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E se Twin Peaks ci piacesse soltanto perché è firmata da David Lynch?

A un anno dalla messa in onda dell'ultima stagione di Twin Peaks, una riflessione sull'autorialità, sul nuovo modo di concepire la TV e su quanto un caffè possa essere maledettamente buono.
Screengrab via Showtime.

È passato un anno dalla messa in onda della terza (e ultima?) stagione di Twin Peaks, eppure abbiamo ancora voglia di parlarne. Del resto, proprio in questi giorni il suo creatore David Lynch è finito sui giornali per aver lanciato un appello a "prendersi il tempo per capire i propri sentimenti e opinioni prima di scrivere di un film". Quindi eccoci qui a discutere di Twin Peaks 3. Voglio iniziare citando Jason Mittell: con questo nuovo progetto Lynch ha preso e buttato da parte il concetto di TV complessa cui grossomodo la stragrande maggioranza delle serie contemporanee guarda. Questo termine comprende appunto tutte quelle forme di narrazione televisiva che compongono il panorama delle serie, in maggioranza americane, che negli ultimi 15/20 anni hanno costituito uno scenario forse alternativo, per alcuni complementare, al cinema: da questo mosaico è nato l’ormai abusatissimo, ma non meno vero, cliché da bar per cui un preciso tipo di serialità televisiva complessa rappresenta oggi l’unico vero sostituto del cinema nell’ambito dell’intrattenimento “di qualità” (definizione spinosa, ma il discorso rischia di andare fuori strada quindi teniamola buona). Pensiamo a serie come Lost, Breaking Bad, Game of Thrones e tante altre, tessere (pur ognuna con le sue peculiarità) del mosaico di questa nuova forma narrativa con il suo preciso bagaglio di soluzioni, stilemi, tecniche e quant’altro.

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Twin Peaks 3, presentandosi come un prodotto appartenente a questo mondo che abbiamo sommariamente descritto, ne ha preso e capovolto le consuetudini. A visione conclusa sembra ben più calzante la definizione di “film lungo 18 ore” (che detta così fa un po’ due palle, tipo la soundtrack di Thom Yorke, solo che in questo caso è anche una figata) piuttosto che di serie TV così come siamo oggi abituati ad intenderla. Comunque è innegabile che il processo apparentemente messo in atto da Lynch sia la frustrazione sistematica delle aspettative di uno spettatore che ha assistito al capovolgimento delle sue certezze nell’ambito della serialità televisiva. A dimostrazione di questo basti constatare il generale fallimento di tutti i parametri predittivi degli innumerevoli paratesti (dagli articoli più seri al borbottio da social) prodotti durante la messa in onda della stagione. TP3 si è travestita da serie TV, ma ne ha ribaltato le premesse.

La complessa impalcatura di richiami interni di una serie TV complessa così come siamo abituati ad intenderla, porta ad una gratificazione dello spettatore accorto attraverso la restituzione di feedback positivi in merito alla sua comprensione di quanto sta vedendo, incoraggiandolo a proseguire nella fruizione. Nella nuova Twin Peaks questo elemento non è semplicemente assente, ma anzi è ribaltato: lo spettatore non è gratificato ma frustrato quasi sadicamente nel suo non riuscire a raccapezzarsi di fronte a situazioni che semplicemente non sono quello che la razionalità porterebbe a prevedere. Si può identificare la logica di questa scelta nell’adozione della consecutio non consequenziale tipica del sogno, oppure più radicalmente in una consapevole incoerenza di Lynch che semplicemente si disinteressa del riallacciare i fili della narrazione nel quadro ordinato che lo spettatore odierno si aspetta e pretende. La questione che si pone immediatamente diventa allora perché Lynch sia autorizzato e legittimato dalla critica a non seguire le logiche tradizionali della narrazione (televisiva e non solo), mentre se ad adottare la stessa poetica fosse stato un autore emergente le stroncature sarebbero state probabilmente unanimi. Riassumendo, la domanda è: dove si colloca il confine tra autorialità e incapacità, tra libertà creativa e scarsa capacità di scrittura? Lynch può farsi le seghe a nostre spese semplicemente perché si chiama così, o c’è dietro qualcosa di più?

