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Mare, sesso e schiavitù: la realtà del lavorare sulle navi da crociera

Come ci si procura un lavoro da 13 ore al giorno in una situazione di sovraffollamento, per 1.000 euro al mese e tanto sesso quanto uno è disposto a sopportare.
Tutte le foto di Chloe Orefice.

Nel Ventunesimo secolo, la Legione straniera non ti assolve più da tutti i tuoi crimini in cambio della fedeltà al chepì. Ma esiste ancora una scappatoia dalla civiltà, e si chiama "prendere il mare." Per come la vedo io, le navi da crociera sembrano l'ultimo posto rimasto oltre i confini del nostro mondo iperconnesso—un luogo in cui non ci si costruisce solo una carriera, ma uno stile di vita.

Avevo ragione a vederla in modo così romantico, o la mia era solo la mitizzazione di un idiota? Rappresentavano, almeno, un'alternativa a un mercato del lavoro sempre più tossico? O era solo una vita noiosa, un universo galleggiante pieno di americani grassi e pensionati scortesi?

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Per scoprirlo, sono andato a un evento di settore.

LA FIERA

La mia guida, il mio punto di riferimento alla Cruise Ship Jobs Fair di Londra, sarà Steve Weller. Steve ha imparato ad amare la terraferma dopo aver passato quasi dieci anni a lavorare sulle navi come animatore. Oggi ha una sua agenzia, la jobsonaship, attraverso la quale aiuta i candidati a procurarsi un lavoro da 13 ore al giorno in una situazione di sovraffollamento, per 1.000 euro al mese e tanto sesso quanto uno è disposto a sopportare.

Al mio ingresso, però, riconoscere questi futuri stalloni non è facile. Ci sono un sacco di ragazzi alla loro prima uscita in completo (e azzardate combinazioni nero-blu) e ragazze con le borse Michael Kors e vestiti che coprono strategicamente i tatuaggi. Ognuno ha tra le mani un plico di CV. Nel giro di mezzora la coda si allunga a dismisura—c'è cinque volte più gente di quando sono arrivato. Un'altra mezzora e il pubblico è letteralmente raddoppiato: gli organizzatori si aspettano 4.000 candidati.

"Quanti di questi usciranno da qui con un lavoro?" chiedo a Steve.

"Uno su cinque, più o meno. Il 20 percento non è semplicemente abbastanza qualificato, e il 15 percento è troppo qualificato. E di quelli che restano, tanti se ne andranno a mani vuote perché i candidati superano in numero i posti disponibili."

Più o meno a metà della fila c'è un ragazzo sulla ventina coi capelli rossi a spazzola. È con gli amici, ed è qui per far fruttare le sue capacità di musicista. Sei mesi fa ha avuto la fortuna di ottenere un posto su una crociera per il Giappone, ma a lavoro finito si è ritrovato daccapo. "Il segreto è parlare con tutti," mi dice. "Devi farti un sacco di contatti."

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A uno stand poco più avanti, una ragazza in un abito rosa Barbie si candida per fare la croupier. Arriva da Leeds e per essere qui si è svegliata alle 6 di mattina. "Ho da poco rotto col mio ragazzo, quindi ho pensato, 'Perché no?' Adoro viaggiare."

Che viaggi ha fatto?

"Io? Solo Spagna e Portogallo per ora."

TOPOLINO

La fila più lunga di tutte è quella per le crociere Disney.

Perché?

"Perché conoscono il nome?"

Nonostante la coda, la Disney occupa una piccolissima porzione del mercato. In un giro d'affari da 22 milioni di passeggeri, tre compagnie controllano l'80 percento del settore. La sola Carnival ha il 47 percento. Delle altre due, la Norwegian rappresenta il 10 percento, e la Royal Caribbean il 23. Agli altri restano praticamente le briciole.

Questo, tecnicamente, dà alle grandi tre sufficiente potere per fissare i prezzi. Si dice che la Carnival in particolare abbia un monopolio, ma sono voci. "C'è chi dice che in pratica sia un cartello," mi spiega Steve. "Ma io non ho prove. La Carnival controlla P&O, Cunard, Costa, Princess e altre. Ma da quello che vedo mi sembrano gestite tutte in maniera separata rispetto alla compagnia centrale."

IL COPIONE

Che sia vero o meno questo dettaglio sul mercato, una crociera è meno costosa di quanto pensiate. Con circa 550 euro a settimana—ovvero nulla di più di un normale hotel— hai diritto alla tua cabina, a tre pasti al giorno, all'intrattenimento gratuito e al viaggio.

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Ma c'è anche una piccola fetta per cui le cifre sono molto più alte. Steve fa l'esempio dell'americana Seabourn, una compagnia extra lusso in cui "i dipendenti devono imparare i nomi dei passeggeri. E ti parlo di 800 persone a viaggio." Poi indica i candelabri dello stand della UniWorld, che si occupa di crociere sui fiumi. "Gran bella roba, questi qui. Hanno una camera diversa dall'altra."

