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Cosa mi ha lasciato mio padre, un tossicodipendente

A un primo sguardo sembrava il padre che tutti vorrebbero: affascinante e pronto a giocare. Ma la verità era che passava il tempo a dormire sul divano, e che tutti noi dipendevamo senza saperlo dagli stati alterati della sua coscienza.

Foto dell'utente Flickr

eric molina.

Non ho mai visto mio padre con una cravatta. Quando doveva vestirsi formale metteva una bolo tie, era il suo segno distintivo. La bolo tie, in caso non la conosceste, è una cravatta di cuoio fatta con un cordino o un laccio tenuto insieme da una specie di fermaglio decorato. È la cravatta dei cowboy e degli intellettuali ribelli, di chi se ne frega del sistema. Avete presente John Travolta in Pulp Fiction?

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La bolo tie di mio padre è fatta di un cordino marrone che finisce con due ciondoli d'osso. Il fermaglio è di osso di cervo orlato e smussato. È un reperto dei suoi anni in Alberta, quando lavorava negli impianti petrolchimici e passava il tempo libero a cavalcare con gli amici o dormire nelle praterie—libero dal fardello del matrimonio e della famiglia, che non penso abbiano mai fatto per lui.

Mi piaceva osservare mio padre agli eventi sociali. Era magnetico, sfuggente. Certo, potrebbe essere la parzialità di un ragazzino che osserva adorante un genitore, ma quando aveva addosso quella bolo tie io ci avrei giurato che era l'uomo più figo del mondo. Un figo che a volte giocava a hockey su prato con me e i miei amici. Il classico pagliaccio che si buttava a terra trascinando un giocatore della squadra opposta, che urlava frasi senza senso quando lo dribblavi. I miei amici lo adoravano. Era un uomo che dava e sapeva prendersi l'amore, che aveva tutta la vita sotto controllo, un modello per i suoi figli.

Ma questo lato di mio padre si manifestava solo raramente. Se penso a lui, la prima cosa che mi sovviene è di quando tornavo da scuola e lo trovavo addormentato sul divano e—a giudicare dai piatti sporchi, dalle briciole, dai mozziconi—sapevo che era lì da ore. Stava sempre cercando lavoro, e la ricerca durava ogni volta di più: poteva durare da qualche settimana a qualche mese. I suoi vestiti (spesso pantaloni del pigiama e maglietta) erano vecchi e sporchi, e la stanza era sempre meno un salotto e sempre più un monolocale piantato nel mezzo della casa. I miei fratelli e io strisciavamo in giro, annegavamo nel terribile silenzio dell'omertà, cercando di sentirci giovani e normali mentre eravamo terrorizzati all'idea di svegliare papà e scatenare la sua collera.

L'ira di mio padre mi scuoteva nel profondo ogni volta che vi assistevo. Vivevo nel terrore e al minimo segno del suo comparire tremavo. Era impetuosa, aggressiva e ipocrita. Una volta sveglio avrebbe trovato un bersaglio—che fosse uno dei miei fratelli più giovani, me o mia mamma—e gli avrebbe rovesciato addosso tutta l'ira per ogni minima violazione del suo codice etico fluttuante. In casa le regole continuavano a cambiare, perché non erano le regole la cosa importante. La cosa importante era avere un motivo per aggredire, per ridurre ciascuno di noi a un essere insignificante, quello che si sentiva di essere lui. Era un clima di violenza costante—fortunatamente non fisica, ma comunque distruttiva e crudele.

Quando ero piccolo, non capivo perché. Era semplicemente la mia vita—ogni giorno, la mia felicità era vittima dei suoi umori e delle sue pazzie. Un'instabilità di questo tipo è compromettente, quando sei un bambino. Non c'è un comportamento giusto da tenere, non puoi controllare la situazione e non hai vie di fuga. C'è solo un modo per sopravvivere, quello del roditore: resta piccolo, non farti notare, fai silenzio.