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Anzitutto, occorre specificare che per rispondere a queste domande il concetto di autorialità è da intendersi non come status raggiunto del creatore della serie, ma come complesso coerente di temi e stili ricorrenti nell’opera omnia del regista. Insomma, non parliamo di Twin Peaks come di un capolavoro solamente perché è firmata da Lynch e Lynch è Lynch; è ovvio che un approccio di questo tipo, basato solo sull'hype, sarebbe distorto e svilente. Se invece guardiamo l’arte di Lynch come auteur complessivo, è evidente che questa nuova Twin Peaks rappresenti l’ovvio esito di una poetica che - pur con forme diverse ed esiti alterni - delle forme narrative “convenzionali” se ne è sempre un po’ infischiata. Pensiamo, più che ad esperimenti surreali e totalmente free form come il primo capolavoro Eraserhead, a film come Strade Perdute, che guarda caso è l’opera con cui questa serie dialoga più strettamente (oltre a Fuoco Cammina con Me, per ovvie ragioni). Anche lì Lynch faceva un po’ il cazzo che gli girava, e il pastiche di generi era straniante e inafferrabile (noir, thriller, horror, crime, dramma psicologico); il punto di non ritorno arrivava poi senza preavviso, catapultando lo spettatore in una storia completamente nuova e senza fornirgli appigli per una qualsivoglia spiegazione razionale. Le plurime interpretazioni del significato del film (un'espressione che lo stesso Lynch schiferebbe immediatamente) spaziano con grande fantasia tra letture psicanalitiche, oniriche, sovrannaturali e freudiane. Cosa che d’altronde si sta verificando anche per il criptico e devastante finale di Twin Peaks 3. La risposta, che stavolta arriva per bocca del feticcio MacLachlan/Cooper, è ancora una volta: non chiedete, ma guardate e (se volete) scegliete voi.

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Riallacciandoci agli studi di David Bordwell (questo è un articolo serissimo se non l’avete ancora capito) sulla negazione dell’esistenza dell’autore implicito - siamo nell’ambito della critica letteraria, ma sono strutture di analisi che ben si prestano allo studio di un prodotto come Twin Peaks e della serialità televisiva in generale - la questione può diventare allora se Twin Peaks sia una narrazione autosufficiente. Assodato che la sua autorialità è consistente e coerente con l’arte lynchiana tout court, esisterebbe TP in sé anche senza l’ombra creativa di David Lynch? Un’ipotesi di risposta può essere data prendendo in prestito il concetto di funzione dell’autore desunto, avanzata ancora da Jason Mittell nel suo Complex TV (l’abbiamo già citato all’inizio).

Lynch stesso è presente nella narrazione, inserito nella finzione narrativa attraverso il personaggio di Gordon Cole. Già il nome fittizio indica una chiara intenzione metanarrativa: è un rimando a uno dei film preferiti di Lynch, Viale del Tramonto, che nella finzione è anche l’elemento scatenante del tanto agognato risveglio di Cooper. Gordon Cole è sordo, ma fischietta assorto con un fungo nucleare sullo sfondo. Ha il quadro complessivo in mano, ma sembra sempre che qualcosa gli sfugga. Se la prende con calma e si preoccupa per la fretta di Albert, in un’evidente metafora delle drogate modalità fruitive seriali di oggi: niente bingewatching, è giusto prendersi il tempo necessario prima di sapere qualcosa di importante. Su tutto, la già eterna domanda who’s the dreamer?. Più che demiurgo della serie, spesso Lynch in questa terza Twin Peaks è sembrato uno spettatore a sua volta, spaesato e curioso come noi nel (non) ritrovarsi in un contesto familiare ma nuovo al contempo, imprevedibile e sfuggente proprio come quello di un sogno. Quindi sì, sembra dirci lui stesso: “TP esiste anche da sola, e io la sto scoprendo insieme a voi”.

