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A10N3: Salvare il Sudan del Sud

Stanno arrivando

Il nuovo numero di VICE è interamente dedicato al Sudan del Sud, una delle nazioni più giovani del mondo, e segue le vicende dei reporter Robert Pelton e Tim Freccia e dell'ex ragazzo perduto Machot Lat Thiep.

L’ex bambino soldato Machot Lat Thiep a Nairobi, in Kenya.

"Stanno arrivando. Forse non arriveranno ora, forse non il prossimo anno, ma arriveranno. Halliburton, Monsanto, Nike, Samsung. Stanno arrivando.” Il nostro autista si chiama Edward. Ha passato i 30, è bianco ed è nato in Kenya. Ha le guance di un colorito vivace e i capelli biondi e mossi. Il suo accento inglese è quello che alcuni definirebbero arcaico. Altri, coloniale. Qualche ora prima Edward mi aveva detto di aver finalmente trovato un pilota disposto a portare la nostra troupe nel Sudan del Sud in stato di guerra, e in particolare nella regione in mano ai ribelli. Il Sudan del Sud è la nazione sovrana più giovane d’Africa—e del mondo. Ha ottenuto l’indipendenza il 9 luglio 2011, dopo un referendum passato col 98 percento dei voti. A poche settimane dal nostro arrivo, il governo era imploso in seguito a un profondo scisma interno all’amministrazione, e in particolare la deposizione dell’ex presidente e attuale leader dei ribelli Riek Machar dietro ordine del presidente Salva Kiir. Le ultime notizie davano Machar in fuga. Ero determinato a trovarlo ed ero abbastanza certo di farcela—se solo fossimo riusciti a prendere un maledetto aereo e trovare un pilota disposto a portarci. Edward mi dice cosa farebbe se avesse un milione di dollari da “investire in Africa.” Stiamo correndo a rotta di collo su una superstrada di Nairobi, coi fari che rivelano appena la strada davanti a noi. Sono in compagnia di Machot Lat Thiep, un Ragazzo Perduto, ex bambino soldato e attuale direttore di un Costco a Seattle, ora convinto di voler “salvare il suo Paese.” Il terzo membro della nostra cricca è il fotografo e regista Tim Freccia, un reporter con una certa esperienza in Africa. Convincerli a seguirmi non è stato difficile.

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La cosa veramente difficile è stata trovare un pilota che dal Kenya fosse disposto a farci entrare clandestinamente nel Sudan del Sud. Il rischio più grosso è di essere additati come cospiratori da parte dei ribelli e finire col pilota incenerito. Eravamo nel Paese da dieci giorni, e avevamo incontrato decine di compagnie charter e cercato di convincere diversi piloti. Quelli che non avevano rifiutato immediatamente si erano tirati indietro all’ultimo momento. Eravamo arrivati a prendere in considerazione il ritorno negli Stati Uniti. Ma Edward insiste, dice di aver trovato l’uomo che fa al caso nostro.

