sono 'A serbian film' e non sono di Kusturica

Ecco quelli che dovreste assolutamente vedere.

Un paio di anni fa si è sparsa la voce che Ralph Fiennes aveva scelto Belgrado e alcuni scorci di Montenegro come set per Coriolanus, il suo primo film da regista. La ragione, com’è intuibile, era di natura puramente economica: filmare a Belgrado costa meno che girare a Roma, dove si svolge il dramma di Shakespeare cui è ispirato l’adattamento (forse il primo nella storia orfano della dicitura Kenneth Branagh’s sopra il titolo) ma Variety ha ugualmente voluto celebrare l’avvenimento come un segnale inequivocabile della rinascita dell’industria cinematografica serba e della città. Se da un lato l’episodio ci rammenta la tipica presbiopia americana per cui tutto ciò che viene lambito da una Stars and Stripes riceve su due piedi un patentino di OK! – dalla democrazia al cinematografo – dall’altro suona vagamente irrispettoso per un cinema e una città che non necessitano certo di una chiassosa rilettura di un’opera “minore” del Bardo per dare ufficialmente inizio al proprio rinascimento. Così come non avevano bisogno di tutto il demenziale hype scatenato da A serbian film, l’inutile pellicola di Srdjan Spasojevic girata come se fosse uno snuff movie—ma con molti crani fracassati per davvero in meno e molta retorica pseudo-politica in più—e divenuta un caso solo tra gli impressionabili frequentatori del SXSW.

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Anche senza queste futili spinte “promozionali”—a vent’anni dall’inizio di una guerra da cui i serbi, per un probabile eccesso di semplificazione storiografica, sono usciti nel ruolo di unici responsabili e carnefici—Belgrado sta infatti diventando ogni giorno di più una delle città più vive d’Europa; una caotica metropoli dove una comunità creativa in costante espansione convive con i minacciosi esponenti delle mafie slave in un vortice tipicamente balcanico di elettronica underground, festival di new media, VZ-61, Slivovitz, tette rifatte, SUV e allucinanti discoteche turbo folk. Un circo allegramente scorrazzato da alcuni dei mezzi pubblici più incredibilmente scassati dell’emisfero occidentale.

Nel mezzo di questo fermento s’inserisce anche la storia recente del cinema serbo/yugoslavo, che ha offerto pellicole di grande forza espressiva ma che, per la grande maggioranza degli stranieri, si limita a essere associato al solo Emir Kusturica e alla sua poetica di “orge” gitane. In realtà, a ben vedere, anche al netto di Kusturica, il cinema belgradese ha saputo offrire un’enorme varietà di letture e narrazioni dei numerosi traumi storici attraversati dal paese e da tutta la Jugoslavia a partire dalla morte di Josip Broz Tito nel 1980. Eccovi quindi un piccolo breviario di alcuni dei migliori film (che non sono né di Kusturica né A Serbian film) degli ultimi 30 anni di cinema serbo. Balkanski Spijun (1984)

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Scritto da Dušan Kovačević e diretto da Božidar Nikolić, Balkanski Spijun (La spia dei balcani) è una commedia degli equivoci spionistici in cui tutti sospettano di tutti e che—in tono contemporaneamente dimesso e grottesco—illustra perfettamente l’ambiguo e paranoico rapporto del mondo jugoslavo con quello occidentale, lungo il crepuscolo del Titismo. Volendo trovare degli epigoni più noti mi vengono in mente questi: Un borghese piccolo, piccolo (con meno melodramma e massoni) e Le vite degli altri (con meno telefoni grigi e interni fumosi) ma Balkanski Spijun è N volte più “balcanico” e urgente di entrambi. Di tutti i film citati in questo articolo è l’unico a essere stato girato prima della divisione dell’ex Jugoslavia e anche, purtroppo, il più arduo da reperire in una lingua meno inavvicinabile del serbo.

