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Musica

Non è ok dire "n***a" se sei bianco, anche se stai facendo una cover

Roshelle ha postato su Instagram un video in cui canta "Bodak Yellow" usando la N-word—il che non la rende razzista, ma dimostra quanto anche in Italia la sensibilità della scena hip-hop stia cominciando a cambiare.
roshelle
Fotografia via SKY.

Roshelle, partecipante alla scorsa edizione di X Factor, ha caricato su Instagram un video live in cui si esibisce in una cover di "Bodak Yellow" di Cardi B. Il che non sarebbe un problema, se non fosse che il testo del brano è pieno di "nigga"—un termine dalle forti connotazioni razziste, il cui uso da parte dei bianchi è oggetto di discussione praticamente dagli inizi del'hip-hop. Innanzitutto, qua sotto trovate il video in questione.

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Sotto al video ci sono alcuni commenti che criticano Roshelle per la scelta della cover: "Ma rischiare una carriera con la n word"; "Non esiste che tu lo dica, assolutamente"; "Sì ma potevi evitare di cantare la parola "n***a" visto che tu sei bianca"; "Non importa se canti le parole di una canzone è questione di rispetto." Sono parole che vanno nella direzione che la discussione sull'uso del termine sta prendendo negli Stati Uniti: cioè quella per cui i bianchi non dovrebbero mai usarla, nemmeno in modo colloquiale o ironico. Questo perché vivere in una nazione in cui il razzismo è stato una realtà diffusa fino a pochi decenni fa, e si è ormai ripalesata a livello istituzionale—vedi alle voci Trump e Black Lives Matter—significa tradire i principi etici alla base di ciò che l'America stessa dovrebbe essere.

Un buon esempio di quanto la questione sia sentita negli Stati Uniti si trova in Dear White People, una nuova serie di Netflix che segue le vicende di Reggie, un universitario e attivista di colore. In una scena del quinto episodio della serie Reggie si trova a una festa, e un ragazzo bianco canta un pezzo rap ripetendo i vari "nigga" del testo. Reggie gli chiede di non farlo, e ottiene come risposta un "Ma io non sono razzista!" La discussione si trasforma in un litigio, qualcuno chiama la polizia e Reggie si trova una pistola puntata addosso. In un articolo sull'Huffington Post, la giornalista Zeba Blay usa quella scena per spiegare quanto sia stancante per una persona di colore dover spiegare a un bianco perché non è ok usare la n-word:

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Parte del motivo per cui è emotivamente sfiancante spiegare a un bianco perché il suo uso di "nigga" è un problema sta nel fatto che spesso interazioni come quella della serie avvengono in pubblico, nella vita reale o online. E bisogna spendere molta energia mentale per reprimere la propria rabbia, e quindi per evitare di non essere presi in considerazione in quanto irrazionali o troppo aggressivi. Come Reggie, dobbiamo compromettere la nostra umanità in modo da rendere più visibile "perché è un problema così grande" alla persona bianca che non lo capisce.

Ad alimentare la discussione c'è anche il ruolo che l'hip-hop ha nel panorama mediatico e culturale contemporaneo. Il rap è il genere musicale che più ha adottato la n-word, rovesciandone il significato razzista e trasformandolo in un "fratello", un simbolo di comunanza all'interno di una comunità discriminata. Sono ormai anni che il rap ha cominciato a diventare pop, e quindi a mettere in discussione le sue radici e le sue consuetudini interrogandone il senso e le implicazioni. Un esempio è stata la discussione sull'uso della parola "bitch" per riferirsi alle ragazze: è ok che un maschio etero, facente parte di una cultura fortemente machista, chiami "bitch" una ragazza, suggerendo quindi la sua oggettificazione? La risposta tendenzialmente è "no", e non è un caso che artisti particolarmente attenti a questioni etiche come Chance the Rapper o Kendrick Lamar—che in To Pimp a Butterfly ha provato a spostare l'attenzione sul termine adottando il positivo "negus", antico titolo nobiliare di origine etiope—si guardino bene dal farlo.

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"Bodak" è un pezzo che, secondo i nostri colleghi americani, ha rotto la macchina del pop bianco. La tesi è semplice: Taylor Swift, espressione pratica del capitalismo musicale, ha perso il podio delle classifiche; se l'è preso una ragazza di colore, nata nel Bronx, i cui genitori sono immigrati arrivati negli Stati Uniti da Trinidad e da Santo Domingo, con un pezzo rap piuttosto lontano da quella che l'industria crede ancora essere la sensibilità pop dominante. A questo si aggiunge il valore simbolico di una donna di colore prima in classifica nell'America di Trump—una vittoria senza vere ricadute politiche, certo, ma comunque una piccola gioia.

L'uso di Roshelle della n-word non la rende certamente razzista; semmai è un simbolo di scarsa attenzione alla nuova sensibilità che sta cominciando a rendere l'hip-hop un luogo più inclusivo e attento a questioni etiche come la discriminazione e il sessismo. È un processo che in altre parti del mondo prosegue da anni; noi, invece, viviamo in un paese che ha cominciato a capire il rap solo un paio di anni fa. Un paese pieno di gente che, inoltre, tende a tacciare di "buonismo"—una parola che non esiste—qualsiasi uso di dati e razionalità per affrontare questioni di razzismo e di genere. Insomma, un paese a maggioranza bianca. Quindi da un lato è positivo che una caduta di stile venga fatta notare, ma dall'altro è necessario un esame di coscienza collettivo.

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Per affrontare la questione ci vuole rispetto: bisogna lasciare che la gente di colore combatta le proprie battaglie, altrimenti ci stiamo appropriando anche delle sofferenze che noi stessi e il sistema di cui tuttora facciamo parte hanno procurato e stanno procurando. Sforzarsi a creare una società che tenga conto della sensibilità di chi non è maschio, bianco ed etero è un obiettivo lodevole, ma non è buttandoci sotto il tram a vicenda—cioè insultandoci su Internet—che si raggiunge. Servono invece umiltà, sforzo e onestà intellettuale.

A godere del rap e a formarne la coscienza collettiva nazionale sono e saranno sempre più ragazzi e ragazze di seconda generazione, meticci, queer: la sensibilità comune potrà quindi adeguarsi o scontrarsi con la loro esperienza di vita e i loro pensieri. Il fatto che anche in Italia si stia cominciando a discutere del significato di gesti che potrebbero essere percepiti come razzisti è quindi solo un bene—contando inoltre l'influenza che il rap ha e avrà sullo sviluppo culturale dei ragazzini italiani. Resta che la n-word non ci appartiene: è dei ragazzi e delle ragazze di origine africana, è di chi l'ha usata per esprimere il senso di terribile frustrazione scaturito dalle discriminazioni a cui la sua comunità è stata sottoposta. È di Tupac, che la usò in positivo rendendola un acronimo: "Never Ignorant Getting Goals Accomplished", e di tutti gli artisti che hanno seguito i suoi passi. Non è nostra, e non usarla quando cantiamo una canzone rap dal vivo significa mostrare rispetto alla persona di colore che ha scelto di usarla.

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