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Musica

Le recensioni della settimana

Quali dischi ci hanno fatto esprimere delle opinioni questa settimana: Burial, Linkin Park, !!! e altri.

Noisey è cresciuto e non usa più le faccine col vomito, ma le recensioni restano sempre scritte da persone piene di problemi che non vogliono necessariamente essere prese sul serio.

THE MOUNTAIN GOATS
Goths
(Merge)

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I Mountain Goats sono uno di quei progetti-solisti-diventati-gruppi che trovano nella loro principale voce autoriale la maggioranza del loro senso. Insomma, al centro del palco c'è John Darnielle: un uomo che da venticinque anni tira su trame di una potenza narrativa clamorosa che possono esaurirsi nei due minuti di un pezzo come nei sessanta di un intero disco. Sul suo primo capolavoro, quella collezione di racconti di vita di texani disagiati che fu All Hail West Texas, c'era "The Best Ever Death Metal Band in Denton." Raccontava di due pischelli che decidevano di fare un gruppo death metal e fallivano miseramente, bloccati dalla repressione di una scuola privata. Il pezzo si chiudeva con un "Hail, Satan!" tutto scapestrato, con Darnielle a cantarlo gloriosamente mentre prendeva a plettrate scoordinate la sua acustica registrata col culo. Tutto questo per dire che un album dei Mountain Goats che parla di un cantante goth negli anni Ottanta non deve stupire: in primis perché, come Danielle ha detto ai nostri colleghi americani, anche lui è stato un goth; in secondo luogo, perché dietro a quello che può sembrare, musicalmente parlando, un dischetto soft rock (zero chitarre—solo batteria, basso, piano e organo), c'è la mano di una persona che sa rendere commovente qualsiasi cosa, dalla violenza domestica passando per l'esperienza di vita degli sfigurati fino all'epica del wrestling. Goths è pieno di momenti di sfiga messi giù così bene che potevano venir fuori solo da uno che racconta la sfiga da metà della sua vita: frasi tipo "Sono hardcore / ma non così hardcore," "Provo duro a fare il duro / dietro ai miei occhiali da sole tutti neri," e il glorioso finale di "Shelved," la resa totale: "Forse papà ha ragione / Sono ancora giovane e sono bravo a programmare in C++ / Conosco questo tizio che lavora alla LucasArts e dice che stanno cercando qualcuno / Tra quindici anni sarò a buttar giù birre coi piedi nella sabbia."
JONJO CAPRONI (EA)

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JANE WEAVER
Modern Kosmology
(Fire)

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Mettiamola così: di partenza l'ex band di Jane Weaver, i Kill Laura, non è che fosse tanto originale, nel panorama brit pop dei Novanta. Era tipo un po' come i Cranberries versione darkettona. Da quel momento molta acqua è passata sotto i ponti e la carriera solista della nostra si è diramata fino ad oggi, con questo album dal titolo piuttosto ambizioso, Modern Kosmology. Disco fatto molto bene, con tutte le cose al suo posto, confezionato affinché si respiri la qualità del songwriting e della produzione. Fin qui in teoria tutto bene e tutto bello, poi però ti rendi conto che all'ottava traccia senti, come dire, quella spinta dal profondo che ti fa esclamare… ma quando finisce? Questo perché probabilmente i riferimenti di partenza sono ingombranti: sembra di sentire degli Stereolab riveduti e corretti che, per carità, belle melodie e tutto, ma forse un pochino di coraggio in più avrebbe portato alla luce la vera personalità della Weaver, che rimane nel piloro e non va ne su ne giù e lascia l'amaro in bocca, come una birra artigianale che parte ottima poi però ti smeriglia la gargarozza. Timidezza? Paura di esigere? Teme forse di deluderci? Boh. Comunque credo che per fare delle passeggiate al sole, in bicicletta, con le cuffiette in testa, questa roba funzioni: se non altro alla fine del giretto scendi e ti compri sicuramente il gelato.
LAURA IMPALMER (DB)

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LINKIN PARK
One More Light
(Warner)