“Questo è un affarista. Recupera gli ostaggi in Sudan,” dice Edward. “L’anno scorso i somali hanno cercato di prendergli l’elicottero, e lui ha fatto perdere le sue tracce. Ha interrotto l’attività per un mese, ma è il prezzo da pagare.” Edward è un tipo vivace. Ogni tanto guarda fuori dal finestrino, evitando a malapena le buche e i dissuasori di velocità. Superiamo un semiarticolato che è uscito di strada e si è rovesciato. “Passami la macchina fotografica,” dice. Si sporge per scattare una foto nella luce del sole morente. Le persone per strada cercano di bloccargli la visuale coprendo la lente. Edward insiste finché non riesce a ottenere i suoi scatti della cabina distrutta. “Bello questo.” Il nuovissimo stato del Sudan del Sud è andato in pezzi da poche settimane, e Machot sta cercando di entrarci. Io voglio intervistare Machar, mentre Tim è qui per fotografare il tutto. Ci stiamo dirigendo verso il nostro volo. Questo pilota è la nostra ultima possibilità. Ma ci sono tre ore a separarci dall’aeroporto privato, a nord, e dobbiamo ammazzare il tempo. In tasca c’è un rotolo di banconote stropicciate, per un totale di 15.000 dollari. Parliamo di Africa e opportunità. “Apri un’azienda, sistemi tutto, fai un sito, tutto quanto… e aspetti,” dice Edward. Schiva un camion che perde carburante e torna a rivolgermi la sua attenzione. “Presto o tardi arriveranno loro da te. Il figlio del presidente aveva usato il nome “Vodafone” per la sua azienda. Allora Vodafone l’ha messo due settimane all’Intercon, ma lui non ha voluto cambiare nome. Alla fine hanno dovuto chiamare l’azienda Safaricom.” Parla del figlio del presidente del Kenya Uhuru Kenyatta, a sua volta figlio del padre fondatore della nazione, Jomo Kenyatta. Questo tipo di frode legale è strano e tecnologico per un continente conosciuto per il bracconaggio. È come occupare, è simile a quello che i capi tribù facevano quando incontravano gli esploratori bianchi, desiderosi di dare via migliaia di ettari di terra che non possedevano. Ma allora tutto ciò che ci voleva per completare l’accordo erano un rotolo di stoffa e qualche perlina. “Aprire un’azienda costa solo 240 dollari. Nomi come JPMorgan, Goldman Sachs… arriveranno, si sa.” Edward è abbastanza sincero, e si scusa nel rivelare la sua avidità. Ci dirigiamo da Nairobi a nord, attraverso un labirinto di minibus matatu, buche giganti e pedoni che vagano nella notte del Kenya. La nostra fretta di arrivare alla pista è parte di un complicato gioco di tempi ancora tutto da spiegare, qualcosa di insolito per questo continente.

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Robert Young Pelton conta banconote da cento dollari.

