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Dentro il Lucca Comics

Molti conoscono il Comic Con di San Diego, il più grande ritrovo d’America in materia di cultura popolare, fumetti, animazione, film epici, videogiochi. Pochi sanno però che l'evento di San Diego è più piccolo del Lucca Comics. Inutile dire che...

Foto di Federico Thomas Borghesi.

Molti conoscono di fama o per via di The Big Bang Theory il Comic Con di San Diego, il più grande ritrovo d’America in materia di cultura popolare, fumetti, animazione, film epici, videogiochi. Pochi sanno però che l'evento di San Diego è più piccolo del Lucca Comics, l’equivalente italiano che con 170mila presenze è il terzo festival del genere al mondo dopo una convention giapponese e una francese. Inutile dire che dovevamo andarci.

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Quando provo a cercare un treno per arrivare a Lucca da Bologna durante il ponte dei morti, sulla tratta AV fino a Firenze gli unici posti rimasti sono quelli pensati per le photo opportunity “siamo come voi” di Berlusconi e la sua “fidanzata”. Praterie per i piedi, sedili in pelle di animale in via di estinzione e quel tipo tariffa che VICE sarebbe disposto a pagare solo per poter disporre liberamente degli organi interni dei suoi stagisti non fumatori.

Così prendo la mia auto, carico un mio amico insegnante meridionale fortemente sindacalizzato, e rimaniamo imbottigliati per un’ora al casello di Bologna. Dopo po’ ci muoviamo e acquistiamo l’ambito privilegio di rimanere in coda nel mezzo dell’appennino tosco-emiliano. La vita è un percorso fatto di piccoli passi. Pressati dentro due colonne di auto senza fine e apparentemente dirette ovunque, riaffiorano alla mente dubbie massime di satrapi del passato come “Non vedo la crisi e i ristoranti sono pieni” che improvvisamente appaiono sotto una nuova, più inquietante, luce.

Fra i comunicati di guerra autostradale diffusi da Isoradio quelli provenienti da Lucca sono fra i più catastrofici: “Avvicinatevi alla città solo per reali emergenze o se siete già vestiti da Pikachu.”

Io però sono già travestito da giornalista e il mio amico minaccia di chiamare i cobas scuola perché il regolamento in termini di abbigliamento è molto chiaro e qua bisogna finirla perché gli insegnanti già ne sopportano di ogni, tipo tre infernali mesi di ferie l’anno.

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La soluzione fortunatamente ce la propone il fotografo che ci aspetta nei pressi di Pisa: aggirare la folla penetrando a Lucca in treno. Partenza dall’amena stazione di San Giuliano Terme, laddove non ci sarà nessuno.

Infatti.

Una littorina diesel paurosamente inclinata verso sinistra e vecchia già ai tempi di Pelè arranca a due km/h dentro la stazione. Quando le porte si aprono assistiamo dalla banchina a risse per il possesso di un posto (o meglio per il “concetto di posto”) all’urlo di “Siamo già in due su questo gradino, per il Gatto Giuliano!!” e realizziamo così che l’unico modo per arrivare a Lucca senza rimanere incinta è riprendere l’auto.

A sorpresa nonostante il terrorismo di Isoradio, facendo una provinciale e camminando per 30 minuti non ci sono grossi problemi a raggiungere le mura del centro di Lucca. Mai fidarsi dei media.

Già sulla strada comunque incontriamo lui.

Un guerriero vichingo-riminese che si è perso e ci garantisce riempirà i suoi bicchieri con della Vodka gradita a Odino.

Al Lucca Comics c’è un cosplayer per ogni personaggio di qualsiasi serie, film, cartone, fumetto, incisione nella corteccia che qualcuno che alla medie veniva regolarmente picchiato dai bulli abbia deciso di regalare al mondo. E questo significa per esempio che troverete anche i Jawa di Tatooine, popolo di cosi senza i quali la saga di Guerre Stellari sarebbe stata identica.

Se state pensando che furono però proprio loro a vendere C-3PO e C1-P8 allo zio di Luke Skywalker creando così uno snodo fondamentale della storia, vi prego di considerare due obiezioni: 1. In una versione apocrifa i robot sono stati venduti da un tizio di Grosseto 2. Forse è ora di farsi una vita sociale. Io almeno ci proverò.

