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Come andrebbe affrontata la "crisi migranti" secondo chi la studia e vive da anni

Facendo praticamente tutto il contrario di ciò che facciamo ora.
Immagine via VICE News - Lifeline: Refugees at Sea.

Lo scorso 2 febbraio, l'Italia ha firmato con la Libia un Memorandum d'intesa sui migranti avente l'obiettivo di ridurre i flussi migratori dalle coste libiche a quelle italiane. Per l'occasione, il governo italiano si è impegnato a fornire nuovi aiuti alle autorità libiche che gestiscono l'immigrazione. Non si tratta ovviamente di una notizia particolarmente nuova: accordi del genere esistono con molti dei paesi protagonisti dei flussi migratori, e quella del 2 febbraio è l'ultima di una lunga serie di iniziative congiunte tra l'Italia e la Libia.

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Quel che è certo, è che il Memorandum non parte con i presupposti migliori. Se da una parte lo stesso Gentiloni lo ha definito "solo un pezzo del progetto che dobbiamo sviluppare", l'accordo presenta diversi punti non chiari e la sua stessa costituzionalità sembra essere in dubbio. Un gruppo formato da giuristi, ex politici e intellettuali libici ha infatti presentato un ricorso alla corte d'appello di Tripoli, nel quale dichiara il documento incostituzionale. E anche da noi non sono mancate le voci che vi idividuano punti di contrasto con la Costituzione italiana. Tra le voci critiche ha avuto particolare risonanza quella di Gabriele Del Grande, giornalista e regista che da anni studia la crisi dei migranti nel Mediterraneo, documentata nell'osservatorio sulle vittime di frontiera Fortress Europe. In un post su Facebook pubblicato dopo la siglatura dell'accordo, Del Grande ne criticava non tanto il contenuto, quanto l'approccio. L'ho contattato per parlare delle politiche attuali, di globalizzazione e di possibili soluzioni a un fenomeno che nel 2016 nel Mediterraneo è costato la vita a circa cinquemila persone.

VICE: Nel commentare il Memorandum tra Italia e Libia ti sei rivolto a Gentiloni, dicendogli che sta "andando nella direzione sbagliata." Mi spieghi cosa vuol dire?
Gabriele Del Grande: Vuol dire semplicemente che da vent'anni a questa parte si sbaglia completamente la mira, si cerca una soluzione pur non avendo chiaro quale sia il problema. Per essere più specifici, si pensa che si possa risolvere il problema dell'immigrazione fermando gli sbarchi—ma gli sbarchi non sono la causa dell'immigrazione, sono la conseguenza delle politiche sui visti.   È dal 2003 che si stipulano accordi con la Libia—con il Governo Berlusconi, con quello Prodi, di nuovo con Berlusconi, e avanti fino a oggi. Praticamente ripetiamo le stesse identiche politiche pur vedendo che non funzionano. È fantascienza pensare che nel mondo globalizzato un intero continente, l'Africa, venga tenuto fuori dal mercato della mobilità.

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Come credi che bisognerebbe agire?
Bisognerebbe affrontare il problema là dove nasce: dall'assenza di vie legali di spostamento, ovvero dal fatto che nel continente africano e in altre zone di guerra non vengono rilasciati i visti. Finché questo non avverrà, mi sembra naturale che ogni anno avremo decine, se non centinaia, di migliaia di persone che per spostarsi, non potendo rivolgersi alle ambasciate, andranno a parare sul contrabbando. È dagli anni Ottanta che si cercano di fermare i flussi migratori dall'Africa, ma quando si chiude una rotta se ne riapre un'altra. Non si risolve così il problema.

Quindi l'unico modo per affrontare il problema della migrazione credi sia quello di rilasciare visti?
Sì, inventare nuove forme del rilascio di visti in modo che chi vuole andarsene fa un biglietto, prende un aereo e lo fa—smantellando in questo modo anche a valle il circuito dell'accoglienza che in buona parte dei casi non funziona. Quando tu pensi che uno arriva a pagare tre-quattromila dollari per andare dalla Nigeria a un paesino in provincia della Sicilia e che con quei soldi potrebbe benissimo pagarsi un biglietto, capisci quanto tutto sia assurdo. Serve un cambiamento radicale nel modo in cui vediamo l'immigrazione: si tratta di un fenomeno del tutto naturale, in un mondo che è diventato sempre più piccolo. A riguardo, credo che anche il messaggio che la stampa fa passare sia sbagliato.