Ho scelto Edward perché è nel commercio delle rose. Le rose sono una coltivazione importante in Kenya, e vanno trasportate ogni giorno per via aerea. Ha passato la scorsa settimana a organizzare voli per trarre in salvo membri di ONG dai combattimenti in Sudan del Sud. In quanto kenyota bianco, Edward sa un sacco di cose che un turista casuale non si noterebbe nemmeno. Edward conosce la genetica. “Le rose sono un grosso affare in Kenya,” spiega. “C’è una stretta finestra intorno a 1.200 metri. Se le fai crescere a un’altitudine troppo elevata, i fiori verranno troppo grossi; se le fai crescere troppo in basso, invece, i gambi saranno troppo lunghi. Io so che rose vendere. Che rose far crescere. Potrei comprare un pezzo di terra, farci crescere le rose migliori e fare una fortuna.” Edward è stanco di vedere altra gente con meno passione e meno conoscenze fare più soldi di lui, mentre lui deve arrangiarsi tra vari lavori per andare avanti. “Un metro quadro coltivato a rose può valere anche 50 dollari all’anno in profitti.” Ci spostiamo dalla traiettoria di un camion che viene nell’altro senso. Le rose sono un ottimo sistema per contrabbandare droga. Gran parte dei piloti vengono assunti per contrabbandare all’estero il qat, una pianta stimolante coltivata in Kenya e in Somalia. Ma ci sono anche un sacco di droghe che in Kenya ci entrano—cocaina ed eroina, soprattutto. Anche Edward conosce quel giro. “I fiori arrivano con questi piccoli pacchettini bianchi che dovrebbero essere pieni di zucchero per far durare la fioritura più a lungo.” Alza le dita per farmi vedere. “Le buste sono sottovuoto, così i cani non possono sentirne l’odore.” Il settore delle rose offre anche l’opportunità di riciclare denaro sporco. “Paghi in scellini kenyoti,” ci dice, “Ma all’estero vieni pagato con valute forti—dollari ed euro. Tieni quei soldi all’estero e fai tornare nel Paese solo quello che ti serve per coprire i costi.” Edward non è coinvolto in questi affari, ma vede quanti soldi fanno quelli che vi sono coinvolti. Per ora si arrangia. È un africano esperto di ogni possibile commercio che cerca di fare soldi nel suo continente mentre osserva gli stranieri intorno a lui riempirsi i conti bancari. Quando gli ho chiesto se poteva trovarmi un pilota disposto a portaci in Sudan del Sud—specialmente considerato dove volevamo andare e chi volevamo incontrare—l’ha presa come una cosa personale. Mentre guidiamo nella notte oscura, facciamo conversazione per passare il tempo. Un camion della Brookside Dairy con lo slogan “Goodness for All” dipinto su lato ci sbarra la strada. “Ti dico, Robert, qui è tutto corrotto,” ci spiega Edward, indicando il camion. “Il proprietario della Brookside Dairy è il presidente del Kenya. Quando la Parmalat, una grossa azienda italiana, ha cercato di entrare sul mercato, non è riuscita a ottenere una licenza per farlo.” (Parmalat ha dato la colpa alla violenza legata alle elezioni.) Da qualche parte nel buio intorno a noi c’è una vasta coltivazione di ananas. “Tutti stanno facendo i soldi. Il presidente Kenyatta e la sua famiglia sono tra i maggiori proprietari terrieri del Paese,” prosegue. E poi ci sono i “lavoratori fantasma” del governo: “Il governo kenyota ha sul suo libro paga migliaia di persone che non esistono. Si è scoperto che, di 16.000 impiegati, solo 12.000 andavano al lavoro. Ogni gara d’appalto governativa è truccata. Quando riceviamo un’offerta da 600.000 dollari, diciamo che è da 1.2 milioni di dollari, perché dobbiamo metterne da parte 200.000 per i faccendieri.” Un’altra cisterna di carburante ci sbarra la strada. “Quella del petrolio è una grande truffa. I camion vengono caricati a Mombasa, e l’autista corrompe l’incaricato perché non sigilli i bocchettoni. Di notte, dei ragazzi seguono il camion, lo svuotano dal carburante e lo riempiono di kerosene di scarso valore, così che il volume rimanga lo stesso. Possono farlo da un camioncino, mentre l’autista è alla guida del camion. Se riescono a rubare cinque barili per ogni viaggio, sono circa 1.000 dollari al giorno. Non è tanto, ma è abbastanza perché ne valga la pena. Poi il camionista gli fa sigillare i bocchettoni e, quando arriva a destinazione, scarica il camion.”

Tra tutti questi soldi e queste opportunità irrealizzate, Edward crede che l’Africa sia marcia fino al midollo. Io non ho modo di sapere se tutto quello che mi racconta Edward è vero, ma è giusto dire che quella delle opportunità, in Africa, è una strada a due corsie. Chi possiede le risorse è intelligente quanto chi arriva per sfruttare questo continente. La corruzione qui è simile al patronato: basta farsi gli amici giusti, ungere i meccanismi giusti, e le cose succedono. “Da queste parti si fanno un sacco di soldi con la compravendita di moneta. C’è un funzionario della Banca Centrale del Kenya che dice ai compratori se lo scellino salirà o scenderà. I suoi amici comprano e vendono e fanno milioni. Sono soprattutto indiani. Per questo qui è tutto falso—fanno salire e scendere la moneta. Quel tipo sul ciglio della strada,” indica, “guadagna 300 scellini [circa 3 dollari] al giorno. L’anno prossimo, per sopravvivere, dovrà guadagnarne il doppio. Nel frattempo, tutti i pesci grossi diventano sempre più ricchi. Ogni contratto qui ha un prezzo. È frustrante. Ho mandato 32 proposte per piantare una coltivazione di rose. Proposte vere, firmate da avvocati e contabili. Ho bisogno di 2.800 dollari a ettaro—1.2 milioni in totale—e nel giro di un anno e sette mesi rientrerò di tutto l’investimento.” Edward non pensa in modo lineare; gli piace divagare. All’improvviso torniamo a parlare dell’appropriazione dei loghi: “Stanno per venire qui aziende come la Monsanto. Vengono direttamente da te perché andare in tribunale gli costa troppo. È un sistema corrotto. Devono pagare tutti. Bisogna sempre pagare tutti…” conclude. Ma i suoi affari, alla fin fine, gli hanno fatto fare soldi, ci dice. “Ho comprato un pezzo di terra fuori da una base militare. Il colonnello mi aveva detto che avrei dovuto comprare della terra, e io l’ho fatto. L’ho pagata 5.000 dollari e l’ho rivenduta a 42.000 dollari nove mesi dopo. Stavano espandendo la base, e gli serviva la mia terra per costruirci sopra una pompa di benzina. Immagino di aver avuto fortuna.”