"Quello fluviale è un settore in espansione. Quando vengono in Europa, ci sono tanti americani che vogliono percorrere più tratte possibili nel minor tempo possibile. E spostarsi tramite i fiumi ti dà la possibilità di arrivare nel cuore della città." Mentre parla, immagino la frontiera successiva del salva-tempo: una nave anfibia che risalendo il corso sotto Ponte Vecchio lascia l'acqua per portare i passeggeri al Duomo e direttamente agli Uffizi per aiutare i turisti nel loro viaggio fotografico. Chi sarebbe in grado di resistere, del resto?

Quel giorno però la compagnia più prestigiosa di tutte non assume. The World è stata fondata nel 2002, e da allora solca i mari di mezzo mondo. Ha 165 cabine di proprietà dei clienti, che ci vivono direttamente. Lo staff è composto da 300 persone, tante quante i suoi passeggeri—tutti individui ricchissimi il cui unico contributo alla realtà sembra essere dato dalle riunioni in cui decidono la meta successiva.

Mentre Steve spiega, io rifinisco i dettagli del mio pitch immaginario. "È Lost + High Rise + Speed 3: Cruise control." Iniziamo con 10 episodi, e dentro ci buttiamo un enigma. Ci saranno tanti colpi di scena, ma niente di eccessivamente cerebrale. E un sacco di sesso. Di gusto, sia chiaro. Sì capezzoli, no peli pubici. Penso a Milla Jovovic e Chris Pratt come attori protagonisti.

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Ma ci sono un sacco di storie di persone che vivono sulle navi da crociera—coppie di pensionati che decidono di andare a finire lì i loro giorni. Quando la Queen Elizabeth II ha terminato il servizio, con lei è terminato anche il decennio che una signora aveva trascorso in una delle sue cabine. Aveva continuato anche dopo la morte del marito, avvenuta per infarto a bordo di una nave che aveva appena lasciato il porto di Mumbai.

L'INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELLA CROCIERA

Nel frattempo la pila dei CV depositati agli stand è sempre più alta. Ci spostiamo tra banconi che offrono assaggini e gadget—mentine, penne, beccucci per il vino, fischietti, specchi brandizzati. La lista delle posizioni aperte è ampia. Animatori. Istruttori di tennis. Fotografi. Ballerini. Addetti Spa. Conferenzieri.

Osservo le facce intorno a me: tra tutti i 23enni c'è anche, sorprendentemente, qualche persona di mezza età. Una signora thailandese sulla quarantina lascia i suoi dati allo stand della Holland America. "Ho pensato di fare un tentativo," dice. "Ho pensato di provare a vedere cosa succede fuori dall'Inghilterra, no?"

Un uomo di Trinidad di più di quarant'anni mi dice che spera di diventare un addetto alla reception. "Ci sono un sacco di crociere nei Caraibi," mi spiega. "Io ne ho fatta qualcuna, e sono… una bella esperienza."

Bella o brutta che sia, non posso fare a meno di pensare che arrivato a una certa età non puoi che iniziare a sperare di essere troppo preso con la vita, gli impegni improrogabili e le persone per poter partire per un anno e non mancare a nessuno.

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La crociera potrebbe essere un po' l'incarnazione della distinzione di Kundera tra una vita di leggerezza e una di pesantezza: tutti in un modo o nell'altro agogniamo la libertà, ma nel profondo desideriamo essere vincolati ai nostri beni e alla nostra comunità. Il mare è una scappatoia, una via d'uscita. Finché sei immerso in questa coincidenza galleggiante, in questa isola che non c'è, ciò che sei nel mondo reale può essere temporaneamente messo da parte.

Steve ha un approccio molto più pratico: "Le compagnie preferiscono dipendenti giovani," mi dice. "Non è solo una questione di salute. Ma anche di vita sociale. Quando sei in mare non puoi tirarti indietro, devi adeguarti. E per una persona adulta può essere più difficile."

SCAPPATELLE

Già, la vita sociale. "Quando sei lì, ogni sera è venerdì sera, e ogni mattina è lunedì mattina," mi dice Steve—e mi diranno anche altri nel corso della giornata. Le stanze del personale di bordo sono una specie di serra, con tutte le amicizie e le rivalità che si accendono a velocità sostenuta come in una società in miniatura. "Su una nave puoi avere anche 500 dipendenti. Quanti compleanni al giorno fa?"

"1, 39," dico avvicinandomi di molto alla risposta giusta.

Nel suo Cruise Confidential, Brian David Bruns si concentra sulla questione dello scambio culturale. "Quando navighi è quasi un affronto frequentare qualcuno del tuo stesso paese," scrive Bruns. "Tutti vanno con tutti." E il fatto che le cabine ospitino più persone non sembra affatto un impedimento. In questa atmosfera da locale caldaia, le relazioni nascono, si sviluppano e muoiono nel giro di poche settimane.

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Il piacere più grande—ma anche il tabù principale—è dato dal varcare la soglia del rapporto tra cliente e dipendente, uno scambio di fluidi che espone la compagnia a possibili azioni legali. "Se ti beccano ti lasciano al primo porto," commenta Steve.