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Ricollegandoci a quando detto prima, niente di strano in una filmografia fatta di sceneggiature per lo più improvvisate, o costruite in itinere ( Inland Empire su tutte). Vista così, ha poco senso l’esegesi forzosa della visione in sincrono dei due episodi finali millantata da qualche maniaco, così come le rimostranze sulle linee narrative lasciate irrisolte. D’altronde lo stesso Lynch ha sempre trattato la propria ispirazione, e in particolare le proprie “idee”, come qualcosa di autonomo, che esiste di per sé e che attende di essere “pescato" dalle buie acque del suo inconscio, come emerge dalla lettura dell’autografo In Acque Profonde, o da una qualsiasi delle tante interviste raccolte in Perdersi È Meraviglioso.

Contigua al dibattito su autorialità e libertà narrativa è la questione relativa al portato innovativo di questa nuova Twin Peaks. È facile leggere da più parti autori che profetizzano che di questa serie se ne starà ancora parlando di qui a vent’anni. Come la prima stagione, questa The Return è stata fuor di ogni dubbio un momento di rottura (di continuità e a volte, ammettiamolo, anche un po’ di palle) nella serialità televisiva per come è stata intesa negli ultimi anni. Sempre riallaciandoci al lavoro di Mittell, è interessante notare che nel quinto capitolo di Complex TV (intitolato, appunto, "Comprensione") l’autore apra la sua analisi sostenendo che “gli spettatori si appassionano alle serie TV in modi diversi, ma di base quasi ogni visione comincia con un processo fondamentale, quello della comprensione, ovvero la ricostruzione di ciò che sta succedendo all’interno di un dato episodio”. È subito evidente che Twin Peaks 3 neghi e ribalti questo assunto, conducendo il suo pubblico in un universo in cui è impossibile trovarsi a proprio agio riconoscendo le coordinate narrative seguite. Temporalità non lineare, dimensioni parallele, forse paradossi temporali, Logge e quant’altro. Vero è che gli spettatori contemporanei sono oggi molto più abituati ad una narrazione complessa e spesso volutamente arzigogolata, dove dipanare la matassa fabula/intreccio è già buona parte dell’intrattenimento. Pensiamo ancora a Lost, con la sua orgia di flashback, flashforward, viaggi nel tempo e infine flash-sideways.

Lo scarto ulteriore messo in atto da TP è però il fatto che l’espediente narrativo non sia più solamente un mezzo per raccontare in modo più complesso una storia comunque, in sé, lineare, ma diventi storia esso stesso. Negli esasperanti dialoghi tra Audrey e il marito (come nei siparietti pre-live alla Roadhouse) non sappiamo né dove, né quando, né come né perché ci troviamo in quella scena. Tutto ci sfugge, dai nessi causali con le altre linee narrative fino addirittura alla dimensione in cui la scena si colloca. E il tentativo di dare spiegazioni razionali è la risposta al bisogno di ricondurre qualcosa di nuovo a una forma che già conosciamo e che ci rende sicuri, ma che non appartiene a questo prodotto. In tal senso è utile pensare anche alle norme intrinseche del mezzo che TP usa ma scardina: la durata prestabilita di una puntata di una serie TV è solitamente di 30 o 60 minuti. La consapevolezza da parte dello spettatore che l’episodio in visione stia giungendo al suo termine, lo porta ad aspettarsi la chiusura di una sottotrama, oppure un cliffhanger finale che lo porti alla spasmodica attesa dell’episodio successivo. A questo punto è scontato constatare che in TP3 questo non succeda praticamente mai.

Detto questo, è evidente come lamentare buchi di sceneggiatura o sotto-trame lasciate inconcluse sia fuorviante. È poi altrettanto chiaro che quasi sicuramente TP3 rimarrà un caso isolato, una nuova forma narrativa che difficilmente genererà epigoni in futuro; questo proprio perché è il coerente punto di arrivo nella poetica di un autore, piuttosto che il capostipite di un’improbabile eventuale rivoluzione televisiva. Detto questo, perdercisi è stato meraviglioso.

Luca è su Netflix Facebook.

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