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Fuori dalle mura c’è una gru per il bungee jumping, se per caso il personaggio che amate di più fosse in grado di volare.

"Uuuuhhh sono il gabbiano di Bianca e Bernie!! Dell’altro antidolorifico!"

Nel prato sottostante un gruppo di studenti fumano canne, travestiti da studenti che fumano canne. Assieme al vichingo voglioso di vodka rappresenteranno però l’intera concessione alle sostanze psicoattive che incontrerò durante il giorno in giro per Lucca. Sebbene sia evidente il livello di potenziale comico nel caso qualcuno paracadutasse birra e anfetamine su un posto dove maschi alti un metro e 90 vanno in giro vestiti da omino biscotto di Shrek e le ragazze da principessine in minigonna, qui è tutto così ostinatamente sobrio da sembrare liberamente ispirato ai peggiori piani segreti di Giovanardi.

D’altro canto a che serve la droga, quando puoi avere i sogni che diventano realtà?

Un mutaforme di Tzeentch di Ivrea.

Sulle mura della città ci sono cosplayer di tutti i tipi.

Questa ragazza nella vita fa la commessa, ha una voce incredibilmente esile e gentile ed è vestita Celty di Durarara!!, un manga. Ci metto due minuti buoni a capire quanti Ra vanno in “Durarara”, in quella che assume presto le sembianze di una scenetta da avanspettacolo. Questo personaggio a quanto ho capito è l’edizione giapponese di un Dullahan, un folletto senza testa della mitologia celtica. Per questo ha il casco con le orecchie. Celty inoltre è il terrore delle gang di Ikebukuro.

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Lui è il suo fidanzato, nella vita guida mezzi pubblici e qui è vestito da “Uomo senza volto“ di Miyazaki.

Fabio è un magazziniere di Portogruaro e qui interpreta Joshua Graham di Fallout: New Vegas, un videogioco ambientato a Las Vegas dopo una guerra nucleare fra Usa e Cina.

Loro invece sono dei ragazzi di Modica, sono vestiti da personaggi di Mortal Kombat (di questo non ho bisogno di farmi fare lo spelling).

Gli chiedo di fare una fatality a Scorpion (quello giallo) e loro provano molto gentilmente a divellerlo in due. Dopo un po’ di tentativi realizziamo con un certo disappunto che la cosa non è tecnicamente fattibile, ma li ringrazio comunque.

Incontriamo anche un cavaliere dello zodiaco del mio stesso segno, il leone, e con lui mi lamento del fatto che ci è toccata in sorte la mossa segreta più sfigata di tutte. Il pugno. Che cazzo di mossa segreta è “un pugno”?

E subito lui, con la tipica sensibilità dei leoni agli argomenti altrui, non mi ascolta e scatta orgogliosamente in posizione

 Loro invece sono delle studentesse di Bologna vestite da maid.

Se ancora non avete visto il finale di Breaking Bad non guardate la prossima foto, “SPOILER ALLERT!” Walter White si è sposato con la principessa Peach di Mario Bros e hanno unito la produzione di metanfetamine con quella di super-funghi.

Questo Walter White è ben fatto, ma mai come quello indossato da Bryan Cranston al Comic Con.

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Il flusso di persone in cui siamo inseriti sfocia in una piazza di apparente proprietà della Warner Bros.

Dove c’è questa installazione per la promozione del film Thor 2.

La mazza, che ricorda un po’ questa trovata, non è l’unica idea geniale del marketing; hanno pensato bene di ribattezzare il sabato della presentazione “Sathorday”. Ahahahahah. Datemi del cianuro.

Nelle strette vie di Lucca c’è una quantità di gente tale che se siete agorafobici tanto vale spararsi direttamente in bocca, rischiando per altro di vincere il premio per il miglior cosplayer di fumetto giapponese sui giovani con gravi disfunzioni sociali.

Cerchiamo di raggiungere il padiglione dei fumetti, dove ci aspetta Gipi, l’unica persona famosa che conosco qui a Lucca. Quando arriviamo allo stand dove sta presentando il suo nuovo libro mi accoglie con un gesto pieno di rispetto e stima.