Bruns racconta invece:

"Ho incontrato tante donne che sono finite a letto con gli ufficiali nella speranza di ricavarne qualche vantaggio, una promozione. E per promozione generalmente intendo passare a un lavoro fisicamente meno provante (diciamo da cameriera a hostess. Meno soldi, ma vita più semplice)."

"Potrebbero arrivare a condividere una cabina un po' più confortevole con l'ufficiale e magari percepirsi a un grado più elevato rispetto ai propri pari, ma niente di più. Gli ufficiali hanno una specie di regola: mollano l'amante quando tornano a casa dalla famiglia, e se ne trovano un'altra con l'inizio del nuovo contratto."

Ma Steve non si sbottona, e accenna solo vagamente a "qualche avventura" collocata in "altri tempi."

CAPITANO, O MIO CAPITANO

Ma per tutte le possibilità di frequentazioni con persone diverse da te, c'è anche l'aspetto molto meno esaltante e positivo dell'apartheid economico. Nel Ventunesimo secolo, le imbarcazioni sono un grafico del PIL globale in miniatura. Filippini e bengalesi vivono ai piani bassi, a sminuzzare verdure e lavare piatti fino allo sfinimento. Non vedono quasi mai la luce del sole, e lavorano tutti i giorni. Eppure la paga riflette quella del paese di origine: molto spesso, appena un dollaro l'ora. A un gradino più alto ci sono gli est-europei, e in cima gli occidentali, dall'animazione alla cura della persona fino alle cabine di pilotaggio e l'amministrazione.

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Anche il turnover è altissimo. All'inizio Steve non riusciva a sopportare la vita in mare. Ha lasciato il lavoro dopo il primo viaggio, per poi tornarvi due anni dopo. Spiega che uno dei metodi per separare subito quelli che ce la faranno dai semplici curiosi e gli inadatti è il corso obbligatorio a cui tutti i futuri dipendenti sono sottoposti. Lo Standards of Training, Certification and Watchkeeping for Seafarers è un certificato che si ottiene al termine di una giornata di corsi e dopo aver sborsato un migliaio di euro. "Serve a far capire chi vuole davvero farlo. Se devi portarti qualcuno in mare aperto, sarà meglio assicurarti che non sgarri alla prima occasione."

E la sicurezza in mare è un punto a cui nessuno è disposto a fare sconti, ora come ora. "Il disastro della Costa Concordia ha messo l'intera industria sull'attenti," mi spiega Steve. Il giorno dopo che l'imbarcazione è naufragata all'isola del Giglio facendo 32 morti, la Costa ha perso un miliardo di euro in una mattinata. A maggio di quest'anno, il capitano Schettino si è visto confermare la condanna a 16 anni.

Il suo team legale l'ha più volte definito un capro espiatorio, ma le regole del mare dicono che il capitano è responsabile di ogni singola cosa avvenuta a bordo. La sua cabina sta sotto la sala di comando proprio perché possa intervenire subito in caso di emergenza. O, nel caso della Concordia, lasciare la nave prima degli altri.

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Oggi molte navi hanno due capitani. Quello che porta a casa il lavoro, e quello pagato per distribuire strette di mano ai passeggeri in sala da pranzo. È una situazione alla CEO vs presidente del CdA. Il Capitano viene scelto più per la sua personalità: un conciliatore, un gentiluomo che gira col suo completo e discorre amabilmente con le coppie di Des Moines. Dietro le quinte, il suo secondo, quello grazie a cui tutto si muove: l'amministratore delegato di una città galleggiante che controlla la rotta, approva email per segnalare l'insufficienza di materiale sigillante nei locali caldaia e viene informato sulla condotta dei dipendenti.

IL MARE, IL MARE

Le file si stanno già diradando quando Steve si avvicina a un uomo che stringe a sé una pila di CV, assestandogli una vigorosa pacca sulla spalla.

"Scusami," mi dice dopo averci parlato per qualche minuto. "Non lo vedevo da cinque anni. Ma sai com'è, quando lavori in mare insieme, si crea quella familiarità che poi rimane."

È uno di quei legami particolari. Quando hai guardato negli occhi decine di coppiette e comunicato loro che l'escursione I segreti degli Aztechi non si farà per mancanza di dune buggy da noleggiare, lo sai e basta. È la stessa sensazione che mi porta a pensare che Steve abbia lasciato una parte di sé in mezzo al mare.

"Ho passato l'ultimo mese del mio ultimo contratto a convincermi a non mollare. Ogni giorno mi ritrovavo a pensare, Perché lo faccio? Ho il lavoro migliore del mondo…"

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Perché l'ha fatto?

"Il fatto è che… era arrivato il momento. Avevo quasi trent'anni. Volevo una mia normalità—sai, una casa, un gatto, una fidanzata…"

Gli manca mai quella vita?

"A volte. Quando piove, quando diluvia, mi capita di pensare, Oddio, ma perché sono qui?"

Ha l'aria assorta.

"Ma no."

Poi torna in sé. "Penso di aver preso la decisione giusta."

Lo dice con lo sguardo perso nel vuoto… "Sul lungo termine."

@gavhaynes / @chloeorefice