FYI.

This story is over 5 years old.

Foto

Letizia Battaglia

Intervista alla prima donna fotoreporter in Italia.

Qualche settimana fa ho avuto l’occasione di parlare con Letizia Battaglia. Letizia è stata la prima fotoreporter italiana e ha iniziato la sua carriera muovendo i primi passi in un’epoca in cui Palermo pareva la Striscia di Gaza e con la cronaca si faceva politica e si cambiavano davvero le cose (dove con “cose” non intendiamo il vostro guardaroba). Nel 1972, la Battaglia ha cominciato a lavorare per il quotidiano palermitano L’Ora, documentando con la sua macchina fotografica lo scempio della guerra delle mafie e per questo suo lavoro ha ricevuto nel 1985 il prestigioso premio Eugene Smith. Le sue foto hanno smascherato gli amichevoli e cortesi rapporti tra Cosa Nostra e quella specie di gollum immortale che è il novantenne senatore Giulio Andreotti. Eppure—con una forma di malsana ironia—da questo contesto terribile sono nate immagini meravigliose, così perfette che per un secondo è facile dimenticarsi di essere di fronte ad uno scorcio su una delle più sanguinose e subdole tragedie della storia dell’Italia contemporanea. E quando ti rendi conto di esserti perso nella bellezza schifosa del mondo, cominci a sentirti un po’ a disagio. Questa è una delle ragioni per cui sono andata all’apertura della sua mostra fotografica milanese e le ho fatto l’intervista che potete leggere qui sotto.

Pubblicità

VICE: Nel comunicato stampa della mostra c’era un termine che mi ha fatto riflettere: “estetizzazione”. Come vive il rapporto che c’è tra il contenuto atroce delle sue foto e la loro estetica?
Letizia Battaglia: La bellezza di una foto per me è un incidente di percorso. Mentre scattavo le foto non ho mai pensato ad altro che a registrare quello che stava avvenendo—malamente e di corsa, perché lavoravo per un quotidiano. Poi quando ci sono questi omicidi, la polizia ti becca di là, i mafiosi dall’altro lato, i parenti non vogliono—insomma ci sono vari problemi. Non ho mai pensato all’estetica. Certo è il fatto che io ami l’arte, e che abbia visto tanti quadri nei musei e nei libri—è chiaro che alla fine queste esperienze latenti mi abbiano aiutato per la composizione, ma in modo istintivo.

Quindi quando fotografava non “pensava” consciamente alla bellezza.
Non ho mai avuto il lusso di pensare. Anche quella foto della bambina col pallone. Quella non è posata. La vedo da lontano, ero seduta al bar. Corro verso di lei, che intanto gioca col pallone—era molto piccola anche se nella foto sembra alta. Vado verso di lei e lei si mette così—col braccio stancamente appoggiato sul capo. È durato tutto sette secondi, non di più—una specie di piccolo miracolo. Che è avvenuto, perché sai, spesso non avvengono i miracoli e le foto vengono brutte. E lei stava così, con quello sguardo. Era bruttina, quella bambina. Insomma l’eleganza viene dal momento, non dal fotografo. Per me è così.

Pubblicità

Qualche mese fa c’è stata una forte polemica su una foto di un marine ventunenne in fin di vita. Che ne pensa?
Bisogna raccontare. Il fotografo deve raccontare e i giornali devono pubblicare. Ho avuto degli attimi, in cui non ho fotografato e poi mi sono pentita. Il dolore mi sconvolgeva—come quando hanno ammazzato i giudici anti-mafia Falcone e Borsellino.
Il fotografo deve fotografare. Con rispetto, senza mancare di amore per quello che sta documentando, ma non possiamo tralasciare niente. Non mi scandalizzo. Assolutamente no. È bene che si veda una creatura che muore perché ci sono le guerre.

Hanno parlato di “buon gusto”.
Ma quale gusto? La guerra è di buon gusto? È di buon gusto morire in questo modo?

Quindi ci sono stati momenti in cui non è riuscita a scattare perché non ce l’ha fatta.
C’è una foto che ho scattato vent’anni fa e che non ho ancora tirato fuori dall’archivio. C’era un bambino, lì per terra. Il visetto tenero poggiato sull’asfalto, un rivolo di sangue rosso che, partendo dalla bocca, arrivava sino a terra. Un bambino di dieci anni ammazzato perché aveva visto qualcosa che non doveva vedere… fu sconvolgente. E tra l’altro, proprio quel giorno mi ero detta che forse dovevo incominciare a fotografare anche a colori.

Continua nella pagina successiva.

Palermo, 1976. Vincenzo Battaglia era uscito per comprare i cannoli.Lo hanno ucciso al buio, tra la spazzatura. Sua moglie aveva cercato invano di aiutarlo.

Pubblicità

In questo momento storico si è ad un livello estremo di saturazione delle immagini e c’è un approccio molto usa-e-getta nei confronti di certe notizie, che diventano sempre più corte—i famosi “In sintesi”.
Credo che non sia colpa né dei fotografi né dei giornalisti. È un business. Hanno voluto portare avanti l’affare digitale, in modo che tutti usassero non solo lo strumento in sé, ma soprattutto l’approccio alla realtà che comporta. Quindi la fotografia ha perso quello status di documento originale, eccezionale, rispettabile e rispettoso.

Secondo lei, c’è una via d’uscita a questa situazione?
Uccidere gli art director.

Ahah.
Per rispondere alla tua domanda… Credo che ci sarà una crisi e poi tutto ritroverà il suo posto. Per adesso i buoni fotografi hanno sempre meno spazio, sempre meno soldi, e soprattutto sempre meno tempo per sviluppare i loro progetti.

