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Partecipante numero 96645: la mia vita da cavia umana

A parte farmi infettare da malattie mortali, ero disposta a tutto. E dopo aver firmato una pila di documenti che facevo finta di leggere, accettavo di subire qualsiasi tortura.
Foto via Flickr / cobalt.

In seguito a una divergenza con i miei superiori a fine 2013, ho deciso di smettere di insegnare per dedicarmi a tempo pieno alla scrittura. Sarebbe stato un bel progetto, se solo non avessi avuto un affitto da pagare e pochi, pochissimi soldi in banca. Gli altri lavori non mi interessavano. Poi mi sono imbattuta in un annuncio sul retro di un giornaletto; prometteva "soldi facili per adulti in buona salute di età compresa tra i 18 e i 30 anni." Ho chiamato.

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Dopo una serie di domande—quanto alcol ha consumato nell'ultimo mese? Fuma? Di recente le è capitato di sentire delle voci?—l'operatore dall'altra parte della cornetta ha annunciato che ero idonea. Mi ha detto che avrei aiutato i ricercatori a sviluppare un farmaco per la malaria, e l'ha fatto con una tale tranquillità che sembrava si stesse riferendo a un comune raffreddore.

"Sì, verrà infettata con il virus," mi ha detto. "Potrebbe volerci qualche settimana tra infezione e guarigione, quindi serve un'agenda flessibile."

Alla fine non ho partecipato alla ricerca sulla malaria, ma non ci ho messo molto a capire che mi trovavo nella Silicon Valley della medicina. Baltimora è sede della Johns Hopkins University, e a poche miglia Bethesda ospita l'Istituto Nazionale per la Salute e l'Istituto Nazionale per l'Abuso di Sostanze. Ogni mattina controllavo il sito, e ho partecipato a così tante selezioni da aver capito come manipolare il sistema. La mia sindrome da deficit dell'attenzione mi era costata l'eliminazione da uno studio sugli effetti della caffeina, così nei test successivi ho deciso di ignorare il dettaglio. In fondo si basava tutto sulla menzogna, dal momento che spesso bevevo o facevo uso di droghe.

Non ho mai smesso di meravigliarmi di quanto fosse facile fregare alcune delle persone più intelligenti e competenti del Paese. Dopo anni di fallimentare carriera da insegnante, sentivo di aver trovato finalmente qualcosa in cui ero brava. A parte farmi infettare da malattie mortali, ero disposta a tutto. Dopo aver firmato una pila di documenti che facevo finta di leggere, accettavo di subire qualsiasi tortura: pelle ricoperta di capsaicina, mani immerse nell'acqua gelata, spalle punte da una sonda per verificare la pressione. La ricerca che mi ha preso più tempo riguardava il confronto tra la reazione al dolore di una persona ansiosa e la reazione di una persona in perfetta salute.

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Nelle vesti di paziente ansiosa, ogni settimana mi presentavo all'Istituto Nazionale per la Salute di Bethesda per essere punzecchiata da un tirocinante sulla ventina. Il processo era fastidioso: per assicurare l'appropriata adesione degli elettrodi su varie parti del corpo dovevo sopportare 45 minuti di esfoliazione da parte del suddetto tirocinante.

Una volta pronta per l'elettrocuzione, il tirocinante trascinava la scrivania davanti alla sedia a cui ero legata. La procedura era semplice: mi venivano fatte una serie di domande dirette (Il cielo è azzurro? Sì o no?) e a ogni risposta potevo ricevere una scossa. Gli elettrodi misuravano il battito cardiaco, la sudorazione, e quante volte battevo le ciglia. Nonostante le domande rappresentassero una distrazione, non erano sufficienti a farmi dimenticare gli elettrodi. Era un dolore che superava tutti gli altri. Nel corso di quattro sessioni da otto minuti non sono riuscita a ignorare nemmeno la telecamera nascosta alla bell'e meglio in un angolo del soffitto. Il mio orgoglio era più forte del desiderio di piangere per il dolore.

Dopo l'elettrocuzione venivo raggiunta dal tirocinante, che rimuoveva gli elettrodi e mi faceva compilare un questionario sul livello di ansia. Rispondevo in fretta cerchiando numeri a caso: indipendentemente da quella situazione, per me assegnare un numero concreto a una sensazione era tutt'altro che semplice.