Equipaggiamenti e viveri vengono caricati su un aereo a Nairobi.

Poi arriviamo. Le ruote si fermano, e ci tuffiamo nel buio. Una recinzione chiusa con un catenaccio brilla alla luce tenue dei fari. “Soja soja,” grida Edward, in perfetto swahili. Una guarda apre il cancello, e subito ci troviamo circondati da quello che sembra un resort, fatta eccezione per il grosso aereo parcheggiato all’esterno del bar-ristorante. La nostra discussione su come vanno le cose in Africa sembra indicarci che l’unico modo per ottenere un volo è di farlo alla maniera africana. Varie ore prima, quello stesso giorno, il pilota ci aveva detto di creare con Photoshop una finta lettera di autorizzazione del governo del Sudan del Sud a nome di un ministro inesistente. Per farvi capire: non è il pilota che ha bisogno di quella lettera, ma è un funzionario che, più avanti, chiederà di vederla, e che in cambio di un piccolo compenso dirà che è tutto in ordine. Il prezzo, 15.000 dollari, è circa il doppio di quanto dovrebbe costare un volo per il Sudan del Sud. Ma usare un aereo privato e una pista situata in un luogo remoto come questo significa che nessun estraneo e nessun funzionario governativo saprà nulla del nostro viaggio. Mentre aspettiamo il pilota al bar, Edward mi racconta un’altra storia: “Mio zio e sua moglie avevano un’azienda che organizzava safari. Avevano un contabile di cui si fidavano. Mio zio si faceva gli affari suoi; mia zia pure. Erano sempre in viaggio. Poi il contabile ha creato un’azienda finta con lo stesso nome e lo stesso logo di quella di mio zio, e ha iniziato a recarsi in un negozio di attrezzi e altri oggetti e a farsi fare fatture false. Per ogni 10.000 dollari fatturati, ne riceveva 2.000 dal venditore. Quando mio zio e mia zia tornavano dai loro viaggi, lui diceva, ‘Firmate qui; sistemiamo queste fatture.’ Questa cosa è andata avanti per sette anni, e i miei zii hanno perso quasi un milione di dollari. È possibile combattere la corruzione? No. C’è un detto, da queste parti. ‘Solleva troppe pietre e verrai morso.’” Alla fine arriva il nostro pilota. È robusto, ha bevuto qualche birra, ed è anche lui un kenyota bianco. Il proprietario ci porta delle birre e si accende una sigaretta. Il pilota precisa alcuni punti della storia che Edward ci ha raccontato mentre guidava—di come sia entrato nello spazio aereo somalo e abbia raggiunto l’equipaggio emaciato e abbandonato di un MV Leopard guidato da danesi e filippini. Dopo aver ottenuto il riscatto, le autorità di Mogadiscio hanno circondato il suo Eurocopter ignorando le urla dei somali. “Si sono lamentati con i kenyoti e ci hanno fatto chiudere per 30 giorni.” Sapevano che c’erano un sacco di soldi in ballo. Si strofina il pollice e l’indice. Sembra che da queste parti ogni pilota abbia la sua storia da raccontare. Ne abbiamo incontrati tanti, ma vorremmo incontrare un pilota che sia disposto a volare in una zona di guerra invece che parlare di quanto è un duro. Mentre siamo seduti nel ristorante dell’aeroporto, inizia a piovere. Dalle finestre aperte entra l’odore dell’erba fresca. Il pilota schiaccia il mozzicone della sua sigaretta. Io gli spiego che vogliamo andarcene il prima possibile, per raggiungere i ribelli e intervistare il loro capo. Lo informo che abbiamo avuto grandi