Beach Boys: intrappolati in un'estate infinita
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Musica

Beach Boys: intrappolati in un'estate infinita

Per comporre 'M.I.U.' del 1978, ci sono voluti tre deliranti album incompiuti.

Album Non Album è la rubrica di Noisey in cui analizziamo e portiamo alla luce dischi mai usciti, usciti postumi, usciti in modo non ufficiale, dischi che dovevano uscire ma poi chissà che fine hanno fatto… Insomma, album che non dovrebbero esistere e invece eccoli qua. Album o non album? È questo il problema.

Immaginate un'estate infinita: sembra una cosa fantastica. Ma il problema è dove trascorrerla, perché fra quattro mura prive di ventilatore la suggestione di questa prospettiva diventa automaticamente una tortura.

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È in sostanza quello che è successo ai Beach Boys durante la loro carriera, la quale, di fatto, è un romanzo che la gente leggeva sotto l'ombrellone mentre loro invece erano murati vivi. La loro epica dell'estate è stata spesso e volentieri un peso se non una vera e propria condanna, dovendola rievocare continuamente come fosse una cosa cui aggrapparsi in modo disperato per non cadere nel baratro: baratro che è sempre stato in agguato sotto i loro piedi. Inutile ricordare gli sfracelli mentali del geniale leader Brian Wilson, ma anche la fine prematura dell'altro genio della band, il batterista Dennis Wilson, così come i rapporti amichevoli con un certo Charles Manson, l'opportunismo diabolico di Mike Love e via di questo passo. Insomma, diciamo che i Beach Boys hanno sempre nascosto un'anima nera che veniva fuori paradossalmente e in modo inquietante dalle loro più spensierate melodie e nei loro inni alle "good vibrations".

A Roma, all'inizio di questo mese, la band più estiva del mondo ha celebrato i 50 anni di un disco controverso, Wild Honey. Controverso perché in qualche modo nasce allo scopo di sostituire il buco nero prodotto dalla mancata pubblicazione di Smile, quello che ancora oggi è il capolavoro della band e soprattutto di Brian Wilson. Sappiamo un po' tutti com'è andata: Brian ha scapocciato durante la lavorazione del disco cercando di renderlo il più inattaccabile e perfetto possibile, col risultato di far impazzire anche tutti gli altri. Basta risentire le outtake in studio in cui praticamente il nostro fa ripetere per ore e ore in loop solo poche battute di ciascun brano trovando continuamente difetti in quello che a orecchio umano non potrebbe essere più meraviglioso.

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Ebbene, Wild Honey è un disco che, per reazione alla complessità di Smile, torna a una semplicità che risulta quasi necessaria dopo le precedenti snervanti sessions. Brian a combattere contro i suoi mostri, i fratelli a cercare di rimettere in piedi la baracca: ma se Smile è l'album non album per antonomasia, forse il più splendido e incredibile aborto musicale della storia, i Beach Boys hanno un altro disco forse ancora più pesante a livello di stress realizzativo. Questo disco s'intitola M.I.U. ed esce nel 1978. Si tratta di un caso incredibile: un album nato da ben tre album abortiti, forse un record (ma non so se il Guinness dei Primati contiene la categoria "numero di album abortiti e poi confluiti in un unico album").

M.I.U. vede la luce in un anno in cui apparentemente i Beach Boys potrebbero essere considerati inutili dinosauri. E invece l'anno prima Brian Wilson, dopo anni di problemi mentali e di abuso di droghe, si rimette in carreggiata e scrive interamente Love You, che a tutti gli effetti è una sterzata verso il futuro. Anticipando di almeno quattro anni il synth pop e le intuizioni della new wave più artificiale, farcisce i pezzi di sintetizzatori gonfi al punto giusto, tanto che probabilmente Madonna avrà saccheggiato le idee per i suoi primi dischi bestseller; i testi sono dei deliri naif, al limite della demenza infantile, ma perfetti per un'era votata alla Devo-luzione.

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Sembra proprio che Wilson e i suoi soci stiano imboccando la strada giusta, ma ovviamente il disco è troppo avanti e spacca critica e pubblico (sarà seriamente rivalutato come capolavoro solo eoni dopo la sua uscita). Ottiene modesti risultati di classifica, ma Brian è ancora in grado di lavorare, tanto che pare inarrestabile a livello di produzione. Unico problema è che la band non è soddisfatta della direzione che sta prendendo Brian e c'è il rischio di uno scioglimento immediato. Peraltro in questo periodo Dennis Wilson sta portando a termine il suo capolavoro solista, Pacific Ocean Blue, che lo porterà nel gotha dei grandi autori di culto, tanto da reggere il confronto col più blasonato fratello: i Beach Boys come entità collettiva sembrano però allo sbando. Che fare, come diceva Lenin?

