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Come siamo finiti in questo casino europeo

A forza di parlare di Europa dei banchieri, golpe e ritorno alla Lira nessuno sembra ricordarsi com’è cominciata la crisi dell’euro. Per capirlo ho chiamato Stefano Feltri, autore del saggio La lunga notte dell’euro.
Leonardo Bianchi
Rome, IT

A mano a mano che si avvicinano le elezioni europee, è sempre più evidente come la campagna elettorale stia assumendo toni violentemente antieuropeisti. Oltre ai partiti minori (come Fratelli d’Italia o Lega Nord), il Movimento 5 Stelle è la forza politica che più di ogni altra è salita sulle barricate anti-euro per capitalizzare un sentimento ormai dilagante.

Nelle ultime settimane, ad esempio, sono usciti una serie di video che esplicano bene il senso dei grillini per l’Europa. Uno di questi è l’inno-capolavoro realizzato da alcuni attivisti, ritratti in un video mentre sbattono i pugni sui tavoli e promettono di lottare con tutte le loro forze “contro il diavolo” e il “dio denaro che ha corrotto le anime.”

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Un altro è lo spot ufficiale del M5S per le europee, in cui Beppe Grillo—con il solito stile sobrio—chiama a raccolta la ggente italiana: “Cambiamola questa Comunità, che diventi una Comunità vera e non un’unione di banche, finanziarie e di spread. Il 25 maggio non avete una penna in mano. Avete una bomba atomica.”

Insieme alla propaganda politica ci sono sia una nutrita schiera di “economisti alternativi”—che transumano da una trasmissione all’altra per dimostrare che l’euro è Il Male—che una sterminata quantità di libri e pamphlet a loro supporto.

Non sono passati nemmeno tre anni dalla caduta del governo Berlusconi, eppure la sensazione collettiva è quella di essere sempre stati in una situazione di emergenza e di disagio da cui è praticamente impossibile uscire senza uno strappo clamoroso. Sbattere i pugni su quel tavolo, appunto. 

Quello che si è perso, insomma—tra una tirata contro “l’Europa dei banchieri”, il desiderio assurdo di tornare alla lira e le più disparate teorie del complotto (ad esempio il fantomatico “golpe” contro Silvio Berlusconi)—è la ricostruzione dei passaggi che ci hanno portati a questo punto. Anche perché, come scrivono Alessandro Barbera e Stefano Feltri nel recente saggio La lunga notte dell’euro, “stabilire l’inizio della crisi europea – così come la sua fine – è più difficile di quanto si possa pensare.”

Per capire cosa sia successo nell’Eurozona in questi ultimi anni ho chiamato Stefano Feltri.

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Manifestazione del comitato 9 dicembre, Roma. Foto di Federico Tribbioli.

VICE: Nessuno sembra ricordarsi com’è cominciata la crisi dell’euro. Come siamo finiti in questo casino?
Stefano Feltri: Vanno sempre incrociati i due livelli, quello nazionale e quello europeo. A livello europeo succede che scoppia una bolla. Nei primi dieci anni dell’euro i mercati si erano convinti che i paesi fossero più o meno tutti uguali, e cioè che prestare soldi alla Grecia o all’Italia fosse rischioso come prestarli alla Francia o alla Spagna. Poi è venuto fuori che la Grecia ha truccato i conti, e questo dà la sveglia ai mercati. A questo punto cominciano a cambiare i costi di finanziamento dei vari paesi ed emergono le fragilità di fondo dell’euro.

A livello italiano, il governo Berlusconi era arrivato alla paralisi interna. Gli investitori stranieri, in un momento di panico e tensione, hanno cominciato a scappare dall’Italia. Questo è il contesto che c’è all’inizio dell’estate del 2011, quando il governo fa una manovra di bilancio che all’inizio viene anche presa bene, salvo poi accorgersi in Europa e sui mercati che un sacco di tagli sono solo annunciati e le riforme sono solo promesse.