difficoltà a trovare un pilota per cui non fosse un problema trasportarci in un posto diverso da Giuba, la capitale del Sudan del Sud—un posto che significherebbe morte certa per Machot e l’arresto per noi, se si sapesse dove eravamo diretti. “Questo è il vostro aereo,” dice lui, indicando con orgoglio il Cessna 210 bimotore parcheggiato lì fuori. “Decolleremo in silenzio radio, voleremo bassi sotto il livello dei radar, comunicheremo un piano di volo per Lokichoggio, e poi vi lascerò ad Akobo. Le colline dovrebbero bloccare il segnale radar, e quando saremo tornati non se ne sarà accorto nessuno. Preparate le vostre cose nei compartimenti laterali, uscirete dal portellone della cabina.” Dopo l’atterraggio l’aereo sarebbe rimasto a terra, con i motori accessi, per non più di quattro minuti, prima di ripartire in direzione opposta. Poi, a metà sigaretta, il pilota si ferma, incupito. Forse era colpa del cambiamento del tempo, o di qualcosa che avevamo detto, oppure stare seduto al buio aveva su di lui delle conseguenze che non potevo capire. “Sapete… c’è qualcosa che non va. Non lo farò. Sapete una cosa? Ora vi restituisco i soldi.” Edward e io ci siamo guardati, increduli. Il nostro pilota ha proseguito: “Ho portato fuori degli ostaggi a Novembre, e hanno cercato di sequestrarmi l’elicottero. Quando sono tornato in Kenya mi hanno sospeso la licenza per 30 giorni.” Ci sta raccontando di nuovo la stessa storia che ci ha raccontato meno di 30 minuti prima, ma ora invece che essere una prova di coraggio è diventata una ragione per non partire. A quel punto è saltata la corrente, e ci siamo ritrovati tutti al buio. “Non voglio rischiare la licenza e un giro d’affari da 15 milioni di dollari. Faccio un sacco di affari nel Sudan del Sud. Se a Giuba vengono a sapere di questa cosa, sono fottuto. Questa volta faremo le cose per bene. Voleremo fino a Giuba. Ho dei contatti all’aeroporto. Il vostro uomo può restare nascosto in aereo, e dieci minuti più tardi ripartiremo per Akobo. Sì… questa volta faremo le cose per bene. Procuratevi un visto per il Sudan del Sud e la cosa si fa. Vieni in ufficio in mattinata e mettiamo a punto un piano.” Edward è sconcertato. Ci ritiriamo nella sua auto per discutere, ma decidiamo quasi subito di accendere il motore e lasciare il pilota, il suo aereo e questo posto. Come se non bastasse, piove. Mentre torniamo a sud verso Nairobi, Edward è arrabbiato. “Quello stronzo!” grida, mentre tiene il volante. “Sapeva tutto quello che volevamo fare! Aveva accettato! Stronzo!” Tira fuori il suo BlackBerry davanti a me, e cerca tra le email. Su quel telefono c’è la conferma che i nostri piani non erano segreti. “Leggi qui. Quello stronzo. 15 milioni di dollari il cazzo. Non fa affari con il Sudan del Sud; è per questo che l’ho scelto.” Sentivo il peso del rotolo di banconote nuove e contate con cura nella mia tasca. Le nostre possibilità di trovare un pilota che ci portasse dove volevamo erano più basse che mai, e c’era la concreta possibilità che il nostro viaggio finisse per essere un fallimento totale. Mentre Edward guidava come un pazzo verso Nairobi, noi ci siamo abbandonati sui sedili e abbiamo cercato di radunare le forze per elaborare il piano C, o D, o qualunque lettera dell’alfabeto cui fossimo arrivati in quel momento.