L’ho conosciuto mesi fa quando mi ha chiamato per lavorare a un progetto con due blogger molto più bravi di me. Alla fine non se ne è fatto niente, se ho capito bene Rai Uno per il suo sabato sera per famiglie voleva qualcosa di un po’ più forte di un format con Rocco Siffredi e Antonella Clerici chiusi in uno scantinato per sei mesi e nutriti esclusivamente a ormoni di tuffatrice cinese.

Gipi oltre a essere un buongustaio quando si tratta di scegliere i collaboratori, è anche perfettamente sano di mente come dimostra questo disclaimer per i fan in fila per un suo disegno

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Ometto per rispetto nei suoi confronti le foto che illustrano cosa succedeva a chi osava dire “sì”.

Per quanto legga spesso fumetti non avevo assolutamente idea della quantità smodata di albi che vengono prodotti o tradotti in questo Paese. Stando qui a Lucca si capisce che si tratta di migliaia di titoli. Fra questi mi sento in dovere di segnalare Berlin di Jason Lutes, probabilmente una delle migliori serie di romanzi storici in circolazione, compresi anche quelli realizzati senza l’ausilio di disegni. Si tratta tre libri (uno dei quali ancora inedito) sulla Berlino della repubblica di Weimar. Utili anche per capire la differenza fra scrivere facendo prima delle ricerche e scrivere guardandosi l’ombelico, oltre che fra hipster e gruppi paramilitari.

In questo padiglione, coi manga, c’è il nuovo libro sulla scienza di Leo Ortolani, i libri d’inchiesta di Becco Giallo…

ma c’è anche lui, Zero Calcare.

Con grande professionalità colpo di culo, arriviamo allo stand del suo editore cinque minuti prima dell’ennesima sessione di autografi e disegni a cui è sottoposto in quanto fumettista del momento. Un rito normato secondo una serie di regole complicatissime che potete trovare qui.

Parliamo con un suo giovane fan che indossa il copricapo di Finn di Adventure Time, altra storia ambientata in epoca post atomica. Viene da Torino e anche lui vorrebbe fare il fumettista un giorno.

Dopo un minuto che aspettiamo un tizio ci fa spostare perché “gli impalliamo lo stand”. In attesa fuori dal padiglione un ragazzo della casa editrice divide chi ha preso il numerino per il disegno da chi ce l’ha per l’autografo.

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“Qualcuno può tornare domani?” chiede quando si rende conto che Zero rischia di dover disegnare fino a notte fonda per soddisfare tutti, ma subito cala un silenzio omertoso che non sentivo da quando al liceo il professore prima delle interrogazioni chiedeva “Volontari?” senza imparare mai.

Caterina, l'editrice di Zero Calcare, mi dice che la prima tiratura di 30mila copie è andata esaurita e ne è stata fatta una seconda di altre 30mila. Al contrario di quello che avrei fatto io al suo posto, però, non sfoggia una collana d’oro spessa un dito né dei capelli alla Don King.

Le chiedo se posso fare qualche domanda a Zero, e Caterina, che dice di conoscere e apprezzare il mio lavoro, risponde sorridente “certo!”

È esattamente in quell’istante che di fronte a tanta stima mal riposta mi rendo conto che non ho idea di cosa cazzo chiedergli.

Come in una di quelle volte in cui noti che la tizia con cui stai parlando ha delle zinne enormi, quando sai benissimo che l’unica cosa che non dovresti fare è guardargliele ma non riesci a evitare che lo sguardo ti cada esattamente lì per almeno un centinaio di volte consecutive, mi torna in mente in modo ossessivo solo la copertina di un libro sulla lotta NoTav in Val di Susa nella cui seconda edizione è stata aggiunta una tavola di ZC, salutata sul web come il contributo del “Compagno Zero Calcare”.

Ricordo distintamente di aver pensato che quel “compagno” riferito a uno con la poetica e la comicità di Zero suonava sul pezzo grossomodo come uno sbirro in borghese coi baffi che a una festa ti chiede se hai “della roba per fare gli spinelli.”

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Per quanto una volta ogni due pagine Zero ci tenga a ripetere che viene dai centri sociali, la sua ironia mi è sempre sembrata agli antipodi rispetto a un certo tipo di autoreferenzialità movimentista.

Così gli chiedo più o meno “Caro Zero Calcare come ti senti quando qualcuno ti chiama compagno?”