Poi, il 5 agosto del 2011, arriva la famosa lettera all’Italia della Banca Centrale Europea.
Quella lettera è una delle cose di cui si è parlato di più ma che sono state spiegate meno. La versione che è passata è che in quel momento l’Europa ci commissaria e i cattivi, i burocrati di Bruxelles e Francoforte, scavalcano i politici democraticamente eletti.

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Noi abbiamo parlato con molti dei protagonisti di quella fase, e in realtà è successa una cosa completamente diversa. Nell’estate 2011 era già pronta l’operazione di un governo tecnico con Mario Monti, perché Berlusconi era inaffidabile e stava diventando un pericolo per l’Europa. Tra l’altro la Bce aveva già mandato una lettera simile a Spagna e Irlanda, che non era diventata pubblica. In Italia invece sì: la lettera viene usata dal governo Berlusconi come un’assicurazione sulla vita. Come fai, a quel punto, a cambiare un governo che ha appena fatto un’intesa con la Bce? Non si può. E infatti il governo tecnico viene congelato.

Quella lettera serviva a ottenere delle contropartite in cambio dell’aiuto della Bce. La Bce comprava sul mercato i titoli italiani e faceva scendere lo spread, e in cambio l’Italia si impegnava a fare riforme che avrebbero reso quel tipo di acquisto meno rischioso, poiché la Bce comprava quei titoli con i soldi di tutti gli altri paesi europei. Quindi era giusto chiedere delle contropartite.

Poi succede che il governo Berlusconi, che così guadagna un po’ di tempo, conferma di essere arrivato al capolinea. Si capisce che Berlusconi è completamente inaffidabile. Da Bruxelles, la Commissione europea fa partire un’altra lettera, a cui il governo risponde con degli impegni molto precisi che non riesce a mantenere.

Da qui si arriva al drammatico G20 di Cannes, in cui ci sono pressioni su Berlusconi perché accetti l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale. Berlusconi invece si rifiuta, e conferma di essere un interlocutore inutile per chi è preoccupato della tenuta dell’euro. Una settimana dopo il G20, con lo spread che arriva a 575 punti, Mario Monti viene nominato senatore a vita e, con il sollievo di tutti i partner internazionali, Berlusconi si dimette e arriva il governo tecnico.

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Non si può parlare di complotto internazionale, però quantomeno il contesto diventa molto più favorevole a una sua uscita da Palazzo Chigi.

A proposito di complotti. È chiaro che non c’è stato nessun “golpe” nel novembre 2011, come paventano Berlusconi e i suoi; ma le pressioni internazionali sull’italia sono state fortissime.
Certamente. La questione è che viviamo in un mondo che è fortemente collegato, e non si possono fare i danni a casa propria senza che ci siano ripercussioni all’esterno.

Gli Stati Uniti erano preoccupati perché Obama temeva che un peggioramento della crisi dell’euro avrebbe complicato la sua rielezione; le banche erano preoccupate perché dovevano tutelare i loro interessi; e il caso italiano stava dimostrando che il livello europeo non era in grado di condizionare le scelte di politica economica dei singoli governi. Questo metteva in crisi l’Unione Europea come soggetto collettivo e come progetto.

Ovviamente non ci sono stati degli incappuciati che si sono trovati a un tavolo e hanno deciso di far fuori Berlusconi. Si è semplicemente creato un contesto per cui, per il bene di tutti, era meglio che Berlusconi se ne andasse e che ci fosse un governo tecnico. In tanti volevano anche che ci fosse la Troika, cioè che la politica italiana venisse completamente esautorata.

Portogallo. Foto via Flickr/caratello.

