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A8N8: Sei del deserto e non lo sai

Sei brevissimi

Racconti di Chiara Barzini.

Illustrazione di Lisa Hanawalt.

I PRIMI FIGLI

I primi figli sono piccoli e schiacciati. Bisogna fare attenzione a non romperli. Le sorelle li tengono in braccio. Sembrano bambini indiani. Forse perché li strizzano così forte da farli diventare viola.
I primi figli stanno in piedi sugli sgabelli del bagno in mutande. Si appoggiano su un fianco alla volta cantando le canzoni della radio a squarciagola. Tengono grandi forbici in mano e prima che tu possa dire qualsiasi cosa, si tagliano una ciocca di capelli.
Ma che fanno? Si tagliano i capelli? Loro ti fissano con aria di sfida: “Ci facciamo la frangetta, ok?” Scendono dagli sgabelli, prendono scopa e raccoglitore e cominciano a spazzare per terra. Staccano lo stereo ed escono dal bagno, senza aggiungere altro.
I primi figli sono più coraggiosi dei secondi. Per esempio, se camminano accanto ai secondogeniti sul marciapiedi, scelgono sempre di stare dal lato della strada. Lo fanno per non farli investire. Tutto ti può investire quando sei un figlio, specialmente le jeep. Chiedono coni gelato da regalare. I primi figli possono anche essere crudeli. Convincono i secondogeniti a mangiarsi gusci d’uova. Gli dicono che nel bosco ci vivono i mostri. Gli fanno vedere coltelli, trattori rotti e pipistrelli. Prima li colpiscono sulla testa, poi li stringono al petto e supplicano: “Giura che non lo dici a mamma.” Conosco primi figli che hanno usato fruste contro i loro fratellini. Ho sentito primi figli insultare Dio e la vergine Maria e far finta di avere tutto sotto controllo.
I primi figli rubano il cibo dai piatti dei secondogeniti quando nessuno li vede. Le madri si arrabbiano: “Non puoi mangiare insalata e formaggio prima di cena! Non è una merenda, è un pasto.” Si preparano scodelle piene di lattuga e parmigiano e corrono al bagno, nella stanza più fredda della casa. Si siedono sulla tazza e masticano. Mangiano troppo velocemente per gustarla davvero, ma l’insalata è buona comunque. Nascondono il piatto sotto al water e lo riportano in cucina quando i secondi figli hanno finito di mangiare.
I primi figli crescono. A otto anni portano bicchieri di gin sul tetto di casa e li sorseggiano guardando le macchine passare all’orizzonte. Le macchine fanno un suono solitario mentre il sole riscalda le loro ginocchia, che, come tutti sanno, sono più grandi e meno affusolate di un tempo. I primi figli, quando crescono, sono meno belli. Diventano troppo desiderosi di compiacere gli altri. A volte sono smaniosi di mangiare o dormire. Non sono pazienti e non sono interessati a ricevere regaletti solo per aver imparato a non fare la pipì a letto. Non vogliono essere premiati per la bella pagella. Li conoscono bene quei tranelli lì. Lo sanno che nella vita non si viene ricompensati solo perché si è bravi. Solo i secondogeniti credono a quelle cose lì. I primi sanno che il dolore è dietro l’angolo. Non ci sono scorciatoie.

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IL PRIMO NIPOTE

Il primo nipote maschio non era amato dalla nonna perché era maschio e aveva la testa a pera. Alla madre aveva fatto male partorirlo. Era un secondo figlio e quindi più carino del primo, col suo faccione pallido e i suoi occhi indagatori. Alla nonna non piaceva che il bambino stesse sempre a toccarsi: “Metti via quel coso. Fa schifo!” Tutti in famiglia pensavano che la nonna fosse gay.
Quando al primo nipote stava per cadere il primo dente, la nonna lo portò in salotto e legò un filo al suo canino tremolante. L’altra estremità la legò alla maniglia della porta.
“Stai lì! Non fa male. Stanotte arriva la fatina e ti mette le caramelle sotto al cuscino. Uno… Due…”
Ma il nipote aveva troppa paura e il dente se lo tolse da solo con un pugno. Nessuna porta avrebbe mai estratto nulla dalla sua bocca.
“… E tre!”
Lui urlò: “Ahia!”
La nonna aprì la porta e sbirciò dentro: “È caduto?”
Il nipote fece rotolare il dente giallo e insanguinato sul palmo della sua mano. Non le disse di esserselo tolto da solo. Era più lungo di quanto pensasse. C’erano sottili venature nere sulla superficie.
“Fammi vedere quell’affare,” disse la nonna. E lo prese in mano. Il nipote pianse mentre le gengive continuavano a sanguinare.
“Piantala, non è niente,” disse la nonna.
“Ma sanguino!” si lamentò lui.
“Il sangue non fa male.”
Quello ci pensò e si rese conto che in effetti non faceva male. La nonna gli diede l’acqua salata per sciacquarsi e gliela fece sputare nel lavandino. Gli disse che doveva lavarsi di più i denti.