Beh Brian Wilson sa perfettamente come reagire a questo momento buio, in altre parole ritornare nelle rassicuranti braccia delle droghe e della follia, tanto che non si ricorda assolutamente il periodo di lavorazione di M.I.U. Non sapendo reggere la delusione per l'ennesimo buco nell'acqua, Brian ha comunque altre frecce al suo arco: ha un album già pronto, il titolo è Adult/Child e rispecchia esattamente il momento autobiografico del nostro eroe, almeno prima della ricaduta nel baratro. Si parla di mangiare sano, di ecologia, di tenersi in forma, insomma una specie di ode allo stare bene, ode che però in qualche modo sembra forzata, con un Wilson che canta di una "vita che va vissuta" con la voce di un esaltato sull'orlo di una crisi di nervi: ed è questa paradossalmente la forza del disco. Con una sterzata netta rispetto a Love You, i sintetizzatori sono usati in modo più paesaggistico, dronico e centellinato, c'è molta attenzione per i fiati e l'orchestrazione quasi alla Broadway (c'è per l'appunto una cover di "On Broadway" dei Drifters), con dei brani magnifici e struggenti come "It's Over Now", in cui Brian canta come canterebbe un giunco che si piega di fronte a una tempesta emotiva. Ci sono pezzi di una vitalità sopra le righe, quasi al sapore di Cipralex, come "Shortin Breed", brano che non avrebbe sfigurato in End of the Century dei Ramones, questo per dire che Brian annusa sempre il futuro. I compagni di banda registrano il disco sperando che possa funzionare, ma non è dello stesso avviso la casa discografica, che silura il lavoro subito come qualcosa d'invendibile. Ecco che i Beach Boys ritornano in crisi.

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E che cazzo ci inventiamo ora, si saranno detti i nostri? Visto l'appressarsi del Natale, l'idea più efficace quanto la più stupida è proprio quello di assemblare un disco a tema natalizio, contenente standard e inediti, cosa che in pratica è come cercare di arrampicarsi con le unghie su uno specchio. Il nome dell'operazione è Merry Christmas from the Beach Boys, ma purtroppo il loro Natale non sarà così merry: anche stavolta l'album è rispedito al mittente e quindi l'ultima possibilità della band è di cambiare i testi ai brani inediti già registrati e pensare a un album che li possa contenere. In quattro e quattr'otto Wilson e i suoi soci scrivono dei nuovi brani, tentano dei ripescaggi, infilano delle cover e soprattutto incentrano l'album su una traccia di Brian, "California Feeling", a tutti gli effetti un potente gospel bianco sulla pazzia scritto e registrato quattro anni prima e rimasto inedito. Ma proprio nel momento di stendere la tracklist ufficiale Brian si rifiuta di inserire il pezzo, forse perché insoddisfatto della sua interpretazione vocale per la quale probabilmente provava un forte senso di vergogna. Archiviata la pratica, l'album California Feeling sarà ribattezzato Winds of Change. Poi però, dopo un ennesimo ripensamento in corner, il nome definitivo dell'album sarà M.I.U. in onore del luogo delle registrazioni, ossia la Marahisi International University. L'album, una volta messi in minoranza gli oppositori al progetto (soprattutto il fratello minore Carl, ma anche un Dennis allergico alle cagate spiritualiste di Mike Love), vedrà la luce nell'ottobre 1978.

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A tutti gli effetti nato come un accrocco messo insieme per disperazione, M.I.U. risente di quest'aura di disfacimento, di nostalgia retrò per un gruppo che probabilmente è oramai uno spettro e vive solo del suo stesso ricordo. Mike Love pensa al marchio e non all'effettiva caratura artistica della band, la quale nel frattempo non vuole, come erroneamente detto, tornare ai fasti degli anni Sessanta ma semplicemente "ricrearli" nel '78, come se avessero una provetta in laboratorio e cercassero di ricreare artificialmente cellule vive da materia oramai morta. È un'operazione che all'epoca i critici salutarono come qualcosa di aberrante, poi invece la storia in qualche modo darà ragione ai nostri, in primis con i Ramones, poi con tutta la ventata di Sixties Revival che si abbatterà sul mercato nella metà degli anni Ottanta. Ma, a prescindere da questo, M.I.U. rimane un disco prevalentemente scritto da Brian Wilson e contiene dei brani, se non ispirati, perlomeno curiosi.

