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A8N6: Il sesto annuale di narrativa

I maghi

"Odiavo i maghi. Ce n’erano due, e li odiavo con tutta me stessa. Quando mi sedetti di fronte a loro, all’inizio non sapevo chi fossero. Poi dissero, 'Siamo i maghi,' e mi ricordai."

Illustrazione di Matthew Thurber
Traduzione di Chiara Galeazzi

Odiavo i maghi. Ce n’erano due, e li odiavo con tutta me stessa. Quando mi sedetti di fronte a loro, all’inizio non sapevo chi fossero. Poi dissero, “Siamo i maghi,” e mi ricordai.

“Oh, vi ho visti la volta scorsa,” dissi. “Ma non siete dei veri maghi.”

“Sì che lo siamo,” insistettero.

“No, vi ho visti,” dissi. “Ho visto tutto. Ho letto il programma ed ero ansiosa di vedervi, poi vi ho visti, voi non siete dei maghi. Non fate magie.”

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“Sì che le facciamo,” dissero.

“Non magia vera.”

“Lo è,” dissero, annuendo solennemente, “È magia vera.”

“Mio fratello era un mago,” dissi.

All’improvviso sembrarono a disagio.

“Già,” continuai, “era un mago, quindi so cos’è un mago. Per questo so che voi due non siete dei maghi.”

“Era?” chiesero. “Non lo è più?”

Dissi, “Mio fratello è morto.”

“Morto?” dissero. Sembravano ancora più a disagio. “Come si chiamava?”

Dissi il suo nome.

Non avrei dovuto dire il suo nome perché non aveva un nome da mago come ovviamente s’immaginavano loro—lo capii dallo sguardo che si scambiarono—e li odiai ancora di più.

“Dove faceva magie?”

Ora ero io a sembrare a disagio. La verità era che, quando era vivo, non faceva molte esibizioni. “Lavorava in un negozio per maghi,” dissi. “Si esibiva nei weekend.” Era vero, più o meno vero, o non vero, almeno non che io sapessi. Non eravamo molto intimi. Poteva aver o non aver fatto delle magie nei weekend.

Comunque: sapevo cosa fosse la magia, e questi tizi non ne facevano.

Appoggiarono le mani sul tavolo e dissero: “Siamo meta-maghi, e in più siamo maghi.”

“Tutti i maghi sono meta-maghi,” dissi. “Voi non siete neanche meta.”

“I maghi sono ridicoli,” dissero.

“Voi siete ridicoli,” dissi. “Siete due idioti, due clown.”

Speravo di averli messi molto a disagio. Poco dopo fecero il loro spettacolino, che consisteva in loro due vestiti da clown che continuavano a chiamarsi maghi a vicenda correndo in giro per il palco e concludendo finalmente con un solo trucchetto, sciatto, poco interessante e banale.

Andò così, più o meno. Finché non raccontarono della stanza dell’elefante. Questo accadde dopo, alla festa, quando tutti stavano ascoltando.

“Houdini fece costruire una stanza tutta per sé,” dissero, e avevano una fotografia da far vedere in giro. “La chiamava la stanza dell’elefante, anche se nessun elefante sarebbe mai riuscito a entrarci dato che era una stanza molto piccola, a meno che non si trattasse di un elefante molto piccolo, un cucciolo, forse. Però la porta era veramente troppo piccola, non ci sarebbe stato modo di far entrare un elefante in quella stanza, neanche un cucciolo, e non sarebbe mai riuscito a uscire.”

Così Houdini fece costruire una stanza e la chiamò come qualcosa che non poteva essere, ma il fatto che fosse stato lui a chiamarla così, il suo nome immacolato, mi fece pensare che era vero, mi fece immaginare un elefante in quella stanza, lo vedevo starsene fermo lì, e mi domandavo perché non ci fosse. Quindi in un certo senso era la stanza dell’elefante. Divenne la stanza dell’elefante per magia. I maghi me la fecero vedere, quindi sì, stavano facendo una magia. Ma comunque, non li rendeva dei veri maghi.