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IL PRIMO MINISTRO

È arrivata la notizia: “È morto il primo ministro.”
Facciamo una corsa per andare a mostrare il nostro lutto. È una figura pubblica e il suo corpo è messo in vista in modo che tutti gli possano dire addio. La bara è su un palco all’interno di una cappella. Le panche sono posizionate in maniera asimmetrica di fronte all’altare, nel tentativo di far accomodare la folla disordinata. Sono tutti perplessi, perché la bara è vuota.
Invece di riposare in pace, il primo ministro è seduto sugli scalini sotto all’altare, accasciato come un fantoccio. I giornalisti bisbigliano tra loro. Prima di morire è stato trovato con una prostituta transessuale. La sua povera moglie non sapeva che lui avesse queste preferenze.
È flaccido e marroncino, ma una traccia della sua corpulenza è ancora visibile tra le pieghe della pelle. Nonostante sia morto, può ancora parlare e muoversi a piccole dosi. Il suo braccio oscilla in avanti mentre alza l’indice, in segno di supplica. Vuole essere ascoltato.
“Sono qui!”
Nessuno sembra accorgersi del fatto che, nonostante sia morto, è ancora parzialmente vivo.
“Scusi,” dico al primo ministro, “cerchi di capire, non sappiamo come prenderla. Lei è un cadavere, ma si muove.”
Il primo ministro è soddisfatto: “Esatto! Grazie per essersene accorta.”
Lo scuoto per la gioia di aver fatto, una volta tanto, una giusta affermazione. “Le vorrei ricordare che sono morto,” dice lui, “se mi scuote sarò ancora più morto e non avrò più parole da dire.”
La sua voce è a malapena udibile e ha smesso quasi di muoversi tranne che per alcuni lievi movimenti della testa. Sul suo cranio c’è una grande cicatrice.
“Cos’è successo con la prostituta transessuale, quindi?” chiedo al primo ministro in tono confidenziale, prendendolo per mano.
“Mi piacciono le donne col pisello,” ammette lui.
I giornalisti nella cappella segnano tutto sui loro taccuini: “Finalmente una notizia!”
“E sua moglie? Gira la voce che se la facesse con le minorenni!” urla qualcun altro dalla folla.
“Non importa più, ora. Quando muori neanche ti ricordi di essere sposato.”
La madre, un po’ imbarazzata, si fa avanti e prova a riaccompagnarlo dentro la bara.
La folla seduta sulle panche è pronta per l’inizio della cerimonia. Il primo ministro si sdraia, ma il suo braccio continua a uscire furtivamente dalla cassa.
“Non preoccupatevi,” dice la madre, “questi sono gli ultimi sprazzi. Ci vorranno anni prima che possa muoversi di nuovo.”