Se Kusturica non fosse mai vissuto, probabilmente oggi si parlerebbe di Srđan Dragojeviċ come del regista slavo più importante degli anni ’90. Lo si ricorda tra l’altro per una sonora pernacchia indirizzata alla Miramax con cui, a inizio 2000, era stato lungamente in trattativa per girare un film («A un certo punto ho capito che tutto quello che la Miramax chiedeva a un regista era semplicemente entusiasmo. Non creatività. Non competenza. Non intelligenza. Semplice, stupido e cieco entusiasmo»). Di Dragojeviċ sono fondamentali in particolare due titoli, Lepa sela lepo gore (traducibile come: Bei villaggi, belle fiamme o I bei villaggi bruciano meglio) e Rane (Ferite): pellicole indispensabili per comprendere lo smembramento dell’identità yugoslava vissuto sulla pelle dei serbi. Entrambi, purtroppo, non sono mai stati distribuiti in Italia ma sono comunque facilmente reperibili sottotitolati in inglese.

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Lepa sela lepo gore (1996)

Lepa sela lepo gore è un lungometraggio di “guerra” del tutto sui generis che racconta il conflitto serbo-bosniaco dal punto di vista di una pattuglia di miliziani serbi rinchiusi in un tunnel, a pochi passi dal villaggio dove il protagonista è cresciuto in compagnia del suo migliore amico: un bosniaco divenuto ora uno degli aguzzini che lo attende a fucile spianato all'uscita. Intrappolati come topi, in compagnia di una terrorizzata giornalista americana, i sei soldati rivivono flashback della loro vita in un crescendo di nostalgia per la Yugoslavia unita, amara ironia e folli scoppi di cameratismo che—grazie alla felice e “gelida” mano di Dragojeviċ—si fermano sempre un attimo prima di sfociare in una melensa retorica di guerra sul genere “amici contro”. Lepa sela lepo gore è una pellicola dura, viscerale e disturbante come si conviene al difficilissimo e controverso tema che affronta. All’epoca qualcuno criticò il regista per aver tentato di rovesciare il rapporto storico tra vittime e carnefici ma, guardato con il senno di poi, credo che il film abbia invece il merito di restituire perfettamente la folle e animalesca spirale di violenza su cui si avvitarono i Balcani a inizio anni Novanta. Rane (1998)

Se davanti a certe scene (quelle finali in ospedale per esempio) di Lepa sela lepo gore vi dovesse venire il sospetto che il cinema di Srđan Dragojeviċ stia da una qualche parte comunque non troppo distante dall’interesse morboso di David Cronenberg per i liquidi contenuti all’interno dei corpi; Rane non farà che confermarvi questo sospetto, aggiungendo alla vostra cartina di riferimenti un altro paio di nomi tipo Abel Ferrara e David Lynch. Il film racconta la storia (peraltro vera) di Pinki e Kraut, due giovani allo sbando cresciuti nei quartieri più poveri di Belgrado che, durante gli anni della guerra e dell’embargo imposto dall’ONU alla città, conducono una scalata nel mondo del crimine metropolitano a suon di ultraviolenza e accettate (nel senso dell’accetta). Anche in questo caso, sullo sfondo della loro ascesa si scorge la dissoluzione del panorama sociale jugoslavo, rappresentata in particolare dalla figura del padre di Pinki, un ultra-nostalgico di Tito interpretato dal bravissimo Miki Manojloviċ (più che altro noto in Italia per aver spalmato di yogurt le tette di Alba Parietti ne Il Macellaio). Nel cast, nel ruolo del folle Kure, il mentore criminale dei due protagonisti, si riconosce anche lo straordinario Dragan Bjelogrliċ, un po’ l’attore feticcio di Dragojeviċ che gli aveva dato la parte principale anche in Lepa sela lepo gore. Rane è tanto un capolavoro del cinema pulp/verista – un affresco molto fedele (secondo chi ha vissuto quel periodo) della vita nella Belgrado sotto embargo – quanto una maratona di malessere e nichilismo al cui interno trovano spazio, per dirne solo alcune: un assurdo talk/reality-show in cui si intervista e si elegge il gangster della settimana, una novantenne che pippa a ritmi da Tony Montana, un rapporto sessuale coatto tra una madre e il figlio adolescente e una delle scene finali più “dolorose” che la mia esperienza di spettatore ricordi. Tristemente, due anni dopo aver partecipato a Rane, Dušan Pekiċ, l'attore che interpreta Pinki, è morto, appena diciannovenne, in circostanze misteriose.