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Alzi la mano chi in gita alle medie non si portava il walkman con una copia masterizzata di Hybrid Theory. Se avete alzato la mano o appartenete ad un'altra generazione o siete delle brutte persone. Più di Toxicity, Follow The Leader e White Pony, il debutto dei LP sdoganò il nu metal a tutti noi provincialotti italiani, con quei cinque-sei anni comodi di ritardo, e ci fece diventare ufficialmente adolescenti. Da una decina d'anni, però, Shinoda e compagni hanno deciso di cagare sopra i nostri ricordi generazionali senza rispetto alcuno, e ogni volta il risultato è un po' più grottesco. Con la robaccia di One More Light siamo ai limiti dell'elettropop scemo, di una povertà di idee che fa compassione, di una paraculaggine irritante, di una tristezza irrecuperabile. Non si capisce bene chi faccia cosa: Bennington canticchia senza nemmeno provare a sporcare la voce, e non è più una novità, ma adesso manca anche tutto il resto: niente chitarre, niente basi, niente piano, niente di niente. Va bene cavalcare le mode, ma questa, di preciso, che moda sarebbe? Quella di fare schifo fingendo di strizzare l'occhio alla classifica perché qua e là spunta qualche beat anni '10? Stiamo parlando di canzoni talmente brutte che non viene in mente nemmeno qualcosa di imbecille da scrivere per sfotterle. Ok che i Linkin Park non hanno più vent'anni, ma se trovassero un po' di dignità si prenderebbero le dita a martellate pur di non suonare mai più e non dover infliggere altro di tutto questo, qualunque cosa sia "questo", al mondo.
DICEMBRE MIO 'NDO CAZZO SEI FINITO (AB)

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!!!
Shake The Shudder
(Warp)

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Fondamentalmente la mia storia con i !!! è andata così: li ho odiati dal primo momento che sono comparsi sulle scene perché mi sembravano "una banda di fighetti", ma nel fare ricerche su internet per odiarli con maggiore cognizione di causa ho finito per scoprire gente come Liquid Liquid, ESG e altri che rientrano tra i miei gruppi preferiti. Quindi grazie !!! per il (perlopiù orribile) revival punk-funk di inizio anni Zero. Ora, non è buffo come una band che ha esordito come grande rottura, con quel nome così impronunciabile, quelle canzoni così lunghe e ripetitive fatte apposta per ballare (un crimine nel circuito indie che frequentavano) e quell'estetica così avanguardistica ora si ritrovi a inseguire i Daft Punk con un disco di mediocre mutant-disco poco mutant- e molto disco, che al suo massimo di ambizione può sonorizzare un party aziendale sul tetto dove tutti sorridono ma in realtà stanno malissimo perché l'unica cosa che si può bere causa sponsor è Fernet-Cola fatto con la Pepsi?
QUELLO ANTIPATICO DEL REPARTO VENDITE (GS)

SLACKK
A Little Light
(R&S)

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Il talentuoso paladino del grime torna a far parlare di se, stavolta però in maniera controversa. Se vi aspettate mega bombardoni stile ghettotech o roba del genere siete fuori strada. Qui il nostro vira verso paesaggi sterminati di paddoni sintetici, solarizzazioni estive, sicuramente qualcosa che fa venire in mente il colore verde: intorno a questo colore ci fa colare letteralmente arpeggi squassati che a volte loopeggiano e a volte semplicemente si inerpicano in windchimes come se i Beach Boys si fossero improvvisamente interessati al footwork. Linee di basso come donne nude che camminano su una fune con sotto l'oceano, battiti rallentati, soli di synth quasi atonali, e ai vari wobble strizza solo l'occhio tanto per metterli a sedere in un'architettura fatta di vegetazione sonora che, con le ovvie e dovute differenze, ricorda l'attitudine dei Mouse On Mars di Vulvaland. Insomma un bel discone, che non mancherà di accompagnarvi nelle vostre serate estive più sballate. Continua cosi Slackk, non ti inculare la critica.
PALMIZIO L'IRPINIZIO (DB)

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J HUS
Common Sense
(Black Butter)

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Common Sense, l'album d'esordio di J Hus, non è esaltante come The 15th Day—probabilmente il mixtape più fresco uscito dal Regno Unito nel 2015. Ricordo di aver ascoltato "Dem Boy Paigon" a ripetizione per mesi, carico a schifo dopo aver visto un video di una festa in una council estate interrotta dalla pula locale perché tutti i presenti avevano deciso di cantarla a squarciagola in piena notte. Ma perché c'erano centinaia di persone a cantare il pezzo di un MC sconosciuto al suo primissimo mixtape? Perché J Hus aveva, e ha, uno swagger caraibico clamoroso, un flow tutto saltellante e melodico che si allontana dagli stereotipi grime—cattiveria, grezzume, ritornelli martellanti—in favore di una generale presa bene. Common Sense è la stessa cosa, ma un po' meno amatoriale, e quindi un po' meno esaltante. Ma solo un po'. Non tanto da non farmi dire che questo è uno degli album rap britannici più particolari usciti nell'ultimo paio d'anni (momento shoutout a Loyle Carner e Kate Tempest, a proposito). O almeno, era da tanto che non si sentiva un album così aperto al mondo, e infatti a tratti—come si può intuire dal fatto che ci sia un pezzo con Burna Boy—sembra uscito dal portatile di un qualche producer nigeriano. Insomma, è figo lasciarsi massaggiare il cervello dalle parole di Hus—dalle decine e decine di gyal, mandem, bredrin e lengman, dai suoi bragging mezzi maldestri e iperesaltati ("Might take the gang Ayia Napa" è l'idea di viaggio di crew più figa da quando Dave è venuto a fare il serio a Venezia).
J HUSSERL (EA)