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L’AVVELENAMENTO

“Vorrei avvelenarmi e togliermi di mezzo,” disse il nonno un giorno, “e per come stanno andando le cose sarebbe meglio se lo facesse anche il bimbo.” Io spiegai al vecchio che se proprio lo doveva avvelenare qualcuno, il bambino, sarei stata io, dato che era mio figlio. “Se vuoi avvelenarti tu, fa’ pure. Io vado di là.” Lasciai il piccolo in camera con il vecchio.
Il bimbo non piangeva mai, era una gran dote. E si muoveva poco. A undici mesi potevo già farlo dormire in un lettino senza sbarre. Il giorno dell’avvelenamento però lo sentii piangere e urlare come un’aquila, dall’altra stanza. Corsi a vedere di cosa si trattasse e trovai il nonno ripiegato ai piedi della sua scrivania, con la testa piantata sulla seggiola. Il bambino si sorreggeva sulle gambe della sedia e piangeva.
“Sei contento, adesso, papà?” chiesi al vecchio. I suoi occhi erano ancora aperti. Non era dunque morto, ma paralizzato dal veleno, e sembrava pentito.
“Ho fatto una cazzata,” disse con un filo di voce, “questo è il modo peggiore per morire.” Ma sapevamo tutti che ormai era troppo tardi per tornare indietro.
Mi inginocchiai e abbracciai mio figlio da dietro. Era il suo momento per dirgli addio. Presi la mano del bambino nella mia e, mimando il gesto del saluto, sospirai nel suo orecchio: “Ciao ciao nonno. Fai buon viaggio.” Rimanemmo così, mio figlio ed io, a guardare gli ultimi attimi di vita del nonno.
Poi andammo di là e ci sdraiammo sul suo lettino, faccia a faccia. Sapevo di aver sbagliato a far vedere una cosa del genere a un bambino. Forse per questo il nonno aveva chiesto di avvelenare anche lui–-per far sì che non avesse memoria di questa giornata. Guardai il bambino di fronte a me e sentii di amarlo.
“Ma scusa, non è molto meglio essere vivi che morti?” gli chiesi.
Per la prima volta mio figlio mi guardò come un uomo. La sua espressione manifestava un sì netto. E la scelta fu fatta lì.

INGIUSTIZIA

Mio padre uccise una donna sotto ai miei occhi, per derubarla. Io ero lì mentre il sangue le colava dalle braccia flaccide. Lo guardai male. Che idiota.
“E adesso dove pensi di nasconderla?”
Uscì dalla stanza. Io rimasi su uno sgabello a osservare la carne sgraziata di lei.
Mio padre tornò con ago e filo: “Ricucila tu. Sai quanto detesti la vista del sangue.”
Mio padre viene da una generazione di persone che non sprecano nulla. “Mi dispiace buttare via le cose,” mi disse mentre tagliava a pezzi una sua vecchia camicia da cowboy.
Usai il tessuto della camicia per tamponare le ferite della donna e controllare il flusso del sangue. Cucii insieme i pezzi di stoffa e li drappeggiai sul suo corpo.
Una volta finito la donna sembrava una trapunta. Rossa e blu, con gli scacchi sul petto. La prendemmo e la portammo verso il mare.
Quando arrivammo davanti all’acqua rimanemmo a guardare un macchinario costruito per mantenere la brillantezza dell’oceano. Era posizionato su un precipizio per sorvegliare le acque stagnanti al di sotto. Volevo accendere una spia che potesse rendere di nuovo trasparente il mare. Volevo purificare tutti i liquidi, ma la macchina non si accendeva e si vedeva che la tecnologia sarebbe stata troppo antiquata in ogni caso. Sapevo che non avrebbe funzionato.
“Ti conviene occuparti di cucito,” disse mio padre, “sei più brava con le cose manuali che con quelle tecnologiche.”
Guardai quella donna a trapunta e il mare inquinato. Se avessi potuto fare le cose di testa mia, la donna sarebbe stata viva e il mare sarebbe stato blu.

SORELLA SMETTILA DI RESPIRARE

Cosa puoi fare se vuoi che tua sorella smetta di respirare?
Congelala e dirigiti verso Nord. Raggiungi Santa Cruz. Lì troverai una strada centrale chiamata: Strada Centrale. La potrai mettere in mostra. Vai nel parcheggio del centro commerciale e presentala agli altri. Potrai dire: “Scommetto che non sapevate che avevo una sorella! Eccola, è lei. È fatta di ghiaccio.” I bambini vorranno toccarle il braccio e la sorella ondulerà un po’. Una volta che avrete stabilito che la sorella esiste ed è fatta di ghiaccio, respirate bene sul suo volto congelato. La sorella comincerà a sciogliersi e i bambini urleranno.
“La stai squagliando! Sta scomparendo.”
E questa, in effetti, è proprio la tua intenzione: scioglierla nel nulla. Non ci sarà più nessuna sorella. Non ci sarà più vita per la sorella e lei non avrà più forma. Questa, pensi tu, è la soluzione migliore ed è molto meglio della cremazione.