Lei ha iniziato collaborando con un quotidiano, L’Ora. In che modo era diverso il mondo editoriale?
Io lavoravo in un giornale, dove il fotografo veniva considerato NIENTE. I giornalisti erano convinti di aver fatto loro la foto, semplicemente perché dicevano al fotografo, “Fai quella foto” anche se magari il fotografo l’aveva già scattata di suo. Poi però, al bar con i colleghi, il giornalista diceva, “Io oggi ho fatto questa foto!” Venivamo trattati malissimo, pagati pochissimo e non avevamo nessun valore. E, attraverso il lavoro, noi realizzavamo una visione morale del mondo. Essere a contatto costante con la miseria, con la sete—be', ad un certo punto lo capisci che c’è un’ingiustizia, che non puoi avere sete sempre.

Pubblicità

Che rapporto c’era tra etica e fotografia di cronaca?
Non è facile. Non è facile trovare gente che abbia un’etica. Noi eravamo un gruppo di fotografi, quattro o cinque, e poi ce n’era sempre un altro che lavorava per un’altra testata. E tra quelli c’era un tipo molto cinico. Per esempio, capitava che uccidessero un ragazzo. I giornali—non si sa perché—chiedevano sempre l’immagine della madre piangente. Capitava alle volte che la madre non fosse presente sulla scena del delitto. E allora questo fotografo cosa faceva? Raggiungeva la casa della madre, persino spostandosi nei paesi limitrofi. Bussava alla porta—la madre ancora non sapeva niente. “Cosa desidera?” “Signora, le hanno ammazzato suo figlio.” E poi scattava. Ecco, le schifezze c’erano, ci sono state sempre e sempre ci saranno. L’abuso è una realtà trasversale a qualsiasi professione. I selvaggi ci sono sempre stati. E ci sono anche oggi—ma c’è tanta gente che ha integrità. È molto difficile. È qualcosa a cui si viene educati.

Recentemente ho rivisto Il Padrino. Cosa ne pensa di queste rappresentazioni della mafia al cinema?
Hanno fatto un danno questi film! Mi arrabbio molto, perché escono fuori dei padrini come delle persone giuste, generose con una psicologia interessante… Ammazzano, sì, però… Non è così. Il mafioso non ha rispetto per nessuno—il mafioso dà l’ordine di ammazzare suo figlio, se questo non segue le regole della mafia o del business. È un padre che non perdona mai. Quelle del cinema, sono tutte invenzioni. Invenzioni pericolose.

Pubblicità

La spettacolarizzazione delle mafie ha raggiunto dei livelli alienanti. Come si esce da questa fallacie del discorso per cui “ha ucciso tanta gente ma ha costruito un ospedale”.
Come se ne esce? Non lo so. Dipende da una presa di coscienza generale. Forse quando si andrà a sbattere… Gioia, sono disperata. Non lo so—io ci ho provato tanto. Noi avevamo un sindaco che mentre ammazzavano la gente per le strade, e c’era il traffico della droga, e i giovani morivano e i giovani venivano incaprettati e ammazzati, diceva “Ma si sta così bene a Palermo… C’ho i miei violini, i miei libri…”

In che modo essere una donna ha influenzato il suo lavoro di fotogiornalista? Ritiene di aver avuto una sensibilità diversa rispetto ai suoi colleghi uomini?
Certo. Per qualche anno dovetti lottare, spesso rudemente. Ero la prima donna fotoreporter in Italia, non ero credibile anche per le mie gonne a fiori e i sabot ai piedi. Avevo quasi quarant’anni, ma sembravo una ragazza. Poco a poco, sia le forze dell’ordine che la gente ed i colleghi capirono che facevo sul serio e che se mi impedivano di fotografare, avrei piantato delle grane. Ho puntato l’obiettivo sui fatti che avvenivano, con rispetto e con solidarietà, mai con cinismo, cosciente in ogni modo di avere il dovere di documentare.

A differenza di molti altri, lei ha deciso di tornare a Palermo dopo essersi trasferita a Parigi per qualche anno. Anche per ragioni di sicurezza personale. Cosa l’ha spinta a tornare?
Stavo male, avevo il rimorso. Le foto del passato, quelle di morte, violenza e mafia mi sono costate ferite perenni che mi coinvolgono ancora adesso. Faccio molte esposizioni e ogni volta che preparo le foto, le imballo e le spedisco, dentro di me si rinnova quel sentimento di rifiuto misto a nausea fisica che mi prendeva quando le scattavo. Spesso le ho odiate le mie foto, ho sognato di bruciare i negativi, di distruggerne il ricordo, la testimonianza. Ma questo non posso, non ho il diritto di farlo. Le mie foto appartengono alla storia di questa città. Sentivo il dovere di ritornare a Palermo, di seguirne gli eventi, non voglio dire di seguirne il destino, ma quasi.

Pubblicità

Palermo, 1982. Nerina faceva la prostituta e si era anche messa a trafficare con la droga. La mafia l’ha uccisa perché non aveva rispettato le sue regole.

Palermo, 1982. I due Cristi.

Palermo, 1982. Vicino alla Chiesa di Santa Chiara. Il gioco del killer.

Palermo, 1976. Ucciso mentre andava in garage. Palermo, 1980. Quartiere La Cala. La bambina con il pallone.

Palermo, 1979. Il giudice Cesare Terranova, Deputato comunista, membro della Commissione Antimafia, è stato appena ucciso in un agguato. Il maresciallo Lenin Mancuso, addetto alla sua sorveglianza, è morto poco dopo in ospedale.