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reportage

Dall'Italia a Pyongyang: come sono finito in un tour propagandistico in Corea del Nord

All'inizio di settembre sono stato una settimana a Pyongyang, in Corea del Nord. Non sono un simpatizzante del regime e prima di partire ne sapevo poco: questo è quello che ho visto nel mio viaggio.

Federico a Pyongyang. Tutte le foto di Federico Ticchi.

Come raccontato a Mattia Salvia da Federico Ticchi.

Quando racconto che sono stato in Corea del Nord la gente fa sempre una faccia strana o mi chiede se ho incontrato Antonio Razzi. Molti, vista la quantità di notizie non esattamente edificanti che leggiamo su Pyongyang, danno per scontato sia un luogo inaccessibile—anche se, nella pratica, col tempo visitarlo è diventato sempre più facile. Basta prenotare uno dei tanti tour turistici organizzati dalle agenzie che operano nel paese e richiedere il visto. Oppure, in alternativa, far parte di una delegazione di studiosi della Juche—l'ideologia di stato del regime nordcoreano—come ho fatto io.

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È stato così che all'inizio di settembre sono riuscito a passare una settimana a Pyongyang, come membro della delegazione italiana che avrebbe partecipato a un convegno sulla Juche. Non sono un simpatizzante del regime e prima di partire non sapevo praticamente nulla della sua ideologia: ci sono andato semplicemente per curiosità e perché mi è capitata la possibilità, accodandomi a mio padre che a sua volta si era accodato a persone che avevano deciso di andarci per scopi anche politici.

Alla partenza non avevamo assolutamente idea di cosa ci avrebbe aspettato. Rilasciandoci il visto come delegati, l'ambasciata nordcoreana ci aveva semplicemente chiesto di comunicare la nostra data di arrivo e quella in cui saremmo ripartiti: per il resto avrebbero pensato loro a tutto. Così il 5 settembre siamo atterrati all'aeroporto di Pyongyang. Erano le cinque del pomeriggio e il nostro, proveniente da Pechino, era l'ultimo volo della giornata. Le guardie all'aeroporto ci hanno controllato i passaporti, i cellulari, i computer e i libri che avevamo in valigia. Ho notato che trattenevano quelli con in copertina simboli religiosi, com'è successo a un gruppo di delegati stranieri che erano sul nostro stesso aereo.

Dall'esterno l'aeroporto di Pyongyang è nuovo e moderno, il che è abbastanza straniante considerato che vi atterrano solo tre voli al giorno e che alle cinque di pomeriggio, quando siamo arrivati noi, stava già chiudendo. Quando abbiamo passato i controlli, infatti, ci siamo ritrovati nella lobby deserta e con le luci spente e abbiamo scoperto che nessuno era venuto a prenderci. Grazie a una hostess che parlava inglese siamo riusciti a contattare la nostra interprete, che qualche tempo dopo si è materializzata e ci ha scortati all'albergo in cui avremmo alloggiato in quanto delegati. Noi non sapevamo nemmeno quale fosse né dove, perché aveva organizzato tutto il Dipartimento delle Scienze e dell'Educazione del governo nordcoreano.

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L'hotel era bellissimo, ma anche quello mi ha fatto un'impressione strana: era lussuoso e al contempo desolante. Ognuno di noi aveva una stanza che praticamente era un trilocale, con un salotto, una camera da letto e uno studio molto grandi. In cima all'albergo c'era un ristorante rotante. Nonostante questo sfarzo la mattina al buffet ci servivano latte in polvere e una sola marmellata, di fichi. Al ristorante dell'albergo c'era un solo dolce possibile, un panino dolce, e il burro veniva portato in porzioni così piccole da far pensare fosse razionato. Da un certo punto di vista, probabilmente cercavano di impressionarci in quanto stranieri ma c'erano dettagli che ci facevano capire come tutto questo fosse solo superficiale; da un altro però probabilmente loro a questi dettagli non facevano neanche caso.

Da quel momento siamo sempre stati completamente nelle mani del regime. Non potevamo mai girare da soli e tutti i nostri spostamenti venivano decisi dalla nostra interprete e dal coordinatore che sorvegliava le varie delegazioni. Ogni mattina, venivamo fatti salire tutti su un pullman e portati in giro: i primi due giorni, il 6 e il 7 settembre, ci hanno fatto visitare Pyongyang con i suoi monumenti e i suoi musei. Siamo stati portati a vedere diverse opere pubbliche costruite o rinnovate dal Grande Maresciallo Compagno Kim Jong-un—come veniva sempre chiamato dalla nostra interprete. Eravamo controllati a vista: se durante una di queste visite dovevo andare in bagno l'interprete mi ci avrebbe accompagnato, a prescindere da quanto era lontano.