La bolo tie del padre dell'autore. Foto dell'autore. Non avevo idea che il comportamento di mio padre fosse dovuto a un problema con la droga. Ma lui si iniettava cocaina e questo stava distruggendo la sua vita, il suo matrimonio e stava facendo finire sul lastrico la nostra famiglia. Non avevo idea che il dolore e la confusione che provavo fossero comuni tra le persone che devono convivere con un tossicodipendente. I suoi cambi d'umore e quindi la mia confusione erano causati dall'assunzione e dall'attesa della droga. Forse è questo, in fondo, il modo in cui un tossicodipendente tradisce la sua famiglia: il dolore che infligge non è nemmeno il problema principale. È solo un effetto, un sintomo di una relazione d'amore più profonda, degradante. Ancora più pesanti erano i silenzi. A casa nostra non dovevamo fare rumore, regnava un silenzio vischioso che ci soffocava. Era un silenzio aggressivo, il contrappeso delle esplosioni di rabbia. Il mio silenzio, poi, era figlio dell'ira che bloccavo e rivoltavo contro me stesso, che deglutivo fin dentro le viscere. Il desiderio di svegliarlo e parlare con lui era sempre frustrato, e si risolveva in costanti pensieri sulla mia codardia. Ogni famiglia che deve fare i conti con la tossicodipendenza cerca di far finta che vada tutto bene, di mantenere una facciata di calma e serenità. Più il caos si fa profondo più stringi i denti e lo ignori, lo deridi, nascondi tutto il risentimento e la confusione sotto la superficie. È questa autocensura che rende parlare con mio padre così difficile e doloroso. Quanto a reprimere e dimenticare le cose che non voglio affrontare, sono un maestro. Il silenzio e la complicità sono proprio gli alleati su cui contano i tossici. È per questo che possono anche sbatterti in faccia la loro dipendenza. Sanno che c'è un tacito patto di non scatenare casini. A Natale di quest'anno ho visto mio padre e nemmeno lo riconoscevo. Lui e mia madre hanno divorziato. È diventato scarno e sembra sul punto di sgretolarsi. Le droghe si sono manifestate sul suo viso. Mio fratello, che vive ancora a casa, mi ha detto che ha cominciato a guardare mio padre come se fosse già morto, fatto non strano dato che sembra già un fantasma. Come con un fantasma, comunicare con lui è impossibile. Parliamo, ma è solo rumore che copre la domanda: perché? Cos'è successo? Mio padre non è mai stato un mago coi regali. Mi ha regalato biciclette rotte, "pagherò", sempre accompagnati dalla frase, "È il pensiero che conta." Il Natale prima non aveva fatto eccezione. Per il mio nipotino mio padre aveva portato una borsa di vestiti da bambina troppo piccoli e una palla sgonfia con i personaggi Disney che secondo lui era "d'antiquariato". Non ho mai visto un oggetto d'antiquariato con un codice a barre stampato sopra, ma potrei sbagliarmi. Per me, ha portato una scatola di seconda mano di colonia e dopobarba, che ho lasciato a casa sua. Quando sono tornato a casa poco tempo fa, mia mamma mi ha detto che aveva buttato quella scatola. Ma prima di buttarla, l'aveva ispezionata e aveva trovato qualcosa. Mi ha allungato la bolo tie di papà. L'aveva lasciata sul fondo. Mi sono sentito come se avessi trovato un messaggio in bottiglia. Mio padre, l'uomo che idolatravo, l'uomo che aveva giocato a hockey con me e i miei amici, mi stava parlando. Aveva trovato un piccolo buco nella fortezza del silenzio che si era costruito con le droghe e il dolore, e ci aveva fatto scivolare dentro un messaggio. E attraverso quel buco potevo spiare e vederlo, il cowboy sensibile e intelligente che il bambino dentro di me adorava, ancora a cavallo, ancora libero. E per un breve istante sono stato investito d'amore. Inizierò a portare quel cravattino. In onore di un uomo che ha cercato di fare del suo meglio ma non c'è riuscito, e della vita e dell'amore che avremmo potuto condividere. Segui Jordan su Twitter. Segui la nuova pagina Facebook di VICE Italia: