FYI.

This story is over 5 years old.

vita vera

I dischi da isola deserta dei musicisti italiani

Ogni volta che si prova a chiedere a un musicista quali sono le sue influenze, questo risponderà che “la mia musica è mia soltanto". Quando invece gli chiedi i dischi da isola deserta, ecco che ti tira fuori una lista che tradisce gli spunti, le...

Qualche anno fa, per la precisione nel 2009, uscì questo libro curato dal mensile Blow Up chiamato The Desert Island Records – I musicisti raccontano i loro dischi più amati. Com’è intuibile dal titolo, si tratta di una serie di scritti in cui musicisti di vario ordine e grado scelgono e raccontano i loro “dischi da isola deserta”: operazioni del genere sono interessanti perché, per qualche insondabile motivo, ogni volta che si prova a chiedere a un musicista quali sono le sue influenze e le sue ispirazioni, questo risponde quasi invariabilmente secondo la formula “non ho influenze, la mia musica è mia soltanto, le ispirazioni le traggo dalle emozioni personali” e simili. Quando invece gli chiedi i dischi da isola deserta, ecco che ti tirano fuori una lista sui cui con probabilità rimuginano da anni e che finalmente tradisce gli spunti, le suggestioni, a volte i veri e propri plagi che a parole faticano ad ammettere.

Pubblicità

Come dicevo, nel libro curato da Blow Up i nomi coinvolti appartengono ai più disparati generi, sottogeneri e bagagli: c’è Jim O’ Rourke come Martin Gore, Otomo Yoshihide come i Mercury Rev, Sufjan Stevens come i Chemical Brothers, e poi anche diversi italiani. Questi ultimi si fanno volentieri notare per la lunghezza dei loro interventi. Per capirci: David Byrne, per spiegare perché sull’isola deserta si porterebbe i Notwist, impiega una riga soltanto. Mauro Ermanno Giovanardi dei La Crus, per i soli Cramps di Psychedelic Jungle, di righe ne riempie 30. Ma agli italiani, si sa, piace parlare, quindi nulla di cui impressionarsi.

Quello che invece merita una certa, non superficiale attenzione, è il ritratto che i musicisti italiani danno della musica (uhm…) “rock” per come filtrata dalle loro sensibilità e aspirazioni. Ho sempre pensato che troppo spesso i gruppi italiani siano stati percepiti come qualcosa che in realtà non erano: onesti cantautori che vengono infilati nello stesso calderone dell’indie-pop da college radio, rocchettari eredi di una pur sempre rispettabile tradizione scambiati per rumoristi spacca-ampli, ruspanti bardi della canzone all’italiana che per colpa di qualche drum machine di troppo diventano avanguardisti pop, e così via. C’è da dire che la colpa (se colpa è, benintesi) di tale strabismo, quasi mai è dei musicisti stessi. Oddio, è vero, i gruppi italiani sono noti per un livello di supponenza bizzarramente superiore alla media, ma è perlopiù alla critica che piace dipingerli per quello che non sono, probabilmente perché buttare lì un “ricordano i migliori Radiohead” funziona meglio che non un “limpidi echi di Lucio Battisti.” Ora, un libro come The Desert Island Records funziona in questo senso come una specie di confessione collettiva: i musicisti non elencano solo i rispettivi dischi preferiti, ma in qualche modo—perlomeno a un livello implicito—dichiarano una professione di appartenenza: a una tradizione, a una visione, a un’inclinazione genericamente culturale… Insomma, ci siamo capiti. Alcuni casi sono talmente limpidi e cristallini che valgono perlopiù come conferma di sospetti nemmeno troppo latenti, altri sono più interessanti. Vediamone qualcuno.