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BURIAL
Subtemple
(Hyperdub)

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Deviazione di percorso per Will Bevan, che continua imperterrito a voler pubblicare EP da due tracce che poi Kode9 mette in circolo su solo vinile a prezzi da usura. Posto che 20€ più spedizione alla volta per massimo venti minuti di musica non sono una cifra affrontabile, ma che ovviamente il 10" è già andato esaurito con il preorder, stavolta tocca dire che Bevan non ci ha preso. Per la prima volta in dodici anni la musica di Burial non è superlativa e superiore a tutti gli altri per distacco. I due brani di Subtemple sono una digressione dark ambient nell'ormai nutrita carriera del produttore londinese, che probabilmente voleva prendersi una pausa dalla solita serie di capolavori imperituri partoriti con allarmante regolarità da quando ha iniziato a scrivere musica, e questi diciassette minuti sono campionamenti e fruscii abbastanza lontani dai soliti (mal)umori urbani. Le interpolazioni di field recordings e i suoni taglienti sono sempre lì, ma manca la struttura alla base, sia essa la cassa asciutta e industrialoide o il synth caldo e amorevole che da Kindred e soprattutto Rival Dealer in poi ha acquistato sempre più spazio nell'economia di Bevan. Rimane davvero poco. Peccato. Vedremo l'anno prossimo, con le prossime due tracce del prossimo ep sul prossimo vinile in tiratura limitata a prezzi folli, se Burial continuerà su questa linea, magari mettendoci un po' più di convinzione, o tornerà a cacare in testa al resto del mondo come ha sempre fatto.
LANA & LILLY AL MCDONALD (AB)

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EL MURKI
Breakeadito
(Orange Milk)

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Orange Milk si conferma una delle etichette più interessanti in circolazione con questa nuova cassetta di El Murki, personaggio impelagato nella scena noise impro di Buenos Aries (è metà degli efferati Criadero) che però non disdegna immersioni nel footwork, ovviamente a suo modo. Ecco che quindi ci sciorina una tempesta di batterie elettroniche spezzate, campioni vocali a rotella, sapore latino come è giusto fare, che ci riporta alla mente le migliori prove di Otto von Chirac virate brostep. Anche se speriamo che sia tutto composto col Fuity Loops dell'anteguerra, cosa che farebbe salire i punti del nostro uomo al cubo, a noi sta bene anche se avesse inciso il disco col ditino. Questo perché c'è talmente tanta roba random che pare uno stand di frutta ai mercati generali di un Sudamerica mitizzato in cui ogni colpo di clap è un colpo di mitra e ogni snare drum è un colpo pelvico sul letto del ritmo (non so se mi sono spiegato, ma a volte mi faccio prendere dalla metafora). Bene così, si aprano le danze: soprattutto perché l'attitudine noise rimane salda e ci dà speranza per un ibrida contaminazione futura in cui ballare ora e sempre il casino.
IMPERIOINCA ZZATO FEGIZ (DB)

(SANDY) ALEX G
Rocket
(Domino)

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Quando è venuto fuori che Frank Ocean aveva chiamato Alex Giannascoli—da ora in poi (Sandy) Alex G, come da suo desiderio—a suonare la chitarra su qualche pezzo di Endless si è creato un buco nero che ha attratto verso l'orizzonte degli eventi qualsiasi individuo pensasse ancora che nel 2017 si potesse ragionare per generi musicali. Insomma: tizio semi-slacker che fa album indie super lo-fi su Bandcamp diventato estremamente famoso per un pezzo da un minuto e mezzo che suona negli squat ma è sotto contratto con Domino era finito sull'album della consacrazione della figura più elusiva e rispettata che gli Stati Uniti ci hanno offerto negli ultimi dieci anni. Insomma, un bellissimo mindfuck. Rocket è il primo album di Sandy dopo tutto questo casino, ma c'è solo un (ottimo) brano che può lontanamente ricordare l'approccio di Ocean alla scrittura, "Sportstar." Per il resto, Alex spazia un po' ovunque come suo solito, sorprendendo però come mai aveva fatto prima. In Rocket c'è infatti un sacco di folkettone americano da banjo, cappello di paglia e spiga in bocca: "Bobby" ha addirittura UNA PARTE DI VIOLINO, ma ha un testo interpretato in modo così sentito che qualsiasi patina scoreggiona si perde in una mezza fantasia bucolica rovesciata in presa male. E poi via di lo-fi riverberato ("Country"), rumoracci e grida ("Brick"), schizofrenie a caso ("Horse"). A volte tanti ingredienti fanno un saporaccio, altre si equilibrano a vicenda. Ecco: Rocket non è un mappazzone ma uno smörgåsbord.
DIGESTIVO ANTONETTO (EA)

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