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Traini è stato condannato per strage, ma il clima intorno a noi è sempre più tossico

Nonostante il "ravvedimento" dello sparatore fascista di Macerata, i giudici l'hanno ritenuto responsabile di strage aggravata dall'odio razziale e condannato a 12 anni di carcere.
Leonardo Bianchi
Rome, IT
Luca Traini.

C’è da dire che in questi mesi ce l’hanno messa tutta per far trasformare Luca Traini in una specie di Nelson Mandela frainteso dal mondo intero.

Già nell’immediatezza della sparatoria, la tesi del “folle” è andata subito alla grande. Poi è venuto il turno della (inesistente) relazione sentimentale con Pamela Mastropietro, tirata in balla dalla segretaria della Lega della provincia di Macerata. Poi le interviste ad amici e conoscenti, che parlavano di uno che “ripeteva a pappagallo quello che sentiva dire a Matteo Salvini” ma alla fine era un “bravo ragazzo.”

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Certo, c'erano il gesto di avvolgersi in un tricolore dopo aver sparato, l’aver fatto il saluto fascista prima di essere preso dai carabinieri, la candidatura con la Lega a Corridonia (con zero voti), e le frequentazioni di circuiti neofascisti: ma una volta in carcere, gli articoli su Traini hanno assunto una piega da tabloid.

Traini accolto come un eroe (notizia poi smentita); Traini che fa amicizia con “detenuti di colore”; e infine, all’udienza conclusiva del processo di primo grado, Traini che si ravvede e consegna ai giudici una lettera strappalacrime in cui chiede scusa alle vittime, scrive “non sono matto né borderline, né razzista”, e spiega di aver voluto vendicare Mastropietro colpendo i pusher (che, come aveva detto in un interrogatorio, “non è colpa mia se sono tutti neri”).

Ieri, tuttavia, i magistrati della Corte d’assise non si sono lasciati abbindolare dal presunto “pentimento” di Traini e l’hanno condannato a 12 anni di reclusione per strage aggravata dall’odio razziale e porto abusivo d’arma.

Per qualche ora, se non altro, nei fatti di Macerata è tornato al centro l’elemento razzista. Ma la domanda principale—in attesa delle motivazioni—resta ancora senza risposta: cos’ha armato la mani di Traini? E cosa l’ha spinto a passare all’atto?

Ora, nessun “lupo solitario” è mai del tutto solitario. Secondo il giornalista inglese Jason Burke—riassunto da Valerio Renzi—“non si tratta di semplici squilibrati imbevuti di ideologia e odio, ma di soggetti che maturano le loro azioni all’interno di ambienti in cui alcune idee, espressioni e progetti hanno legittimità e trovano ascolto.” I lupi solitari, insomma, “non agirebbero se non avessero una rete di complicità, almeno ideologica, e un humus in cui trovarsi a proprio agio.”

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E a proposito dell’“humus”: nella sua lettera di dichiarazioni spontanee Traini torna più volte sui mass media, sostenendo di essere “destabilizzato dalle notizie di cronaca nera” legate agli stranieri e di aver agito per il “clima che si era creato con il ‘bombardamento’ di notizie sullo spaccio diffuso anche a causa dell’immigrazione.” E questo non è un particolare di poco conto.

Il racconto dell’immigrazione in Italia è lo stesso da circa trent’anni e ha un’unica gradazione: quella del “nero.” Oltre ai casi più eclatanti che generano “ondate emotive”, c’è anche quello che Valeria Lai chiama il “rumore di fondo” delle “small news”—cioè piccole notizie, soprattutto locali, che restituiscono “un’immagine dell’immigrazione come unicamente negativa”. La loro forza risiede nel fatto che “descrivono l’ambiente sociale nel quale vivono gli individui e si insinuano nella loro stessa quotidianità.”

Traini stesso, insomma, dice di essere stato “bombardato” dalle “small news” e “sconvolto” da un caso che ha generato un’intensa ondata emotiva. Ma i media, ovviamente, non possono essere l’unico fattore.

Le motivazioni di Traini sono sempre state plurime e più profonde—derivano, come hanno scritto Pietro Castelli Gattinara e Francis O'Connor, dal “contesto locale, dalla socializzazione in movimenti politici violenti, e da un discorso pubblico che enfatizza costantemente il collegamento tra l’immigrazione e le varie crisi italiane”.

Non si tratta di additare “mandanti morali” di sorta, quindi. Non si è mai trattato di quello.

Si tratta di riconoscere—cosa che nello sconvolgente dibattito pubblico successivo all’attentato non è mai stata fatta—che la questione è di sistema, e dunque molto più spaventosa dell’atto di un singolo: riguarda infatti il clima altamente tossico costruito non adesso, ma in svariati decenni di linguaggio disumanizzante e leggi infami.

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