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Attualità

Il problema più grosso della Rai non è la nomina di Daria Bignardi

Le recenti polemiche sulle nomine Rai si sono nuovamente concentrate sulle dinamiche politiche e non sui problemi che da anni rendono i palinsesti della rete pubblica vecchi e per lo più inguardabili.

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Mercoledì è stata la giornata delle nomine dei nuovi direttori dei canali Rai, un evento che di per sé rappresenta sempre un crogiolo ideale per critiche e dibattiti politici. Senza stare a riportarle tutte—le potete comunque leggere qui—la nomina che ha fatto più scalpore è stata quella di Daria Bignardi a direttrice di Rai 3, che ha suscitato sorpresa in molti ed è stata aspramente criticata da altri.

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Per esempio da Marco Travaglio, che nel suo editoriale sul Fatto Quotidiano rimarca i giochi di potere che avrebbero dietro la nomina, sottolineando la vicinanza al premier del marito Luca Sofri—tesi sostenuta da un video in cui lo stesso Sofri si congratula con Renzi per l'intervista rilasciata a Le Invasioni Barbariche chiamandolo "capo"—e alludendo al fatto che molte delle domande poste dalla Bignardi a Renzi fossero inoffensive e adulanti. Ovviamente Travaglio non è stato il solo a commentare in modo critico la notizia: se all'interno della stessa Rai ci sono state proteste per la scelta di "esterni", Libero e Il Giornale hanno cavalcato l'onda delle dinamiche di vassallaggio. E mentre altri si interrogavano sul legame tra Rai 3 e la conduzione del Grande Fratello, il segretario della Lega Matteo Salvini ha definito la Rai "Telerenzi".

Posto che stupirsi del fatto che le nomine in Rai siano un gioco politico è quantomeno ingenuo, dato che così è sempre stato, fermarsi alla questione Bignardi lo è altrettanto.

Secondo il direttore generale Rai Antonio Campo Dall'Orto, le nomine sarebbero state motivate dalla necessità di rinnovare del tutto la guida dei principali canali della TV di Stato, con l'inserimento del direttore più giovane di sempre a Rai 1 e due donne su Rai 2 e Rai 3. Vista così, quindi, la presenza di questi nomi non sembra esattamente inimmaginabile. Innanzitutto perché per la prima volta una donna sarà direttrice di una rete televisiva Rai, ma anche perché la nomina di Daria Bignardi—quella oggetto di maggiori contestazioni, appunto, a cui la stessa ha risposto nella conferenza stampa di ieri—un senso ce l'ha.

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Parlando da spettatore "giovane", Le Invasioni Barbariche (e quindi anche gli inizi de L'Era Glaciale, il suo programma sulla Rai) mi è sempre sembrato uno dei pochi format italiani che avesse provato a rinnovare, non sempre riuscendoci magari, il concetto di intervista nella TV italiana. La Bignardi in questi anni ha preso in prestito strumenti e mezzi comunicativi della tradizione americana—gli intermezzi di alleggerimento, la particolarità delle scenografie, i personaggi di corollario che arricchivano il programma—unendo serio e faceto, per creare dei ritratti dei vari personaggi che ospitava e non limitarsi alle normali questioni di attualità. In quest'ottica le interviste a Renzi o allo stesso Salvini, in cui si affrontano anche questioni personali e di immagine, hanno una loro collocazione che si è vista in pochi programmi Rai.

Nulla di incredibilmente rivoluzionario né sbalorditivo, sia chiaro, ma che permette di inquadrare più precisamente l'annunciata voglia di rendere la Rai più "pop" e contemporanea di Campo Dall'Orto.

Quello a cui non si è dato decisivo risalto in questa bagarre di polemiche e accuse di clientelismo è piuttosto la situazione in cui versa il palinsteto Rai, un prodotto che tolte rare eccezioni risulta polveroso e basato su standard antidiluviani. Se penso ad esempio al modo in cui una persona della mia età dovrebbe approcciarsi alla TV pubblica, il primo esempio che mi viene in mente è la gestione della serie crime Non Uccidere, uno dei prodotti televisivi più interessanti del nostro panorama. Andata in onda su Rai 3, mai sponsorizzata come si deve, sospesa a causa di un avvio claudicante, declassata (doveva finire su Rai 4, con le repliche), è poi tornata in onda, ancora una volta poco sponsorizzata, per terminare nuovamente il proprio corso—tanto che c'è addirittura chi ha creato una petizione per salvarla.

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È altrettanto emblematico quanto successo circa due settimane fa, quando Presa Diretta—nonostante le proteste degli spettatori e del conduttore Riccardo Iacona—si è trovata costretta a spostare in seconda serata il proprio reportage su cyberbullismo per il contenuto di immagini legate alla sfera sessuale. O ancora tutte le polemiche e le crisi di nervi sollevate dalla gestione del Capodanno Rai—senza contare che la stessa Bignardi, nel 2009, aveva lasciato l'emittente per problemi legati a interviste tagliate e passaggi in seconda serata dei suoi programmi.

A questi elementi, che potremmo ritenere legati a situazioni specifiche, se ne aggiungono poi di costanti e capaci di rappresentare in pieno un canale come Rai 1. L'ironia della sorte ha infatti voluto che, il giorno della nomina, la Rai abbia parallelamente mandato in onda un evento celebrativo del più grande esempio di anacronismo e gerontocrazia Rai: Bruno Vespa. Porta a Porta ha da poco compiuto vent'anni, due decadi nelle quali il programma è stato passaggio obbligatorio per ogni esponente politico, fino a assumere il nome ormai non così adatto di "Terza Camera". L'immaginario intorno al programma, però, è tutt'altro che positivo: in pratica, in tutta la sua esistenza, Porta a Porta è stata un po' una terra franca, dove il buongusto, ma soprattutto, l'oggettività non erano necessarie.

Negli anni Porta a Porta è stata tv del dolore (esemplificata dal plastico di Cogne), un luogo dove la verità veniva deformata (come l'insistenza nel provare a confermare la tesi del proiettile deviato da un mattone durante l'omicidio di Carlo Giuliani, nel G8 del 2001), un mix di servilismo e soprattutto revisionismo storico tesi a cavalcare l'onda e gli ascolti facili—come è stato per la questione Casamonica o la puntata sulle "lobby gay" per il caso Charamsa.

In generale, un esempio di TV del genere odora di stantio fin dal primo secondo di messa in onda, con gag ormai appartenenti a una cultura che grazie al cielo sta cessando di appartenerci, alla quale Bruno Vespa cerca di rimanere aggrappato con le unghie, riuscendoci. Ciò accadrà, sicuramente, fino a che il suo ruolo all'interno della Rai non verrà ridimensionato. Nel frattempo, parlare dei problemi della Rai non potrà limitarsi a Daria Bignardi.

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