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Identità

'Pensava avessi falsificato i documenti' - Racconti di persone transgender in Italia

Quando la faccia sul documento non corrisponde a quella che hai, o quando il solo vederla fa cambiare idea al tuo datore di lavoro.
Nathan, intervistato sotto. Foto per gentile concessione dell'intervistato.

Qualche giorno fa si è parlato di diritti LGBTQ per un episodio che poco si intona con il clima della Pride Week in corso questa settimana—durante la quale, con eventi e iniziative, si portano al centro dell'opinione pubblica tematiche relative al mondo LGBTQ, e che a Milano raggiungerà il culmine in occasione del Gay Pride di sabato 24 giugno.

L'episodio a cui mi riferisco ha avuto luogo a Piacenza e, a quanto è stato ricostruito dai giornali, si è svolto così: Jennifer e Sebastian, un ragazzo e una ragazza transgender, si trovavano su un autobus quando l'autista ha chiesto loro i biglietti. Jennifer ha mostrato il suo abbonamento, che era scaduto. A questo punto, vedendo che la foto su di esso mostrava una persona di sesso maschile, l'autista ha cominciato a urlare che non era il suo. Accusa che ha ripetuto anche quando la ragazza ha mostrato la carta d'identità. Per farla breve, i due sono stati fatti scendere e l'autista ha chiamato i carabinieri. A quel punto, Jennifer ha avuto un attacco di panico che l'ha fatta finire al Pronto Soccorso.

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Quando a seguito della vicenda ho chiamato Cathy la Torre, avvocata esperta di identità di genere che si sta occupando del caso, mi ha annunciato la volontà di voler procedere per vie legali (in quanto la privacy di Jennifer è stata violata) e istituzionali (chiedendo che tutti gli autisti ricevano una formazione su come trattare le persone trasngender). Quanto successo a Jennifer e Sebastian non è infatti un caso isolato. Ho chiesto quindi ad alcuni ragazzi e ragazze transgender che hanno vissuto esperienze simili con la burocrazia di raccontarmi le loro storie.

NATHAN, 32 ANNI, BRINDISI (IN FOTO) Dopo qualche mese che avevo cominciato il percorso e che avevo cominciato a mascolinizzarmi, senza terapia ormonale, sono andato al Comune di Brindisi, paese dove vivevo. Ho trovato persone molto gentili e disponibili—una piacevole sorpresa per un paesino del profondo sud. Su mia richiesta, infatti, hanno accettato di mettermi sulla carta d'identità "segni maschili" sotto la categoria "segni particolari". Una mossa che, sapendo quello a cui stavo andato incontro, speravo mi avrebbe facilitato la vita nei mesi (e anni) a venire. Fortunatamente così è successo, eccetto una volta. In quel periodo vivevo a Roma ed ero quasi a un anno di terapia ormonale. Mi sono recato in una banca della mia filiale per fare delle operazioni, e nonostante avessi con me tutti i documenti, mi è stato negato di accedere al mio conto. La persona dall'altra parte ha guardato la foto, ha guardato me, e ha semplicemente stabilito che quello sulla carta d'identità non potevo essere io. Non ha voluto accettare discussioni, non mi ha fatto ulteriori domande, ha semplicemente fatto muro. Non mi sono mai più trovato in episodi del genere. Con questo non voglio dire di non essere abituato alle discriminazioni, agli sguardi di diffidenza, ai commenti sgradevoli.

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KATIA, 45 ANNI, MILANO

Ho cominciato il percorso per il cambio di sesso quando avevo 26 anni, ne è passato di tempo. Eppure purtroppo mi trovo a constatare, nonostante abbia cambiato diversi ambienti e città, che la situazione nei confronti dei transgender non è per niente migliorata. Magari siamo più accettati in certi ambienti, ma gli episodi di intolleranza sono ancora all'ordine del giorno.

Diciamo che in tal senso la mia vita ha un prima e un dopo: prima di fare il cambio di nome all'anagrafe, e dopo. Nel prima ogni qual volta ti ritrovi a far qualcosa per cui devi mostrare il documento sai che avrai problemi. A me è successo alle poste (dove la persona dall'altra parte del vetro insisteva che non fossi io), sull'autobus (dove il controllore con ingenuità mi ha detto che dovevo cambiare il nome sui documenti), in banca (dove non mi volevano far accedere al mio conto). Il dopo invece è caratterizzato da un altro tipo di difficoltà: persone che intenzionalmente ti vogliono far notare che non sei una vera donna. Il portinaio di casa che continua a chiamarti signore ad alta voce ogni volta che c'è qualche pacco per te (nonostante il nome su quel pacco sia femminile), i commessi che fanno commenti, la gente che ti guarda come per farti notare che capisce che c'è qualcosa di strano.

