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Nelle fabbriche d'armi segrete dell'Esercito Siriano Libero

Durante i miei cinque mesi tra i ribelli siriani, c’è una cosa che ho sentito dire più delle altre: "ci servono munizioni e ci servono armi pesanti. Non possiamo aspettare l'Occidente." E così hanno fatto.

Mortai artigianali esauriti stipati su un furgone nella fabbrica di munizioni dell’Esercito Libero Siriano, Aleppo.

Durante i miei cinque mesi tra i ribelli siriani, c’è una cosa che ho sentito dire più delle altre: ci servono munizioni e ci servono armi pesanti. I ribelli saranno anche armati di vecchi Kalashnikov, e si tratta di tanti giovani uomini decisi a combattere e a morire, talvolta con l’incrollabile convinzione che Allah sia dalla loro parte. Ma si trovano di fronte a un regime equipaggiato con carri armati di fabbricazione russa e jet da combattimento; un regime che, pur di restare al potere, sembra contento di scatenare missili scud e armi chimiche contro il suo stesso popolo.

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I ribelli e il regime sono arenati in uno scacco particolarmente sanguinoso; i primi mantengono la posizione, ma avanzare è praticamente impossibile, perché spesso non hanno armi e munizioni per sferrare attacchi. In questa situazione, il regime può sfruttare l’artiglieria pesante per colpire quartieri residenziali controllati dai ribelli, con conseguenti perdite tra i civili.

Col tempo, così, i ribelli hanno trovato un modo per fabbricarsi le armi da sé, dando vita a fabbriche e laboratori più o meno conosciuti dai residenti in molte città del Paese.

La fabbrica di molotov di Mohamad a Salaheddin, Aleppo.

Volevo visitarne una, così ho iniziato la mia ricerca ad Aleppo, e a Salaheddin ho incontrato il 17enne Mohamad. Insieme a due suoi amici ha allestito una fabbrica di molotov in quella che era la camera da letto di un appartamento. Mohamad mi mostra come riempie bottiglie di vetro con olio e chiude il collo con stracci per poi accenderli e lanciarli contro le truppe del regime.

Ma c’è un grosso problema con le molotov di Mohamad; tendono a non esplodere quando si infrangono. L’unica benzina disponibile nelle zone in mano ai ribelli è quella roba densa e nera che viene dalle province desertiche dell’Est della Siria. I ribelli hanno conquistato diversi pozzi, ma le raffinerie sono ancora in mano al regime, quindi la raffinazione, da fare con mezzi di fortuna, è affidata agli abitanti della zona di Deir Ezzor. Spesso il prodotto finisce per distruggere il motore delle auto—di conseguenza, è assolutamente inutile per fare le molotov.

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Un carro armato nel laboratorio di Abu Firas, con lo stemma del regime sostituito da quello dei ribelli.

Lontano dalle prime linee trovo un laboratorio un po’ più professionale. Tre mesi fa Abu Firas, un comandante dell’Esercito Siriano Libero, ha capito che i suoi combattenti sbagliavano ad attaccare i carri armati del regime con esplosivi e a lasciarli bruciare a bordo strada. Ora, quando i ribelli attaccano un checkpoint del regime, provano a lasciare i carri integri, così da poterli riutilizzare.

“Con le armi pesanti le nostre sorti cambieranno,” mi racconta. Continua, spiegandomi come alcuni jihadisti yemeniti, sprezzanti del pericolo, si arrampichino sui carri del regime mentre sono ancora in movimento e aprano fuoco sui soldati all'interno. Brutali e sconsiderati, forse, ma senz’altro efficaci, e con danni solo superficiali al mezzo.

Un carro armato conquistato dai ribelli in riparazione nel laboratorio di Abu Firas.

Una volta presone possesso, i ribelli conducono i carri armati alle officine davanti all’ufficio di Abu Firas, dove vengono subito messi a posto; due colpi di saldatura e un nuovo logo a sostituire quello del regime, e sono pronti. È Ramadan e i meccanici non sono al lavoro quando passo a visitare, ma aprendo i cancelli del garage su due carri armati mimetizzati, parcheggiati di fianco a un camioncino Toyota, Abu mi dice di aver lavorato su bulldozer e camion e che è in grado di insegnare velocemente ai meccanici come fare il lavoro.