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Profesionalac (2003)

A quasi vent'anni dalla sceneggiatura di Balkanski Spijun, dopo aver scritto quella di Underground di Kusturica e un numero indefinito di piece teatrali, la straordinaria penna di Dušan Kovačević ritorna sulle scene nel 2003 con Profesionalac: una commedia noir che, come gran parte degli scritti di Kovačević, affronta le pagine più cupe della recente storia serba (dal '91 in poi) intrecciandole a lunghissime e surreali parentesi in flashback, aperte sulle travagliate esistenze dei personaggi principali che, in questo caso, sono Teja – un ex professore che ha contribuito alla caduta del regime di Milosevic – e Luka, l'uomo che, in modo molto simile alla spia di Balkanski Spijun, lo ha seguito ogni giorno per 10 anni, per conto della Sicurezza Nazionale e che, di fatto, gli ha rovinato l'esistenza in più di un occasione. Mescolando biografia e storia, il film sa essere tanto un compendio dei torti individuali e delle ragioni collettive dietro al(la fine del) regime di Milosevic quanto una straziante "Ricerca del tempo perduto" da parte dei due protagonisti in cui però si ride anche, e molto. Del resto in Serbia la nostalgia è praticamente il sentimento nazionale. Quindi, insomma, la sanno raccontare senza prendersi eccessivamente sul serio.

Beogradski Fantom (2009)

Ero indeciso se concludere l’articolo parlando di questo film, un po' perché lo reputo il "meno riuscito" tra tutti quelli che ho raccontato finora, un po' perché, anche se è il più recente (2009), è basato su fatti addirittura precedenti a quelli di Balkanski Spijun e quindi ne avrei potuto anche parlare per primo. Beogradski Fantom è un ibrido tra fiction e documentario, girato con una povertà di mezzi che a volte fa quasi tenerezza (specie se confrontata con la sontuosa estetica del suo più naturale epigono Hollywoodiano, Drive) e racconta la storia assolutamente vera e assolutamente incredibile del Fantasma di Belgrado. Una storia che assume qui i contorni di metafora della transizione tra la parentesi “felice” della storia jugoslava e l’ “inizio della fine” dell’era Tito. L’anno è il 1979, Josip Broz Tito—un anno prima della sua morte—si trova in visita a Cuba da Fidel Castro per uno degli ultimi summit bilaterali tra paesi non allineati e a Belgrado viene rubata una Porsche bianca con targa tedesca. Mentre la polizia non sa più dove cercare per recuperarla, una notte la Porsche riappare a fianco di una Zastava della Stradale. Parte così un lungo inseguimento che si conclude sulla rotonda principale di Belgrado. La stessa scena si ripete per diverse notti, con sempre più volanti al seguito e si conclude sempre nella stessa rotonda e sempre nella stessa maniera: con Vlada Vasiljevic, il giovane e solitario pilota al volante della Porsche che si diverte a umiliare a "doppiare" ripetutamente i propri inseguitori. Notte dopo notte intorno alla rotonda si assiepa un numero crescente di spettatori accorsi per vedere quello che le strade hanno ormai ribattezzato "il fantasma" e che in breve diventa un simbolo, un eroe dell'insurrezione contro l'oppressivo potere poliziesco di Tito.

P.S. Se volete sapere come va a finire Beogradski Fantom—sia il film che la storia vera—cliccate qui.

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