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Quando Einstein ha proposto un limite per l'universo

Nel 1921 abbiamo imparato quanto fosse sbagliata la nostra nozione di 'spazio.'

L'idea di un universo finito non è un pensiero troppo piacevole. Perchè qualcosa possa essere quantificabile—ovvero finito—deve avere una fine, cioè un punto dopo il quale non c'è più niente da quantificare. L'unica vera fine con cui noi abbiamo a che fare è la morte, momento in cui finisci di contare i giorni. Tutto continua ad andare avanti perché il tempo si quantifica, e questo quantificare è lo stesso qui in questo momento e nell'angolo più lontano e buio dell'universo.

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Einstein propose l'idea di un universo misurabile nel 1921, con un comunicato dal titolo "Geometria ed espansione" inviato all'Accademia Prussiana di Scienze a Berlino. Consiste prevalentemente di riflessioni, ma riflessioni rigorose e dettagliate sulla fine di tutto.

Nello spazio profondo non esiste più il concetto di "dritto". Tutto si flette.

Einstein stava riflettendo sulla matematica, sulla realtà e sul modo in cui, ammesso che possa succedere, questi due concetti si incontrano. Il problema è che la matematica si occupa di forme idealizzate—cerchi perfetti, linee perfettamente dritte, punti. La cosa può andare bene, perché sembra che tutto sia fatto con questi concetti (linee dritte e angoli netti), ma non è proprio così. Sono costruzioni formali, "vuote di qualunque tipo di intuizione o esperienza," dichiarò Einstein. Il mondo è molto più incasinato.

Sono questi formalismi, ovvero la sostanza di questi concetti (o assiomi) che separano la matematica dalle altre scienze; per esempio la matematica viene costruita sulla prova, il resto della scienza sulla teoria. La logica matematica può garantire la verosimiglanza di qualcosa grazie a un tipo di ragionamento deduttivo, mentre la scienza è limitata al mondo reale e alle prove garantite dalla realtà. La scienza è induttiva.

Einstein si pose cento passi avanti a tutti con questa distinzione nel suo processo di formulazione della teoria della relatività. Questa contraddizione ha origine dalla geometria euclidea, che è la geometria delle linee dritte che demarcano il limite del finito, spazi reali in due e tre dimensioni. Se dovessi rappresentare geometricamente (su carta) ciò che in questo momento è davanti a te, come per esempio le forme e gli angoli delle figure, il risultato sarebbe un esempio di geometria euclidea. Va bene per la maggior parte delle cose, e la quarta dimensione è difficile da disegnare.

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Per essere più specifici, la geometria euclidea è quella geometria che segue poche, semplici ma ​rigide regole. Si può disegnare un segmento di retta tra due punti; si può disegnare un cerchio di modo che quel segmento di retta diventi il suo raggio. Questioni semplici e ovvie. Ci costruiamo gli edifici così.

Ma questa non è la geometria del nostro universo. Nella realtà trattiamo una sorta di matematica formale e idealizzata di cui parlavamo prima, che corrisponde solamente a un'approssimazione. La differenza ha a che fare con la relatività di Einstein, che ha dimostrato che lo spazio-tempo stesso può essere deformato dalla gravità e dai corpi in movimento. Mentre lo spazio-tempo si flette, non possiamo più disegnare una linea retta tra due punti. Pensiamo di poterlo fare, certamente, ma nello spazio profondo non esiste più il concetto di "dritto." Tutto si flette.

Ecco, più o meno. C'è del dritto dopo tutto, in un certo senso. Abbiamo ciò che in primo luogo forza lo spazio-tempo a flettersi in un primo momento, che è la costante della velocità della luce in propagazione in uno spazio vuoto. La c nell'equazione E = mc^2.

"Se due orologi ideali vanno allo stesso ritmo in ogni momento e in ogni luogo, essendo questi immediatamente vicini l'uno all'altro, andranno sempre alla stessa velocità, non importa dove il loro ritmo verrà rimisurato," ha scritto Einstein. "Se questa legge non fosse valida per gli orologi reali, le reali frequenze per gli atomi separati dello stesso elemento chimico non sarebbero così conformi a ciò che viene descritto dagli esperimenti."

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Una superficie Riemann della radice quadrata. Immagine: Jan Homann

Quindi non tutto è perduto. E l'apparente fallimento della geometria euclidea nel descrivere l'universo relativistico non significa che alcuna geometria possa essere capace di descriverlo. Per questo abbiamo la ​geometria di Riemann, che ha permesso ad Einstein di formulare la teoria della relatività.

In breve, sostituisce le linee rette e i punti di Euclide con una superficie morbida, con una membrana che può essere flessa e deformata ma comunque descritta matematicamente, anche se non con la stessa facilità.

Infine, qui è dove otteniamo l'universo misurabile e finito. La geometria di Riemann—la geometria di uno spazio-tempo elastico e relativistico—dovrebbe avvicinarsi alla geometria euclidea più le cose diventano piccole, suggerisce Einstein. Il risultato sarebbe una perfetta "geometria pratica."

"La domanda se l'universo sia finito o no mi sembra decisamente significativa nei termini della geometria pratica," ha detto.

Nella geometria euclidea immaginiamo un universo infinito come uno senza limite. Ovvero, se prendessimo una serie di piccole scatolette di legno e cominciassimo ad impilarle, potremmo farlo all'infinito senza alcuna interruzione.

Non è una risposta soddisfacente, comunque, così Einstein ne ha offerto un'altra migliore: un universo finito, ma senza limiti. Questa visione è resa possibile da una geometria sferica tridimensionale, la curva spazio-temporale di ogni cosa converge. L'illimitato e finito universo suggerito da Einstein è una sfera, terribile suggerimento per qualunque cervello.

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"A questo punto l'immaginazione del lettore incontra difficoltà," dichiara Einstein. "Nessuno può immaginare questa cosa," si lamenta. "Può essere espresso, ma non pensato. Posso immaginare una superficie sferica senza problemi, ma niente di analogo in tre dimensioni'" Il lettore ha ragione.

Ecco l'esempio di Einstein:

Nella figura adiacente consideriamo K come una superficie sferica, toccata in S da un piano. E consideriamo che, per semplicità di presentazione, sia una superficie finita. Consideriamo poi L un disco della superficie sferica. Ora immaginiamo che nel punto N della superficie sferica, diametralmente opposto a S, c'è un punto luminoso, che proietta un'ombra L' del disco L sul piano E. Ogni punto della sfera ha la sua ombra sul piano. Se il disco sulla sfera K è mosso, la sua ombra L' sul piano E si muove con lui. Quando il disco L è su S, coincide quasi completamente con la sua ombra. Se si muove sulla superficie sferica sopra S, l'ombra del disco L' sul piano si muove da S verso il basso, diventando sempre più grande. Quando il disco L si avvicina al punto luminoso N, l'ombra si allontana all'infinito diventando infinitamente grande.

Si riesce a vedere? Come il disco che si muove sempre più lontano dalla sfera è obbligato a creare un'ombra sempre più grande fino a quando non proietta verso l'infinito. Quindi basta immaginare il nostro universo come quel piano, perché abbiamo dimostrato che l'infinito può generarsi dal finito.

Quindi: un universo finito significa che possiamo continuare a contare all'infinito, ma non arriveremo a nessuna conclusione. Aumentiamo lo spazio, aumentiamo il nulla. Dalle parole di Einstein: "Più piccola è quella leggera densità, maggiore è il volume dello spazio universale." Divertitevi.