Devo dire che dopo tutti questi anni la mia tolleranza si è completamente esaurita: oggi ad ogni commento o episodio del genere, l'unica cosa che provo è rabbia.

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ALESSIA, 29 ANNI, TRIESTE

Avevo cominciato le cure ormonali da circa nove mesi, e in quel periodo mi ero finalmente decisa a lasciare il mio vecchio lavoro per uno nuovo. Quando ho superato il primo colloquio con un'agenzia pubblicitaria di Trieste, da cui sono uscita completamente convinta di aver professionalmente conquistato il capo, ho pensato che forse mi andava bene al primo colpo. Sono seguiti, nell'arco di una decina di giorni, altri due colloqui, in cui tutto sembrava far pensare che quel posto era mio. La conferma è arrivata con una telefonata in cui mi si chiedeva di andare in ufficio il giorno dopo a firmare il contratto. Tutto alla grande, finché non ho dato il mio documento d'identità. Il capo è sparito in un'altra stanza a fotocopiarlo, e non è ricomparso se non dieci minuti dopo—tempo durante il quale lo sentivo parlare con un collega. Quando è tornato il sorriso era sparito e aveva lasciato spazio all'imbarazzato. Ha farfugliato qualcosa sul fatto che c'erano delle complicazioni, che doveva ridiscutere il contratto con l'amministrazione e che mi avrebbe chiamata nei prossimi giorni. Quando mi sono alzata mi ha guardata dall'alto in basso, come fosse la prima volta che mi vedeva. Non sono riuscita a dire nulla, e non sapevo come giustificare lo slittamento di un contratto a un passo dalla sua concretizzazione ad amici e famiglia. Dopo qualche giorno, il discorso ovviamente è uscito, ed era come se fosse chiaro che il problema era sempre stato quello. Io stessa, nonostante non me lo volessi ammettere, ero perfettamente cosciente del fatto che vista la foto sulla carta d'identità non avrei mai ottenuto il lavoro. Capita. Costantemente. Purtroppo se sei transessuale impari a metterlo in conto e quando ti capita una parte di te è come rassegnata

ANDREA, 27 ANNI, PROVINCIA DI MANTOVA Qualche anno fa sono andato in posta a ritirare una raccomandata che era a mio nome, sperando di cavarmela in pochi minuti. Ero molto tranquillo, dato che non avevo mai avuto problemi. Quando ho mostrato i documenti, però, hanno cominciato a dirmi che quello che appariva nella foto non ero io e che serviva la persona interessata.

Non importa quanto provassi a raccontare la mia storia, a raccontare parti della mia vita privata a una persona estranea—cosa che personalmente odio. Non importa se tutti i documenti che avevo mostravano lo stesso nome. La signora ero convinta che li avessi falsificati. Tutti. Un genio del crimine. Visto che io non desistevo, ha deciso di chiamare la questura per fare qualche verifica. Ovviamente si è sentita rispondere che non c'era niente di strano con quei documenti. Alla fine, a forza di insistere, sono riuscito ad andarmene via con la mia sudatissima raccomanda.

Ancora oggi mi spiego quell'episodio solo con l'ignoranza—le persone vanno educate alla transessualità. Del resto, le discriminazioni vere hanno tutta un'altra apparenza, e le ho subite esplicitamente in un mio precedente lavoro. In quel caso avevo appena cominciato il percorso per il cambio di sesso, e i miei colleghi mi odiavano per questa mia decisione. Non facevano altro che ricordarmi che un uomo vero ha il pisello, non ha le mestruazioni, e cose del genere. Sono finito per dover lasciare il lavoro perché non reggevo quel clima. Adesso che sono un po' più esperto ho imparato a ridere di fronte agli sguardi contrari che vedo di costante. È la mia identità e non ci posso fare nulla. Per quanto riguarda però le cose burocratiche, diciamo che se posso delego alla mia ragazza—sono casi, ma non si sa mai, se posso preferisco evitare i problemi.

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