Lui risponde che non prova alcun disagio perché in fondo quella è la sua tribù, la sua gente. Allora gli faccio notare che un conto è sentirsi di sinistra e un conto utilizzare ancora certe parole. Al che lui risponde “Tu chiameresti camerata un camerata? Sono parole che servono più che altro al riconoscimento.” In effetti no, non chiamerei camerata un camerata e capisco il suo punto.

Mi nasce il dubbio di aver fatto la peggiore domanda del 2013, faccio a Zero i miei complimenti, saluto Caterina che ora mi guarda con un viso pieno di compatimento e mi defilo prima che mi scaglino addosso il Dottor Zoidberg, noto difensore dei centri sociali occupati.

Song song della Digos, tah voio dicere tah voio cantà.

Mentre rifletto mesto sull’occasione professionale persa fortunatamente incontro lei, che distribuisce abbracci gratis.

Però poi scopro che ha avuto una giornata peggiore della mia, perché un tizio abbracciandola l’ha praticamente stritolata, cosa che mi mette di ulteriore malumore. Attraversiamo il padiglione Games, fra giochi di parole che mettono a dura prova il primato di “Sathorday”.

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Vetrine con Lego per gay con tendenze sado.

Movimenti per i diritti civili.

Esperimenti letterari arditi.

E arriviamo ai videogiochi.

Giovane Batman gioca con vecchio Batman.

Non sono mai stato un fissato con i videogiochi, ma come tutti i miei coetanei ho qualche centinaia di ore di gioco alle spalle, seppure in un periodo storico in cui la realtà sullo schermo era ancora chiaramente distinguibile da quella fuori. Il mondo dove uccidevi e ammazzavi aveva una definizione più bassa rispetto a quello dove mangiavi Girelle e Tender Milka.

Girando fra decine di schermi in cui cose che sembrano vere e si possono muovere a seconda del volere del giocatore ha un effetto straniante, ma non nel senso che mi sarei immaginato.

Provo a guidare un galeone in mezzo a dei flutti oceanici in tempesta e ad abbordarne un altro, ma è tutto talmente perfetto e verosimile (ho una lunga esperienza di abbordaggi corsari nel 1700 e di equipaggi falcidiati dallo scorbuto che mi permette di affermarlo) che mi annoio in fretta.

Il fatto è che ho una concezione di gioco inteso come area definita e distinguibile dalla realtà, con limiti netti chiaramente percettibili, ed è questa consapevolezza che permette l’abbandono al vortice del meccanismo ludico, un po’ come quando scopi una ragazza in vacanza sapendo che il giorno dopo le dirai di cercarti su Fb come “Gianni Cuperlo”.

Un tempo una delle cose più divertenti che potevi fare con un videogioco era scoprirne i bug, andare a trovare quel movimento o quell’azione che mandava in crisi il funzionamento del gioco, ne mostrava il limite. Era un atto al tempo stesso filosofico e rassicurante che diceva “ehi questo è solo un gioco,” oltre a “un giorno spero di avere degli amici reali.” Ora rischi di viaggiare per giorni nel deserto di San Andreas senza arrivare mai alla fine del mondo in cui si muove il tagliagole che manovri con il controller.

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Ma mi rendo conto di quanto probabilmente sia un mio limite. Chi sicuramente non la pensa così è lui, un PPP ovvero un pimpatore pisano di Pc.

Commetto l’errore di chiedergli di spiegarmi cosa c’è dentro e riesco ad allontanarmi di lì solo dopo dieci minuti di “Gigaherz, INvidia, Cose Overclokkate, Alimentazioni da mille mila watt, cpu, ram” e altre parole di cui in massima parte ignoro il significato ma che d’istinto non mi giocherei a un aperitivo con una ragazza.

Il che mi porta direttamente davanti a uno stand dove posso sentirmi autenticamente anziano.

Usciamo anche da qui e finiamo al concerto dei “Miwa e i suoi componenti” che fanno cover di sigle dei cartoni animati, prendono l’opera omnia di Cristina D’avena e la rendono rock, ska, punk e qualsiasi altro genere potete aver sentito durante una festa del raccolto.

