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Musica

Ecco il rapper libanese che è stato scambiato per un terrorista

Double A The Preacherman è finito all'unità anti-terrorismo perché si è vestito "da Cholo"

Hussein Sharaffedine, aka Double A the Preacherman

In Libano sembrano tutti un po' paranoici quest'anno, e non è difficile immaginarne il motivo. In 34 giorni ci sono stati cinque attacchi kamikaze da parte di affiliati di Al Qaeda attivi nel Paese, come Jabhat al Nustra e le Brigate di Abdullah Azzam. La maggior parte degli attacchi ha preso di mira le roccaforti di Hezbollah nella Valle della Bekaa e il sobborgo meridionale di Dahiyeh, a Beirut—la risposta al costante supporto del regime siriano da parte del gruppo militante Shiita.

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In risposta si sono moltiplicati i posti di blocco lungo le strade che portano a Dahiyeh, le auto poco familiari suscitano subito sospetti, e sugli autobus pubblici ora si possono vedere cartelli che chiedono cortesemente ai passeggeri di togliersi le giacche prima di salire a bordo.

Forse è stato per tutto questo che il trentaduenne Hussein Sheraffedine, aka Double A the Preacherman, presentatore della serata open mic di Radio Beirut e frontman della gruppo funk locale The Banana Cognacs, si è visto ammanettato dalle Forze di Sicurezza Interna, rinchiuso per 24 ore, e condotto all'unità anti-terrorismo del Paese.

Il 22 gennaio—giorno del suo arresto e ventiquattr'ore dopo un fatale attacco nel quartiere Haret Hreik di Beirut—sono apparse su Twitter foto di Sharaffedine ammanettato in quell'area; il rapper sembrava più un Cholo che un Salafita. L'ho incontrato per parlare del suo arresto da sospetto terrorista e ho scoperto che il suo "look messicano moderno" è stato effettivamente il motivo principale per cui è finito nei guai.

VICE: Allora, che è successo? Che ci facevi ad Haret Hreik?

Hussein Sharaffedine: ero andato a Beirut da Sidon, dove vivo, per portare la macchina di mia madre da un meccanico di Haret Hreik. Avrebbe dovuto essere una sorpresa. Stavo procedendo lungo la strada dopo aver passato un posto di blocco-nessuno mi ha chiesto di fermarmi. Improvvisamente vedo questo tizio dallo specchietto retrovisore che corre verso di me, ha in mano una pistola. Ricordo di aver pensato, "Ma che cazzo sta succedendo?" Ho notato che indossava una divisa semi-militare, ho accostato e ho messo le mani in alto.

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Appena ho parcheggiato mi ha colpito con la pistola e ha provato a trascinarmi fuori dal finestrino. È arrivato un altro agente, e ha iniziato a colpirmi anche lui. Poi mi hanno messo in manette e mi hanno spinto nel retro di un’auto, di fronte a quella che era diventata una folla piuttosto grande. Nessuno mi ha chiesto i documenti. Poi ho scoperto che il tizio che mi ha arrestato—la gente lo chiamava “Rambo”—era piuttosto conosciuto in quell’area per una serie di incidenti passati, incluso aver ucciso una persona durante un raid. A quanto pare avrei potuto essere la sua quarta vittima.

Dove ti hanno portato?

Mi hanno portato alla centrale di polizia locale. A quel punto la storia si era diffusa in tutti i telegiornali. Un ufficiale di polizia mi ha mostrato un messaggio di Whatsapp sul suo telefono, in cui si diceva che ero un musicista conosciuto, e che il mio arresto non era un’ottima pubblicità per la polizia in generale. Rideva. La gente in centrale ha iniziato a mostrarsi dispiaciuta; nessuno mi ha toccato con un dito. Mi hanno chiesto se volevo sporgere denuncia contro gli agenti che mi avevano arrestato. Mi hanno permesso di telefonare ai miei amici; scherzavamo su quanto fosse assurda la situazione.

Ma ci sono state complicazioni?