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Compilato il questionario, la signora Marilla mi portava nel suo ufficio per ricapitolare il tutto. Mi accoglieva con due cioccolatini. In quei momenti facevo la parte della bimbetta disperata a cui si illuminano gli occhi alla vista dei palmi aperti. Mentre i cioccolatini mi si scioglievano in bocca, Marilla mi faceva delle domande, molte delle quali non avevano niente a che vedere con la ricerca.

Scrivi ancora? Hai detto ai tuoi che non insegni più? Sei stanca, sembri stanca. Sei depressa?

Ogni volta ero tentata dal dire a Marilla che non sarei più tornata, che quello sarebbe stato il mio ultimo giorno da cavia. Ma non ci riuscivo. Ogni volta, qualcosa dentro di me si rifiutava di farmi pronunciare quelle parole.

A 24 anni ero già abituata all'umiliazione, alla vergogna e al dolore. E nonostante tutto mi rifiutavo di smettere. La "rivelazione" è arrivata dopo una risonanza magnetica, quando un tecnico mi ha mostrato l'immagine del mio cervello. Sembravano dei mostriciattoli tracciati dalla matita di un bambino.

All'inizio il tecnico ha risposto pazientemente alle mie domande sulle funzioni del cervello, dandomi dettagli scientifici che facevo finta di comprendere. Gli ho chiesto se notava qualcosa di particolare, qualcosa di strano o fuori dal normale. Ha tergiversato un po', e alla fine ha risposto, "un cervello è un cervello. Cosa vuoi che ti dica?"

Quella sera arrivata a casa ho guardato il video della risonanza, imbarazzata e leggermente nauseata. Cosa cercavo in quelle immagini granulose? Avrei potuto accettare un tumore al cervello, se avesse significato essere speciale?

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Perché io sono speciale. Me lo ripetevo continuamente, mentre un infermiere faticava a trovarmi la vena, come nella stanza fredda del macchinario per la risonanza magnetica. Lo ripetevo durante l'esperimento sugli effetti dell'alcol sull'eccitazione sessuale, mentre un assistente di laboratorio in completo kaki mi diceva di pensare a esperienze erotiche del passato. È passato un anno, e mi ricordo ancora il suono del suo respiro, il tempo che passa lento, il lungo silenzio successivo a quei dieci minuti della prova.

Perché ho abbandonato la mia carriera da cavia da laboratorio?

Durante l'ultimo colloquio, Marilla mi ha chiesto di firmare una pila di documenti. In cima a ogni pagina, in grassetto, c'era scritto "Partecipante 96645." Quel numero era sempre in bella vista, lo avevo già notato un sacco di volte. Eppure quella volta sembrava più grande.

Per anni mi sono concentrata solo sulla mia mente, e l'ultima sessione con Marilla è stata l'ennesima dimostrazione del fatto che non attribuivo nessuna importanza al corpo. Ho firmato i documenti e glieli ho restituiti. Era tutto diverso e la sua voce sembrava più distante.

Nell'ultimo anno ho abbandonato la desolazione di Baltimora. Adesso sto a Los Angeles, dove sento di vivere per davvero. Ma mi sono anche esposta a così tanti sconosciuti in camice bianco che adesso non riesco a dare valore a nessun vero contatto intimo. Ci sono sconosciuti che sanno a memoria ogni piccolo segreto della mia mente e del mio corpo. Ci sono dottori con mogli e bambini che non incontrerò mai più che conoscono le mie paure più profonde. Un anonimo tirocinante sa a memoria tutti i dettagli della mia infanzia. Come faccio a stabilire dei rapporti con la gente quando per così tanto tempo ho vissuto di quest'intimità fittizia?

Le prove del mio dolore e la mia umiliazione rimarranno a disposizione di qualsiasi persona con le giuste credenziali. Ogni tanto mi immagino delle conferenze mediche in cui i miei test vengono usati per aprire il dibattuto. Tra il pubblico ci sarà qualcuno che si immagina il Partecipante 96645?

Nella mia carriera da cavia ho messo insieme circa 3.000 dollari. Non ne è rimasto neanche un centesimo.

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