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Federico con la sua interprete nella metropolitana di Pyongyang

Il convegno era previsto per l'8 settembre. La sera prima ci hanno fatto una lezione sulla Juche—una sorta di seminario in cui ci sono state spiegate le origini dell'ideologia di stato coreana. Ci hanno parlato della centralità dell'esercito (dopo anni di invasione, il Supremo Leader ha deciso che l'esercito era fondamentale per restare indipendenti), dei rapporti tra Corea del Nord e Corea del Sud (ce l'hanno solo con il governo di Seul, che vedono come un burattino degli americani), della vittoria finale (che arriverà pacificamente e porterà alla riunificazione delle due Coree).

Il giorno successivo, in un teatro e alla presenza di una quarantina di delegati stranieri, si è tenuto finalmente il convegno. È durato solo una mattinata, dalle nove a mezzogiorno. Oltre a quella italiana erano presenti delegazioni di altri dieci paesi: Germania, Spagna, Thailandia, Giappone, Sri Lanka, Nepal, Uganda, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo e India. Ogni delegazione era composta da quattro-cinque persone e alcune erano veramente interessate all'argomento del convegno: i giapponesi per esempio distribuivano una loro pubblicazione sulla Juche in giapponese, inglese e spagnolo; la delegazione indiana invece ha donato al regime una targa commemorativa da mettere alla base della torre della Juche. Comunque sia, i vari delegati hanno tenuto una serie di interventi tutti abbastanza simili contro l'imperialismo americano e in favore dell'indipendenza dei popoli; da quest'assenza di un vero argomento e dalla brevità del convegno si capiva come questo fosse più che altro un evento propagandistico.

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Il giorno successivo, il 9 settembre, è stato l'anniversario della nascita della Repubblica Popolare Democratica di Corea. Per festeggiare ci hanno portati a vedere una rappresentazione teatrale alla presenza di un altissimo funzionario del Partito. A teatro lo spettacolo è iniziato soltanto quando questa persona è arrivata e ha preso posto: tutto il pubblico si è alzato in piedi ad applaudire. E la rappresentazione è finita allo stesso modo, quando lui si è alzato ad è andato via.

Nei giorni seguenti hanno continuato a farci fare visite guidate a Pyongyang. Funzionava così: loro avevano previsto per noi alcune attività, ma noi potevamo fare richieste su cose particolari che volevamo fare o vedere. Di norma ci davano il permesso, ma bisognava insistere un po': per ogni minima cosa dovevamo chiedere alla nostra interprete, che a sua volta chiedeva il permesso al coordinatore e via così. Era un clima oppressivo: avevo sempre paura di fare qualcosa di sbagliato e mi sentivo tranquillo solo stando al mio posto.

Durante questi tour guidati abbiamo visitato un campo da golf, dove abbiamo fatto una grigliata e alcune gare campestri, il monumento del Partito e alcuni musei. Questi ultimi erano strutturati tutti allo stesso modo: diverse sale piene di foto, pannelli esplicativi e plastici. Anche qui non potevi visitarli da solo ma avevi una guida che ti scortava per le varie sale.

I musei che abbiamo visitato erano dedicati alla tecnologia, all'imperialismo americano e alla guerra di Corea. In quest'ultimo il revisionismo storico era totale: secondo la versione nordcoreana, la Corea del Nord ha tentato di liberare la Corea del Sud ma ha dovuto desistere quando tutto il mondo si è schierato contro di lei. Quando abbiamo fatto notare alla nostra interprete che in realtà in quell'occasione Pyongyang aveva avuto il supporto di Cina e Unione Sovietica lei ci ha detto, "Sì, ci hanno aiutato, ma non tanto."

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Oltre al revisionismo storico, un'altra cosa impressionante era l'onnipresente culto della personalità dei vari leader della famiglia Kim. In tutti gli edifici pubblici c'erano le loro foto e non li si poteva indicare col dito ma solo a mano aperta, in segno di rispetto. Prima di qualsiasi evento c'era sempre la cerimonia di saluto al Grande Maresciallo Compagno Kim Jong-un. Nel museo della tecnologia, su tutti i computer c'erano targhe con scritto "dono del Grande Maresciallo." C'era persino una sedia su cui non ti potevi sedere perché una volta ci si era seduto il Grande Maresciallo.

Ma il luogo in cui questo culto della personalità era più evidente è stato senza dubbio il mausoleo dei due leader. Ci si può entrare solo in quattro per volta, vestiti eleganti, ed è composto da due stanze presidiate da militari, una dedicata a Kim Il-sung e una a Kim Jong-il. Per entrarci bisogna passare da uno zerbino rotante che ti pulisce le suole delle scarpe, da dei soffioni che ti sparano l'aria addosso per purificarti e percorrere un corridoio lunghissimo. Quando abbiamo chiesto come mai fosse così lungo, ci hanno detto che è perché così durante il tragitto si può riflettere sul bene che i due leader hanno fatto al popolo nordcoreano.