Credevo che l’indagine fosse terminata. Mi hanno dato i documenti di rilascio. Verso le 13.30, il comandante mi ha detto che dovevo aspettare l’arrivo dell’assistente capo investigatore per finalizzare la procedure. A quanto pare era in pausa pranzo. Alle 17.30 non era ancora arrivato, quindi l’ufficiale gli ha telefonato. Mi hanno rimesso le manette e mi hanno detto di spegnere il cellulare.

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Cosa aveva detto l’assistente capo?

Aveva riportato il mio caso all’unità speciale anti-terrorismo. L’agente ha provato a dirgli che avevano completato il verbale e che ero un musicista conosciuto, ma non gli ha dato retta. Mio fratello ha riportato la notizia che mi avrebbero trattenuto per la notte e mi avrebbero portato all’unità anti-terrorismo la mattina seguente per l’interrogatorio.

Come ti sei sentito quando hai scoperto che non ti avrebbero rilasciato?

Ero arrabbiato. Volevo fare scenate, ma sapevo che era meglio restare calmi. Sono di una famiglia sciita. Non è un elemento centrale della mia identità; non sono particolarmente religioso. Ma la famiglia e la discendenza sono importanti in Libano. Fa parte della nostra cultura. L’agente che mi ha arrestato era sciita, e mi ha definito un apostata Salafita per via del mio aspetto. Era un nuovo termine per me. Capisco che le tensioni siano alle stelle—e, dati i nostri precedenti in quanto libanesi, ci siamo abituati—ma ci sono determinate procedure. Ai posti di blocco mostro il massimo rispetto, ma mi hanno pesantemente mancato di rispetto. Voglio dire, le forze dell’ordine ci dicono di vivere le nostre vite, ma io sono stato fottuto proprio mentre facevo quello.

Volevano mettermi in una cella, ma grazie alle rimostranze di mio fratello, e al fatto che gli ufficiali erano abbastanza consapevoli dell’errore commesso e stavano cercando di leccarmi il culo, mi hanno permesso di dormire negli alloggi degli agenti. Ero ancora ammanettato.

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Com’è andata all’unità anti-terrorismo il giorno seguente?

La gente dell’unità anti-terrorismo è stata fantastica, a dire il vero. Erano molto educati, un lato delle forze dell’ordine che non avevo mai visto prima d’allora. Quando ho parlato con il comandante mi ha detto, “Hassan, i tizi che ti hanno arrestato sono degli idioti.” Io ho risposto, “Perché?” Mi ha guardato—avevo ancora indosso i vestiti del giorno prima—e ha detto, “Perché non è uno stile da Afghano, è più da Cholo.” Non riuscivo a crederci. Nel verbale dell’unità anti-terrorismo, avevano effettivamente scritto che gli abiti che indossavo non erano paragonabili a un abbigliamento afghano, ma piuttosto “a un look messicano moderno”. Alle 17 circa mi hanno rilasciato.

Come ti senti ora a ripensare all’esperienza?

Successivamente, testate locali, regionali e internazionali hanno iniziato a contattarmi—avvocati, gruppi per la difesa dei diritti umani, ecc. I politici hanno espresso la propria solidarietà; i poliziotti ai posti di blocco di Saida si sono scusati per l’accaduto. Immagino che i riflettori e le telecamere erano inevitabili. La gente ora mi conosce più per quello che è successo che per la mia musica, e non lo apprezzo necessariamente. Ma se suscita dell’interesse è comunque un lato positivo della vicenda.

Ho sempre pensato che l’hip hop possa servire come segnale contro il razzismo e la bigotteria, e gettare luce sui casi di maltrattamento e di ingiustizia. Viviamo in un Paese settario, dove la sicurezza attualmente non esiste, i confini non sono rispettati e la gente ha perso la fiducia nei confronti delle istituzioni e dei tribunali. Molto dell’hip hop che arriva dal Libano tratta temi politici. A volte, credo, a proprio discapito. La musica dovrebbe servire anche come liberazione. Quando mi trovo davanti un microfono, parlo di problematiche civili, ma voglio anche divertirmi, ballare, la stessa cosa quando ascolto musica altrui. Voglio continuare a fare rime. Forse ora ho un margine per parlare della polizia. L’ho già fatto in precedenza. Di fatto, sono sorpreso che le forze dell’ordine non vi abbiano fatto riferimento. Non credo che stessero ascoltando.