Ecco: perché in Italia, a differenza di Portogallo, Irlanda e Grecia, la Troika non è mai arrivata?
Fondamentalmente perché Mario Monti ha fatto una scelta da un lato coraggiosa, dall’altro inevitabile. Coraggiosa perché ha detto che era meglio che l’Italia provasse a farcela da sola, perché mettersi sotto la “tutela” della Troika avrebbe sicuramente alimentato sentimenti antieuropei. Monti inoltre aveva un mandato per un anno, e la scelta di optare per la Troika avrebbe vincolato il paese per molti anni a venire.

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Avendo visto com’è umiliante vivere sotto la Troika, secondo me questa scelta è stata tutto sommato giusta. Ma ha avuto un effetto negativo, nel senso che a quel punto il risanamento doveva essere fatto rapidamente e con l’unico modo in cui si può agire in breve tempo—cioè dal lato della tasse.

Il bilancio, comunque, è ancora un po’ presto per farlo. I paesi che hanno avuto la Troika ora stanno tornando a finanziarsi sui mercati internazionali a tassi d’interesse abbastanza bassi, e crescono leggermente più di noi. Questi stessi paesi, però, hanno tassi di disoccupazione elevatissimi e sperimentato enormi disagi. Di sicuro quella di Monti non era una scelta facile.

Andiamo un attimo fuori dall’Italia per vedere com’è stata gestita la crisi dell’euro. Una cosa che si tende a dimenticare (o a non sapere) è che all’inizio della crisi l’Unione Europea non aveva strumenti giuridici che permettessero di intervenire sui paesi in crisi. Com’è ora la situazione, invece?
La crisi ha fatto da acceleratore, ha cambiato tutto. Siamo arrivati a un livello di coordinamento delle politiche economiche impensabile fino a qualche anno fa. Ormai Bruxelles ha, di fatto, la prima e l’ultima parola su tutte le scelte che contano in materia economica. Questo è un passo impegnativo, ma forse inevitabile, se si vuole costruire un’Unione economica e monetaria che funzioni.

Un altro passaggio decisivo, che era quello di mettere tutte le banche sullo stesso livello e con le stesse regole, è in corso di realizzazione con l’Unione bancaria: anche questo è un passaggio enormenente importante.

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E i problemi?
I problemi sono sostanzialmente di due tipi.  L’austerità a livello nazionale ha un senso e funziona solo se è compensata da un “keynesismo” a livello europeo: si taglia nei singoli paesi, ma poi l’Europa si occupa di mettere le basi per una crescita futura con gli investimenti. Questo invece per il momento non succede.

Il bilancio europeo è rimasto microscopico e continua a prevalere la mentalità tedesca, per cui tu l’austerità la devi fare per espiare i peccati del passato. Invece bisognerebbe guardare al futuro: si fa l’austerità per ridurre gli eccessi del passato e sopratutto per mettere le basi per una crescita più equilibrata. In realtà, ora si stanno cercando di ridurre gli errori del passato e basta. E questo è molto pericoloso, perché dal punto di vista politico si crea il consenso per i movimenti populisti (che spesso sono di estrema destra), e dal punto di vista economico non c’è un gran miglioramento.

Mario Monti, Mario Draghi e Angela Merkel, 2012. Foto via Flickr/European Council.

Cos’è cambiato a livello di governance europea in questi anni?
Durante la crisi la Commissione europea ha praticamente perso tutto il suo potere. Le decisioni più importanti sono state prese dal Consiglio europeo che, seppur formalmente sovraordinato alla Commissione, è la somma di interessi nazionali dove vince il più forte—cioè la Germania. Se tutto passa dal Consiglio vuol dire che noi subiamo le decisioni prese da qualcuno nel suo interesse nazionale.

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In tutto ciò la Banca Centrale Europea sembra aver colmato il vuoto della politica comunitaria e nazionale.
Viene da dire “per fortuna”, perché se non ci fosse stato Draghi le cose sarebbe andato anche peggio. Formalmente la Bce non ha assunto nuovi poteri. Ha però dato un’interpretazione più estensiva al suo mandato. Se questo però si amplia, e la legittimità democratica rimane la stessa—cioè poca—allora si pone un problema.