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Dopo la visita, ho sentito di un altro laboratorio gestito da ribelli—una fabbrica in cui si costruiscono centinaia di armi ogni singolo giorno. Il comandante in carica si chiama Ahmad Afesh. È il leader della Brigata di Aleppo ed è nervoso; prima d’ora non ha mai accolto giornalisti e non è sicuro che mi lascerà entrare, per non parlare della possibilità di fare fotografie.

Un operaio taglia tubi di metallo per farne involucri per le granate.

Dopo due giorni di negoziati via Skype e al telefono, mi richiama: posso entrare, a condizione che non fotografi l’esterno della fabbrica o riveli la sua ubicazione. È un compromesso che sono più che disposta ad accettare, quindi il giorno dopo andiamo sul posto con il comandante e parcheggiamo direttamente all’interno.

I miei occhi impiegano un po’ ad abituarsi al buio, ma appena lo fanno mi imbatto in una scena che pare un incrocio tra il laboratorio di Babbo Natale e una vignetta inglese ai tempi della rivoluzione industriale. Solo che, invece di regali incartati o catene di montaggio di motori, la fabbrica è piena di involucri di mortai e razzi.

Il team di artigiani ricostruisce le armi requisite alle truppe fedeli al regime, restituendo in un certo senso il colpo a chi per primo lo aveva sparato.

Una postazione di lavoro alla fabbrica segreta di munizioni dell’ESL.

Nel laboratorio di Afesh, quindici uomini assemblano 200 mortai al giorno, insieme a innumerevoli razzi, granate, e cartucce. Aleppo era il centro industriale della Siria e quando i titolari delle fabbriche sono scappati con l’inizio delle ostilità, hanno lasciato dietro di sé un tesoro immenso di macchinari e materiali che i ribelli stanno facendo fruttare.

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Un operaio taglia pali per impalcature per farne involucri per razzi.

In una postazione di lavoro, un ragazzo sta riducendo pali per impalcature a misura di razzo. In un’altra, un secondo operaio lavora e dà forma ai pezzi. Una volta che il corpo è imbottito di esplosivi, le due parti vengono unite e saldate. Afesh appare chiaramente fiero, e mentre sorride mi porge il prodotto perché io lo ispezioni.

“Abbiamo aspettato per due anni che l’Occidente ci spedisse armi, e non ci hanno mandato nulla,” dice. “È ipocrisia—il tuo David Cameron chiacchiera tanto ma non fa niente. Ora non abbiamo più bisogno dell’Occidente, perché ci stiamo costruendo le armi da soli.”

Granate imbottite di esplosivo.

Nell’angolo più lontano e buio, Afesh ci mostra la linea di produzione delle granate. Involucri fatti con tubi vengono sigillati a un’estremità, riempiti di chiodi ed esplosivi. Sulla cima viene posta una miccia, poi si sigilla il tutto con cera fusa. “Questi sono meglio di quelli di Assad, meglio di quelle dei russi!” mi spiega Afesh mentre regge una delle sue bombe a mano. È imbottita con mezzo chilo di dinamite ed è, dice, cinque volte più potente di qualsiasi cosa i soldati di Assad possano tirare ai suoi uomini.

Un ribelle dell’ESL tiene in mano una granata artigianale.

Me ne passa una. “Questa è per te, è un regalo,” dice. Me la rigiro in mano, chiedendomi quanto sia sensibile la dinamite, come farò a giustificare la presenza di una granata artigianale alla polizia di frontiera turca e di come posso rifiutare gentilmente un dono che mi viene fatto da un uomo a capo di una fabbrica di munizioni. Per fortuna, parla prima che abbia il tempo di dire qualcosa di stupido: “Perché non la tiri a David Cameron?”

Segui Hannah su Twitter: @hannahluci

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