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Tecnologia

Come si misura l'Universo?

No, non basta alzare gli occhi al cielo.
Raffigurazione della diottra usata da Aristarco. Immagine via

Le ultime rilevazioni della NASA nell'ambito dello studio dei protopianeti hanno sollevato un interrogativo tanto banale quanto necessario: come si misura l'Universo? Visto che abbiamo già discusso come misurare il suo peso, ho deciso di fare un viaggio nelle tecniche della misurazione del cosmo

Il telescopio è lo strumento principale per scrutare la volta celeste, ne abbiamo di potentissimi e selettivi—dall'infrarosso all'ultravioletto—che orbitano nello spazio come satelliti e raccolgono continuamente vari terabyte di immagini ad altissima definizione.

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Non è sempre stato così: il primo a pensare di usare un cannocchiale per motivi pacifici e puntarlo verso il cielo fu Galileo Galilei nel 1611; a lui il merito di aver esplorato i crateri lunari e scoperto le lune di Giove dandole il nome di satelliti medicei. Poco dopo, al banchetto che festeggiava l'ingresso di Galileo all'Accademia dei Lincei, il matematico greco Demisiani diede al cannocchiale puntato verso le stelle il nome di telescopio.

Nonostante tutto, all'epoca di Galileo, il Sole restava comunque un accessorio della Terra, che si pensava piatta e ben salda al centro dell'universo. E questo anche se, attorno al 300 a.C., nell'antica Grecia, Aristarco di Samo avesse già capito che è la Terra in realtà a girare attorno al Sole e attorno a un proprio asse inclinato rispetto al piano dell'orbita. Ma c'è di più: Aristarco tentò addirittura di misurare il rapporto tra le distanze Terra-Sole e Terra-Luna utilizzando ombre e goniometri.

Il ragionamento di Aristarco fu il seguente: quando la Luna è illuminata per metà, Terra-Luna-Sole assieme formano un triangolo rettangolo—in particolare, la distanza Terra-Luna rappresenta un arco della circonferenza al cui centro c'è il Sole. Partendo da questa premessa, Aristarco rilevò un rapporto tra le distanze Terra-Sole e Terra-Luna corrispondente a 19—purtroppo per Aristarco, il rapporto reale è di 400. D'altra parte, con gli strumenti a sua disposizione, non sarebbe stato in grado di fare di meglio.

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L'attrezzatura sfruttata dallo studioso è nota come diottra di Ipparco: un'asta girevole di legno con un mirino all'estremità, imperniata al centro su un bastone piantato a terra. Aristarco ha misurato col goniometro l'angolo formato dal bastone rispetto alla direzione di osservazione che andava dal suo occhio alla Luna e ne ha ricavato il rapporto tra le distanze Terra-Sole e Terra-Luna. Non poteva essere più preciso, anche perché, anche con errori minimi, gli operatori matematici coinvolti avrebbero amplificato gli errori (la tangente infatti diverge a 90°). Aristarco, tra le altre cose, fu il precursore della trigonometria.

Dopo Galileo, le distanze astronomiche furono determinate con il metodo di parallasse, una tecnica sempre geometrica ma più raffinata, che misura la posizione di un astro in due tempi diversi (per l'esattezza due punti opposti dell'orbita terrestre) e ricava la distanza a partire dallo spostamento apparente osservato.

Per capirci, mettetevi un dito sul naso e chiudete prima un occhio e poi l'altro, guardando un oggetto lontano vi sembrerà che l'oggetto si sia spostato rispetto al dito. Immaginate i vostri occhi agli antipodi dell'orbita terrestre: lo spostamento apparente della stella o del pianeta, processato dalla matematica, ci dà la distanza cercata.

La parallasse è un metodo valido ma molto limitato e va bene per scrutare lo spazio fino a un centinaio di anni luce dalla Terra. Per andare più in là tra le costellazioni si utilizza la 'candela standard'.

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Per stimare le distanze astronomiche, abbiamo bisogno di un dato assoluto e un dato relativo.

Il concetto di candela standard si può riassumere così: se esiste un oggetto la cui luminosità si può conoscere con una buona approssimazione, che sia una stella che pulsa o un'esplosione, questo diventa come un faro a distanza nota. Infatti, per stimare le distanze astronomiche, abbiamo bisogno di due dati: un dato assoluto (ovvero che non varia rispetto alla distanza da noi), come il colore o la frequenza di pulsazione, e un dato relativo (alla distanza), come il diametro o la luminosità.