Anni fa avevo un amico che ascoltava esclusivamente sigle dei cartoni animati, era il genere di persona che sai essere folle ma non ti rendi conto quanto fino al giorno in cui scopri di aver rischiato la vita. In un colpo solo seppi che aveva mentito sulla sua ragazza (che non era la sua ragazza) sul suo voto di maturità (come se me ne fosse potuto fregare qualcosa) sull’università che non aveva mai iniziato e su tante altre cose su cui non aveva ugualmente alcun bisogno di mentire. Gli chiesi se almeno fosse sicuro di esistere veramente e smisi di frequentarlo. Non volevo diventare un profiler dell’FBI.

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La gente però qui sembra molto più normale di così e mentre osservo persone di tutti i tipi cantare con partecipazione emotiva e sguardo sognante la sigla di Rossana, mi rendo che il potere dell’immaginario infinitamente variegato che si riunisce a Lucca è il suo essere radicato nell’infanzia.

Quella che si riunisce al Comics non è una sotto-cultura, ma per diffusione, radicazione e trasversalità è autentica cultura popolare—sono solo i soliti pregiudizi crociani che ammorbano la classe intellettuale italiana che portano a pensarla come un fenomeno minore, settario.

Con questo non voglio dire che la maggioranza delle storie che coinvolgono principesse, orchi, eroine, eroi, gente che vola, gente che sailcazzo quali poteri ha, robot, animali che parlano, guerrieri, realtà postatomiche e mondi paralleli siano dei piccoli capolavori. Nella maggior parte dei casi (ma non tutti) sono al contrario delle cazzate.

Ma, vantaggio strategico pazzesco, non pretendono nemmeno di non esserlo.

Non voglio nemmeno negare che in questa immedesimazione in figure extra-umane non ci sia spesso un desiderio di rivalsa e di fuga temporanea da una realtà sempre più difficile. Perché è ovvio che questa sia buona parte del fascino che un evento come questo genera e del perché il numero di visitatori sia in crescita nonostante la crisi.

Ma da un’altra prospettiva in cosa si differenzia una cosa come il Lucca Comics da un classico momento carnevalesco che esiste dalla notte dei tempi?

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Solo che i personaggi e le storie sono state veicolate attraverso i media di massa diventando così patrimonio condiviso e “tradizione temporanea” per milioni di persone.

Uso l’evidente ossimoro “tradizione temporanea” perché non credo che Holly e Benji potrà influenzare l’immaginario delle prossime generazioni come ha influenzato la mia, ma al tempo stesso ha rappresentato per le persone della mia età un substrato condiviso e immediatamente riconoscibile, provvisto di una trasversalità tale da essere assimilabile per molti aspetti alle tradizioni propriamente dette.

Questo immaginario è il patrimonio condiviso che ci ha cresciuto, la balia collettiva delle ultime generazioni di italiani, molto più della religione, della politica e degli sceneggiati televisivi nostrani troppo piegati alle esigenze politiche per entrare in risonanza con il mondo reale.

Con un paio di ore di ritardo capisco allora che la domanda che ho fatto a Zero Calcare era tutt’altro che priva di senso. Inconsciamente mi strideva che quello che di fatto è un maestro quando si tratta di attingere a questo universo iconografico universale per piegarlo alle esigenze delle storie che racconta, fosse al tempo stesso così legato a una branca ideologica sostanzialmente minoritaria e ricca di problematiche molto specifiche, tanto da necessitare una parola che esprime appartenenza a quel gruppo.

No Tav?

In realtà però a ben vedere questa è la dimostrazione definitiva di come tali narrazioni siano autenticamente popolari, perché ognuno può abitarle portando con sé il suo sistema valoriale. È il modo di rapportarsi a esse che fa la differenza.

Ci si può immedesimare totalmente o si possono guardare con ironia proprio perché si coglie il loro funzionamento. Non a caso quella di Zero Calcare è spesso meta-ironia sui personaggi dei cartoni o dei videogiochi.

In un certo senso questo immaginario rappresenta l’equivalente di un genitore, puoi adorarlo e non superarlo mai, prenderne quello che credi sia il buono e lasciare perdere il resto, volergli bene sia pur nella diversità di vedute, rifiutarlo in blocco, combatterlo aspramente o fingere di dimenticarlo, come non fosse mai esistito.

Ma è un dato di fatto che sei cresciuto con lui.

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