Pubblicità

Cominciamo da Francesco Bianconi dei Baustelle, uno dei più stringati e anche uno dei più (si può dire?) brillanti. Le scelte non sono originalissime, e a parte gli inevitabili classici (Beatles, Dylan, Velvet Underground) e l’eccezione freak che conferma la regola (il Miles di Bitches Brew), l’elenco del musicista senese è un autentico prontuario di cantautorato chic, laddove il termine non vuole sottintendere nessuno snobismo (anche se…) quanto una precisa presa di posizione, contigua ma a conti fatti laterale all’altra tradizione cantautorale in particolar modo italiana, quella diciamo così engagé. I preferiti di Bianconi sono Piero Ciampi, Leo Ferré (in un disco cantato in italiano), Battisti, e soprattutto il Lucio Dalla di Com’è profondo il mare, definito “l’album più bello della storia della musica italiana.” Qui Bianconi, quasi fuori dai denti, si lascia scappare una vera e propria dichiarazione di intenti: “il nuovo rock italiano dovrebbe farsi meno seghe e impararlo a memoria.” Il leader dei Baustelle insomma ha un’idea abbastanza precisa di quale indirizzo imprimere alla musica italiana dei Duemila, ed è questo un indirizzo che riparte da un’interpretazione selettiva del vecchio cantautorato nostrano. La scelta dei nomi, per quanto non particolarmente eccentrica e forse pure un tantino ovvia, indica se non altro una consapevolezza: esiste una tradizione “leggera” per molto tempo ripudiata dal giovane rock della penisola, apertamente retrò e risolutamente italiana, ed è questo l’ideale che i Baustelle inseguono, senza oltretutto averlo mai né negato né nascosto. Forse Bianconi non è né il nuovo Ciampi né il nuovo Dalla, però i Baustelle mi hanno sempre dato l’idea di un certo… non so, chiamiamolo “rigore filologico.”

Pubblicità

Qualche pagina prima, le scelte di Manuel Agnelli degli Afterhours sono di segno diametralmente opposto: nemmeno un italiano, e una lunga fila di rocker più o meno alternativi e più o meno imparentati con quell’epica “sangue & sudore” quintessenzialmente ruock. Agnelli ha una concezione curiosa dei pesi e delle misure: per lui i Replacements sono “uno dei gruppi di Minneapolis meno noti” e gli Ween “una sorta di lo-fi ante litteram,” ma ci tiene comunque a ribadire che Tim Buckley “anche se suona più vecchio rispetto a Jeff […] era ai suoi tempi più avanti nella ricerca musicale”. Le scelte eccentriche sono i Fall da una parte e i Devo dall’altra. Di questi ultimi Agnelli dice: “dei Devo al tempo non avevo nulla” (non che ora…)

Gli Afterhours compaiono a loro volta nella lista di Vasco Brondi aka Le Luci della Centrale Elettrica. Con lui si torna a un patrimonio quasi esclusivamente italiano (un solo titolo straniero, Nebraska di Bruce Springsteen), e la cosa è tutto sommato prevedibile. Anche qui, la predilezione per cantautori irregolari come Fausto Rossi, Cesare Basile e Moltheni, ma anche il De Gregori del secondo album, vale un po’ come radiografia dell’immaginario musicale del ferrarese, o se vogliamo della tradizione di cui Brondi resta l’erede più insigne: a stiracchiarla un po’, è il corrispettivo “arrabbiato” del modello retro-maudit caro ai Baustelle (anche l’inserimento degli stessi Afterhours potrebbe essere letto in tal senso). Ah, nel caso ve lo stesse chiedendo: no, Rino Gaetano non c’è.