Ecco che quindi possiamo misurare la frequenza delle Cefeidi, stelle variabili a pulsazioni regolari facili da individuare e, grazie a questa frequenza, ricavarci algebricamente la distanza. Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, l'astronoma americana Henrietta Swan Leavitt, a capo del dipartimento di fotometria fotografica all'osservatorio di Harvard, ne scoprì oltre 2400 esplorando solo le Nubi di Magellano.

Dopodiché, durante il corso del Novecento, una Cefeide dopo l'altra, gli scienziati hanno potuto creare una mappa delle distanze dell'universo dentro e fuori dalla nostra galassia (fino a una decina di milioni di anni luce dalla Terra).

Ma per fare il passo decisivo e uscire dal Gruppo Locale (l'insieme di galassie di cui fa parte la Via Lattea) bisogna affidarsi all'osservazione di candele standard esplosive, capaci di brillare a tal punto da essere notate anche a miliardi di anni luce da noi. Sto parlando delle Supernove di tipo IA, esplosioni di nane bianche che hanno una luminosità ben nota (in quanto detonano una massa da nana bianca conosciuta con buona approssimazione). L'unico problema è che sono piuttosto rare, così come un altro tipo di candela standard: i Gamma Ray Burst, esplosioni colossali di lontanissime stelle a neutroni.

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La rarità di questi oggetti è dovuta al loro essere, nei fatti, degli 'eventi': è come essere con un binocolo sul palco di un concerto di Ligabue a Campovolo e tentare di beccare tra il pubblico qualcuno che si scaccola. Per quanto riguarda i concerti, l'osservazione degli scaccolatori era e rimane una pratica piuttosto complicata, ma nello spazio, da quando esistono i potenti mezzi digitali, è possibile programmare foto continue della stessa porzione di spazio e confrontare le immagini nel tempo per trovare la caccola grazie all'osservazione automatica delle anomalie da una foto all'altra.

Come possiamo stabilire la distanza tra una stella e la nube planetaria in formazione che le orbita attorno?

Queste tecniche ci permettono di produrre una mappa dell'universo tutto sommato soddisfacente, ma per entrare nel dettaglio, ad esempio, come possiamo stabilire la distanza tra una stella e la nube planetaria in formazione che le orbita attorno?

A 400 anni luce da noi è stata avvistata YLW 16B, una stella che ha circa la stessa massa del nostro Sole, ma ha appena un milione di anni di vita—il Sole, vecchiotto, di anni ne ha 4,6 miliardi. Attorno a lei, i pianeti sono ancora disaggregati dentro una nube di polveri molecolari e gas. Gli scienziati l'hanno presa di mira per conoscere meglio la storia di un sistema planetario simile al nostro, e quindi approfondire la nostra, per così dire, pre-pre-preistoria.

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Per analizzare queste distanze, il team di scienziati, guidato da Huang Meng, ricercatore presso l'Università dell'Arizona, ha recentemente messo a punto una nuova tecnica chiamata 'foto-riverbero', che sfrutta il ritardo della luce che rimbalza all'interno della nube.

Per intenderci, è come misurare la distanza di una parete rocciosa urlandogli contro e cronometrando il ritardo dell'eco, anche in questo caso la luce arriva in ritardo perché riflessa dalle polveri.

Ma come fare a sapere quale luce viene dalla stella e quale dal riflesso? Grazie all'entusiasmo da giovanissima di YLW 16B, fortemente iperattiva e munita di una luminosità estremamente variabile in quanto non ancora adulta—una volta 'cresciuta', la stella comincerà a emettere un flusso di energia costante, come il nostro Sole. Per ora, però, la sua variabilità ha permesso l'identificazione delle radiazioni stesse: come se YLW 16B sparasse in tutte le direzioni palline di colore diverso che rimbalzando nella nube mantengono il colore, e possono quindi essere marcate per misurarne i ritardi. I colori, infatti, sono frequenze di luce.

La luce è sempre luce, non c'è nulla di più veloce, ed è talmente insuperabile da essere usata per misurare lo spazio tramite il tempo. Tutti i metodi per misurare il cosmo (sia micro che macro) restano per lo più indiretti e ci mostrano i nostri limiti percettivi —che cerchiamo di superare grazie ad artifici geometrici, analitici o psichedelici.

Una volta superato e fotografato, il risultato ci appartiene e possiamo dire di vedere oltre questo limite; e allora guardo le stelle e penso che qualcun altro, a 4 miliardi di anni luce da noi, potrebbe vedere la Terra quando era ancora polvere.

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