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I giornalisti del Corriere e le canne: una storia triste

Sulla scia del dibattito "giovani e droghe in Italia" Il Corriere della Sera ha deciso di inaugurare uno speciale che avrei preferito non leggere.
Niccolò Carradori
Florence, IT

In questi giorni mi sono reso conto di una cosa: non è vero che i nostri giornalisti sono incapaci di creare dei modelli di comunicazione originali. Negli ultimi anni abbiamo messo a punto un filone giornalistico piuttosto solido: quello della "narrazione della buonanotte".

Un approccio all'analisi del reale che ricalca sommariamente il leitmotiv delle fiabe che mia madre mi leggeva la sera per farmi addormentare: "Va tutto bene, è tutto a posto. Avere paura, e rifiutare quello che ti spaventa della vita, è cosa buona e giusta. Il piccolo mondo in cui vivi non ti crollerà attorno solo perché non lo capisci."

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La narrazione della buonanotte viene applicata a un gran numero di questioni nel nostro paese, e una di queste, per di più particolarmente florida, è il rapporto droga/giovani. Negli ultimi giorni si è riaccesa per il caso dell'adolescente di Lavagna, suicidatosi dopo una perquisizione antidroga svolta dalla Guardia di Finanza nella sua abitazione.

Sulla scia del dibattito "giovani e droghe in Italia"—costellato da editoriali su adolescenti "dentro una nuvola di spinelli" e "guide ai genitori"—Il Corriere della Sera ha deciso di dedicare uno speciale al tema. Si intitola "Gli adolescenti e le canne", e racchiude una serie di pezzi già pubblicati in passato, che vengono riproposti in gruppo proprio adesso e che letti uno di fila all'altro mi hanno gettato in un profondo stato di angoscia. Non tanto per i giovani e le canne, ma per l'ennesima dimostrazione del livello del dibattito sulle droghe leggere in Italia.

Lo speciale del Corriere è un vero e proprio compendio della narrazione della buonanotte, perché rappresenta praticamente tutti i suoi sottogeneri: c'è l'introduzione indulgente e dal tono gravoso del giornalista benpensante e bonario; la presa di coscienza del tipo "la situazione è più grave di quello che credete, e si sta verificando sotto ai vostri occhi"; l'intervento della terapeuta che si confronta con il problema tutti i giorni e sa di cosa parla; la testimonianza di una madre che è scampata all'adolescenza delle proprie figlie; la testimonianza della donna con un passato turbolento che si identifica ma che è finita nello stesso limbo di paure una volta diventata madre; e la chiosa del j'accuse dolente, che tenta di fare autocritica.

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Il primo articoletto—Se la scuola è la prima piazza di spaccio—è il più tradizionale e indicativo, perché è pensato per chiarire quello che i genitori terrorizzati non sanno del mondo della droga, ma fornisce solo informazioni che permettono di rimanere disinformati e confusi, accrescendo le loro paure. Si descrivono le retate dei carabinieri nelle scuole come dei blitz nelle piazze di spaccio di Scampia, si definiscono gli spinelli come "la droga di entrata" verso altre sostanze che "modificano il dna", e si racconta la storia di "un ragazzo che dopo aver fumato chissà cosa camminava sui tetti delle auto."

È un'analisi paradossale, perché grottescamente indicativa di quanto chi si impegna nella descrizione di un problema, sia molto meno informato e consapevole dei "giovani" a cui sta tentando di praticare una diagnosi. Informarsi su questioni come la legislazione sulle droghe leggere nel nostro paese, le conseguenze del consumo di cannabis, e la diffusione delle sostanze tra i giovani è possibile se si affronta la questione da una prospettiva orizzontale. Che sia in comunicazione diretta e non surrogata con la realtà.

Dopodiché, nello speciale del Corriere, vengono le testimonianze dirette di genitori ed esperti, pronte a restituire l'idea di un vuoto incolmabile tra giovani e adulti (che pure a un certo punto devono essere stati giovani, credo). C'è la psicologa che descrive un clima di completa incomunicabilità, la madre che racconta la sua esperienza di concessioni e paure con le figlie—"sappiamo che [una delle figlie] ha fumato qualche canna; sappiamo che ci sono state feste in cui ha bevuto troppo, sappiamo che la sera si fa riportare a casa da amici neopatentati e sappiamo che comunque non potremmo mai dirla in salvo"—e la donna che ne ha passate tante ma che adesso ha capito che "non bisogna seguire il branco ed emulare i comportamenti degli altri a prescindere dalla propria sensibilità. Non omologarsi verso gli atteggiamenti più pericolosi, 'perché così fan tutti'."

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Questi tre articoli rappresentano un altro aspetto fondamentale di questa tipologia di giornalismo: l'autoindulgenza. Comunicano che rimanere atterriti e immobili di fronte a certe questioni—asserragliati nella propria ignoranza e nell'istinto conservatore—è cosa buona e giusta. Il fatto stesso che un adulto provi ansia e si preoccupi basta e avanza per giustificarlo a credere in un mondo che non esiste.

Questo messaggio vorrebbe essere messo in discussione dall'ultimo articolo incluso nello speciale: una lettera indirizzata all'adolescente di Lavagna, che tenta di riflettere sul bigottismo e sulla smania di giudizio dei nostri tempi. "Di certo c'è solo che se ti ha accolto Caronte non è stato per quei 10 grammi di fumo che ti hanno trovato nello zaino mentre uscivi da scuola. Sì lo so che ti hanno fatto credere così. […]  A spingerti giù da quella maledetta finestra è stato il timore del giudizio altrui che dopo la perquisizione sarebbe rimasto per sempre tatuato sulla tua pelle come un marchio a fuoco."

Il risultato però è quello di immobilizzare ancora di più la questione, perché non si genera alcun tipo di consapevolezza. Il problema non è tanto il "peso del giudizio altrui"—specie se questa presa di posizione arriva alla fine di una serie di articoli che in parte lo giustificano—ma il clima di intolleranza che genera quel giudizio, e di cui si fa una menzione superficiale.

Così, alla fine di questo lungo speciale del Corriere sulle canne il dibattito non ha fatto un solo passo in avanti: né di coscienza—i genitori sono preoccupati tanto quanto lo erano prima—né di riflessione. È questa la forza della narrazione della buonanotte: autoalimentare all'infinito il bisogno di rassicurazione di chi non sa niente.

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