Per spiegarla in parole povere: la Bce, che si è sempre preoccupata dell’inflazione, durante la crisi si è occupata della stabilità del sistema finanziario. Questa funzione era già nel suo mandato, ma era un problema che non si era mai posto prima. In nome di questo ha deciso che di comprare titoli di stato, supervisionare le banche e dettare la politica economica ai singoli stati. Il vero problema è che ora la Bce rischia di avere troppi obiettivi per riuscire a raggiungerli tutti nello stesso momento.

La Bce deve dare liquidità alle banche nel caso in cui entri in difficoltà tutto il sistema, ma contemporaneamente deve chiudere le banche che non meritano di rimanere aperte. Questo complica le cose, perché se c’è una grossa banca che va in seria difficoltà, con quale parte del cervello ragionerà la Bce?

Proteste a Madrid, marzo 2013. Foto via Flickr/Popicinio.

Il dibattito sull’entrata in vigore del Fiscal Compact (o di altre misure più o meno analoghe, come il Six Pack o il Two Pack) è stato praticamente inesistente, mentre la discussione ex-post è piuttosto vivace, anche se è arrivata troppo tardi. Come mai?
I parlamentari e le forze politiche semplicemente non le hanno capite e non le hanno studiate. Nel 2012, inoltre, c’era un clima di emergenza per cui sembrava quasi inopportuno fare domande.

Io credo che tutta l’attenzione sul Fiscal Compact sia esagerata, perché il Six Pack impone circa gli stessi requisiti, soprattutto di riduzione del debito. Tra l’altro, il Six Pack non si può rinegoziare, poiché è un regolamento europeo e come tale va rispettato. Il Fiscal Compact è un facile bersaglio, perché nessuno ha capito che i calcoli sulla riduzione del debito sono complicatissimi. Non è nemmeno vero quello che dicono i grillini sul taglio di 50 miliardi all’anno: ci sono delle formule che alla fine portano a 3-4 miliardi all’anno di correzione strutturale.

Se da un lato c’è una selva di norme e regolamenti che bisogna studiare, dall’altro il rischio di confondersi tra tutte queste misure è altissimo.
Infatti bisogna cambiare prospettiva. È inutile continuare ad appassionarci alle spaccature tra Forza Italia e Ncd, perché non contano più niente. Bisogna ragionare molto di più sulle divisioni tra Consiglio e Commissione. La politica che conta non è più quella che si fa a Roma, ma è quella che si fa a Bruxelles e Francoforte. Prima lo capiamo, prima abbiamo la possibilità di essere protagonisti in questa storia, invece di fare i comprimari e lamentarci soltanto.

Ora che la situazione finanziaria di alcuni paesi dell’Eurozona (es. Grecia, Portogallo) sembra essere leggermente migliorata, seppur con costi sociali elevatissimi, non dovremmo cominciarci a preoccupare del deficit democratico di questi paesi o della stessa Unione Europea?
La Troika sicuramente non fa bene alla democrazia. A prescindere dai risultati degli indicatori economici, un paese che si trova in casa una specie di “governo occupante” non ne riemerge tranquillo e sereno, e la popolarità dei movimenti populisti ne è la conferma.

L’economista tedesco Claus Offe dice, giustamente secondo me, che è finita la fase del benign neglect, cioè del consenso delegato in bianco. Per anni gli elettori hanno detto: "Fate quello che volete dell’Europa, non ci interessa." Adesso gli elettori dicono: "Ci siamo anche noi e vogliamo essere coinvolti." Questo costringe chi decide il futuro dell’Unione a considerare che ci sono anche delle opinioni pubbliche e che c’è la democrazia.

Non si può più ricondurre tutto alla politica nazionale. Bisogna portare la politica europea a essere parte di quello di cui ci occupiamo tutti i giorni, e non a essere soltanto una cosa distante di cui non ce ne frega nulla.

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