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In che modo?
Il concetto che bisogna far passare è che l'immigrazione nel mondo di oggi non è una cosa legata alla miseria o alle crisi, piuttosto è un fenomeno naturale che rappresenta una parte integrante del mondo in cui viviamo. In Italia ci sono circa 5 milioni di immigrati, e in altri paesi i numeri sono ancora più ampi: viviamo in un mondo globalizzato in cui si viaggia e si cerca la propria fortuna dove si crede. Solo che alcuni passaporti ti aprono la strada, altri te la chiudono.

La stampa in generale non passa una rappresentazione del viaggio e della mobilità come un qualcosa che fa parte della normalità di oggi. C'è questa retorica per cui i migranti che vengono da una certa zona scappano necessariamente dalla fame, dalla disperazione. In alcuni casi è così, in altri no. Per tre quarti dei casi è una migrazione economica. Io non ci vedo niente di strano nel rivendicare il diritto alla mobilità, al viaggio, esattamente come lo esercito io lo può fare un mio coetaneo che abita da un'altra parte del mondo. Mi sembra l'unica idea sensata che possiamo portare avanti oggi, quella di ergere muri è completamente anti-storica.

Credi che la gente accetterebbe questo tipo di narrativa? Non pensi che ci sia il rischio che si rifletta in una ulteriore chiusura, dettata dalla volontà ancora più accentuata di difendere ciò che si ha?
Io ho paura dell'immediato, ma sono molto ottimista sul futuro. Credo che il razzismo sia destinato a scomparire, siamo sempre più contaminati e lo saremo sempre di più, non importa quanto proveremo a fermare questo processo. Mi sembra che il mondo stia andando verso una situazione diversa, ci sono milioni di persone legate a più continenti—anzi tutto il mondo, anche soltanto culturalmente.

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Si tratta di un tema difficile ed è ovvio che non tutti siamo pronti ad accettare soluzioni del genere, eppure molte persone si rendono conto sempre di più di quanto assurda sia la situazione. In Europa milioni e milioni di famiglie si imbattono direttamente in questo problema: dalle coppie che organizzano un matrimonio a Londra e metà della famiglia non può partecipare perché non rilasciano visti, a molti altri casi del genere. Moltissime persone sono coinvolte in questo fenomeno. Credo che ci si renda conto, seppur gradualmente, che proprio dal punto di vista pragmatico sarebbe bello se venissero attuate politiche diverse.

E credi che ci sia, anche se ancora abbiamo visto che non si è riflettuta nei fatti, una graduale presa di coscienza di ciò da parte della politica?
Come su moltissimi altri temi, se non tutti, credo che ci sia un ritardo storico della politica: in un mondo che cambia molto velocemente, la politica capisce in ritardo come quel mondo sta cambiando.

Eppure, anche a livello politico, ci sono molte evidenze del fatto che la soluzione risieda in una maggiore apertura e non in politiche di controllo. 
Certo. L'Europa è il primo esempio positivo, nel senso di libera circolazione. Facciamo un paragone tra reddito e condizioni lavorative che ci sono nell'Europa del sud e quella del nord, o in quella orientale e occidentale. Anche in questi casi i dislivelli sono enormi, eppure appare palese che un sistema liberale basato sulla libertà dell'individuo è in grado di gestire i flussi migratori.  Funziona. Parliamo di milioni di persone che si spostano in modo autonomo e circolare, grazie alle stesse identiche politiche che esistono nell'America Latina, negli Stati Uniti, nell'Africa Occidentale—che tra l'altro mostrano che la migrazione mette in moto anche dinamiche di crescita economica. Si tratta di politiche che non danno luogo ad alcuna invasione: guarda cosa è successo con l'Albania, viaggiavano sui barconi e pareva un'invasione, viaggiano sugli aerei e tutto si è regolarizzato.

Perché credi che, nonostante le evidenze siano così palesi, ci si ostina ad andare in tutt'altra direzione?
Ci sono diversi fattori, e uno è sicuramente il razzismo: si sperimenta più volentieri con gente bianca non musulmana che con gente nera e musulmana. Si cerca il colore della pelle della propria gente. Poi c'è il fattore di separazione, una narrazione del mondo per cui l'Africa fa paura, è il continente della miseria, dei disastri. Da lì arriva la minaccia—nel racconto collettivo l'Africa è quella cosa lì. Se riuscissimo a cambiare questo racconto e mostrassimo altre cose magari la situazione sarebbe completamente diversa.

Quindi, per concludere, secondo te è corretto parlare di "crisi dei migranti"?
Credo che sia corretto e incorretto allo stesso tempo. Una crisi che dura venti anni è difficile definirla una crisi, allo stesso tempo però queste politiche ne generano di fatto una: se ogni giorno ci sono migliaia di persone da salvare in mare, nella gestione quotidiana c'è una crisi.

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