A partire dall'incipit "She's Got Rhythm", in cui Brian recupera il falsetto lasciato per strada molto tempo prima inserendolo in una sorta di ballad con intenzioni disco, ma eseguita in stile quasi glam rock, poi in una parte intermedia tipica dell'autore, in cui si passa in un'altra dimensione. Brano dalla durata brevissima, sicuramente sbrigativa, ma in un certo senso antesignana di certi tormentoni odierni.

Subito dopo troviamo il brano più "creepy" dell'intero repertorio dei Beach Boys. "Hey Little Tomboy", un semi-ripescaggio da Adult/Child poiché in tale album sarebbe dovuta entrare last minute, narra di una ragazzina maschiaccio che viene convinta dal ragazzo a femminilizzarsi col risultato che questa diventa un vero e proprio mignottone, diciamo passa da un estremo all'altro. Chiaramente i nostri avevano una certa età per cui cantando certi versi era difficile non passare per vecchi maniaci, e la musica contiene delle parti di organo abbastanza storte da addirsi a una riedizione "dark" di Smile. Sicuramente un brano assurdo che merita un posto fra le maggiori bizzarrie di Brian Wilson.

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Il lato B inizia con "Sweet Sunday Kind of Love", un pezzo d'amore Sixties semplicissimo, forse il momento più debole del disco ma anche quello più dream pop. "Belles of Paris" originariamente era nata per il disco di Natale e parlava di tutt'altro tipo di campane: trasformata in una specie di ode turistica a Parigi, l'elementarità del brano è salvata dall'interpretazione di Love che a volte ricorda un Lou Reed instupidito dagli psicofarmaci o da troppi hamburger agli steroidi, il che rende tutto abbastanza perverso. I coretti iniziali ricordano d'altronde quelli usati su The Wall dei Pink Floyd, rinomata opera nevrotica, in cui inizialmente doveva essere proprio l'intera band californiana a cantare.

Poi abbiamo "Pitter Patter", che a risentirla oggi sembra abbia ispirato gruppi come i Dandy Warhols e compagnia cantante, con botta e risposta di armonie vocali sicuramente più secche rispetto al passato. D'altronde siamo in piena febbre punk, in qualche modo questo avrà toccato il desiderio di rock n'roll privo di fronzoli dei nostri.

Ma la meravigliosa "My Diane" è subito servita su un piatto d'argento a Dennis Wilson, il quale canta del naufragio della relazione fra Brian e la sorella di sua moglie, e il barometro della qualità si alza. L'allucinazione e l'urgenza interpretativa di Dennis rendono tutto una fortissima presa a male: "Everything is wrong and nothing is right". Una ballata che ti spezza il cuore e riporta all'essenzialità delle cose, quasi in basic. Sì e no, nero e bianco, dentro e fuori.

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"Match Point of Your Love" è una specie di yacht disco ballad, figlia del "sexy sound" di vangelisiana memoria, scorre via leggera e veloce contorcendosi sulle calde mattonelle di una piscina, ma cantata con una certa freddezza che rende il tutto paradossalmente robotico. Sarebbe stato bello sentirla coverizzata dai Kraftwerk, forse adesso i tempi potrebbero essere maturi per una rivisitazione in chiave elettronica, d'altronde fra i padri ispiratori della "chillwave", poi confluita nel famigerato vapor, ci sono sicuramente i Beach Boys.

M.I.U., com'è prevedibile, sarà un fallimento, con i critici a stroncare alla cieca e il pubblico a ignorarlo letteralmente con risultati di classifica pesantemente inferiori a quelli di Love You, dal cui coraggio rappresenta un inquietante passo indietro. Gli stessi autori se ne dissociano come se nessuno di loro avesse mai registrato una nota, probabilmente pentiti di non aver rischiato di più seguendo le idee di Brian.

Paradossalmente, un disco nato da tre rifiuti ha in qualche modo incarnato l'essenza stessa del rifiuto, diventando un disco quasi esistenziale il cui messaggio è di totale abbandono al nulla. La sua bellezza viene proprio da questa fragilità dispensata a piene mani, da una leggerezza cercata a forza per non morire, da quest'ambiguità fra normalità assoluta e attitudine weirdo impossibile da cancellare, come una gomma su un tratto di pennarello.

Un po' diverso da adesso quando, come estrema prova d'inutile forza superomista, degli elementi originari non troviamo che Love e Bruce Johnston. Sarebbe stato meglio per loro non scegliere fra essere adulti o bambini, ma stare nel mezzo. Tutto sommato "still I dream of it", Brian.

Demented è su Twitter: @Demented_Thement.

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