Pubblicità

Freak Antoni, coi suoi Skiantos, è considerato uno dei padrini del punk italiano. Cosa avessero di punk gli Skiantos, a parte gli scolapasta in testa (che però non mi risulta andassero per la maggiore all’Anarchy Tour del 1976), confesso che non l’ho mai capito. Si dirà: ma punk è un atteggiamento, mica una musica (uff…). Va bene, allora mettiamola così: l’atteggiamento punk di Freak Antoni, sulla fantomatica isola deserta, ci risolve in Led Zeppelin, Police, gli Stones di Some Girls, e ben tre album dei Beatles. Dal suo intervento, scopro anche che l’uomo simbolo della Bologna settantasettina si è laureato al DAMS con una tesi intitolata “Temi fantastici nelle canzoni dei Beatles”. Diciamo che i riferimenti sono tanto generici/generalisti quanto generica/generalista, al di là della patina, fu anche la musica degli Skiantos. È semmai più interessante la scelta dell’ormai dimenticato Sergio Caputo: “sono sempre stato legato a tutto quel patrimonio italiano di canzoni ironiche, comiche, dagli anni Venti agli anni Cinquanta, fino a Buscaglione e Carosone,” racconta il Freak. E qui finalmente le cose tornano: non ho mai capito perché gli Skiantos siano catalogati alla voce punk, ma non ho mai trovato nulla da ridire sulla definizione che loro stessi si diedero: rock demenziale. Che volendo sì, è la deriva punk delle indimenticabili “canzoni dell’allegria” anni Trenta, o dell’ancor più inarrivabile Clem Sacco di "Oh mama voglio l’uovo alla coque". Peccato che tale deriva avrebbe infine portato a Elio e Le Storie Tese, ma di questo il buon Freak proprio non può essere accusato.

Pubblicità

Di Vinicio Capossela mi limito a dire che non elenca né un disco di Tom Waits né uno di Paolo Conte. Ha evidentemente giocato sporco, quindi non lo consideriamo. Se può interessare—ma era prevedibile—è anche uno di quelli che si dilunga di più sui singoli titoli: 18 righe sulla Banda Ionica, 24 su una raccolta di musica dei casinò di Las Vegas.

Emidio Clementi dei Massimo Volume sull’isola si porterebbe Ornella Vanoni e Throbbing Gristle.

Per Dargen D’amico solo due dischi rap, per il resto Lucio Dalla (quello di Ciao), il Franco Battiato anni Ottanta, i Beach Boys di Pet Sounds, Tracy Chapman, e l’immancabile Prince.

Cristiano Godano dei Marlene Kuntz sull’isola si porta due Neil Young, due Nick Cave e due Sonic Youth. Una lista che è addirittura troppo trasparente.

Chiudo col mio preferito, Federico Fiumani. Che piazza in apertura—e non poteva essere altrimenti—i Television, debitamente stemperati da De Gregori e De André: è praticamente la somma algebrica dei suoi Diaframma. Fiumani dopotutto è uno che ha intitolato un brano "Il ritorno di Tom Verlaine" (nel suo repertorio anche una "Il disco dei Replacements": non conosco il brano, quindi non so se al suo interno contiene strofe tipo “uno dei gruppi di Minneapolis meno noti”). Detto per inciso, anche se il Fiumani non lo seguo da un po’, è veramente un uomo a cui voglio un bene dell’anima. Parlando dei Roxy Music racconta che “all’epoca ero timido con le ragazze,” e non so se sia proprio grazie al gruppo di Brian Ferry che è finito a scrivere canzoni come "Per il tuo buco del culo." Mi è dispiaciuto un po’ notare che dischi dei Diaframma come In perfetta solitudine e Da Siberia al prossimo week end non compaiono in nessuna lista dei più giovani colleghi italiani (anche se immagino i più indicherebbero il periodo Siberia, con Miro Sassolini alla voce: ma per me, o canta Fiumani o niente). All’uscita del libro The Desert Island Records, nella nota introduttiva il direttore di Blow Up Stefano Isidoro Bianchi descriveva Fiumani come “A national treasure, direbbero gli inglesi, che ancora aspetta la giusta celebrazione.” Ora: il libro è uscito nel 2009. L’anno prima ai Diaframma era stato dedicato un intero disco tributo con dentro Dente, Luci della Centrale Elettrica, Marlene Kuntz, Zen Circus… Il sospetto è legittimo: cosa intendeva Bianchi con quell’“ancora aspetta la giusta celebrazione”?