Vedendo tutto questo, si capisce bene quanto sia forte e pervasivo l'indottrinamento a cui sono sottoposti i cittadini nordcoreani. I nostri interpreti e le nostre guide erano sempre disponibili e sorridenti, ma a volte era quasi impossibile comunicare con loro. Certe cose non le capivano e a certe domande davano le risposte standard che erano state insegnate loro. Quando abbiamo provato a chiedere alla ragazza di 18 anni che ci faceva da guida come avremmo potuto contattarla una volta rientrati in Italia, lei ci ha detto, "Vi lascio il mio nome, così potete contattarmi tramite l'ambasciata"—come se fosse la cosa più normale del mondo.

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A parte guide e interpreti, in tutto il periodo in cui siamo rimasti in Corea noi non abbiamo avuto grandi contatti con altre persone: i nordcoreani comuni li abbiamo solo intravisti per strada o dai finestrini dei pullman. Il momento in cui ci siamo mischiati di più alla gente normale è stato quando ci hanno portati a vedere la metropolitana, che era piena di gente. L'abbiamo presa insieme agli interpreti e tutti gli altri passeggeri ci osservavano—ma probabilmente era perché in Corea del Nord gli occidentali sono molto pochi. Dopo due fermate ci hanno fatti scendere e in superficie abbiamo trovato il coordinatore che ci aspettava.

In generale, andandoci di persona ho avuto modo di confrontare quello che vedevo con l'immagine che tutti noi abbiamo della Corea del Nord. Ad esempio, le nostre idee sul clima di controllo, la repressione, la paranoia diffusa e l'indottrinamento corrispondono effettivamente a verità. Per il resto Pyongyang mi è sembrata una città normale—anche se l'ho vista quasi solo dai finestrini del pullman. Mi è sembrata una città molto pulita e tranquilla, apparentemente non più povera di Pechino. C'erano molte auto e anche un po' di traffico, mentre non ho mai visto mendicanti o situazioni di degrado. Probabilmente però anche quello era parte del tour, e nelle campagne è diverso: come ho potuto vedere, appena si esce dalla capitale l'autostrada diventa piena di buche, le auto non si vedono, la gente gira in bici, i trattori sono vecchissimi e nei campi si vedono anche aratri trainati dai buoi.

Anche per quanto riguarda le armi nucleari—un altro argomento di cui si parla molto in relazione alla Corea del Nord—il modo in cui ne abbiamo sentito parlare durante la nostra permanenza lì è stato molto diverso da quello che ci saremmo aspettati. Mentre eravamo lì c'è stato un test missilistico, ma noi non ne abbiamo saputo niente perché i cellulari non prendevano. L'abbiamo scoperto solo quando siamo riusciti a chiamare l'Italia dal telefono del nostro albergo, così siamo andati a chiedere informazioni al riguardo alla reception. Loro ci hanno semplicemente detto, "Sì, c'è stato un test, è andato tutto bene." Non l'hanno tenuto nascosto, anzi ne erano molto orgogliosi, ma non l'hanno festeggiato. Del resto—come ci è stato detto durante la lezione sulla Juche—per il regime il nucleare serve solo a scopo difensivo, come deterrente, perché la vittoria finale arriverà in modo pacifico. Per il regime la riunificazione delle due Coree non può avvenire con la forza, ci hanno detto, perché i nordcoreani considerano i sudcoreani come dei fratelli—cosa che non si direbbe, considerate tutte le terribili testimonianze sui modi in cui il governo nordcoreano cerca di arginare le defezioni verso il sud.

Durante i giorni in cui siamo stati lì avevamo notato che tutti i nordcoreani giravano con la stessa spilla raffigurante i due leader appuntata sugli abiti. La nostra interprete ci aveva spiegato che quella spilla veniva data solo a chi aveva fatto qualcosa di meritevole per lo stato o per il Partito—ma visto che ce l'avevano tutti non doveva essere poi così difficile ottenerla.

L'ultimo giorno, comunque, l'hanno data anche a noi. Visto che sapevamo quanto fosse importante per loro, ce la siamo subito messa. Il giorno dopo, quando siamo andati all'aeroporto, noi italiani eravamo gli unici tra tutte le delegazioni ad avere ancora quelle spille appuntate sulla giacca. Non so se sia stato per quello, fatto sta che non abbiamo subito particolari controlli e sull'aereo abbiamo avuto i posti migliori, con due sedili liberi accanto a noi da ogni lato.

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