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Storia di una storia

Un racconto di Tao Lin.

Traduzione di Alice Rossi Qui sotto, insieme alle illustrazioni di Anthony Cudahy, trovate uno degli ultimi racconti di Tao Lin. Il Secondo Annuale di Narrativa di VICE conteneva il suo “Taccheggiare da American Apparel”, poi diventato una novella. Da allora un po’ di cose sono cambiate per Tao, ma siamo sicuri che il futuro gli riserverà altrettante sorprese e che in ogni caso continueremo a sentir parlare di lui. Ma basta con le presentazioni: fatevi una bella tazza di tè, tirate le tende, spegnete il cellulare e preparatevi a godere di qualche momento di silenzio immersi nella pratica un po’ superata eppure splendida chiamata “leggere”. Una sera di marzo, entrando nel caffè col sorriso incontrollabile che si ritrovava stampato sul volto a quel punto di ogni nuova relazione—due settimane dopo il primo bacio—, Paul non si aspettava di trovare davanti a sé una Michelle sempre più grande mentre avanzava verso di lei (con una gamba piegata ingannava il tempo fissando un volantino), e fu inevitabile per lui provare un senso di comica paura di fronte al rapido e quasi minaccioso aumento di dimensioni della ragazza. È così che sarebbero andati i primi due mesi della loro storia, secondo quella dinamica di spassoso presagio al contempo tranquillizzante e sorprendente. Sembrava che non dovessero mai litigare, e nella particolare innovazione strutturale del loro rapporto (l’assenza di contrasti amorosi era una vera novità per Paul), la mancanza di aspettative future aveva assunto un’aura di intima eccitazione, come quando un bambino entra per la prima volta nella casa di un’altra famiglia. A un certo punto per Paul iniziò a diventare difficile stare lontano da Michelle. Una sera di maggio in cui Michelle era uscita con alcuni amici, steso sul letto della sua stanza a Brooklyn aveva piagnucolato un po’ (non senza sforzarsi, anche se la sensazione di abbandono era sincera) mentre il MacBook riproduceva una delle canzoni preferite di lei. Dopo qualche settimana e una cena a base di pasta, Paul si era docilmente lamentato, accusandola di non aiutare mai con i piatti sporchi. L’aveva fatto senza guardarla in faccia. Gli occhi di Michelle, fino a quel momento rivolti verso di lui, si erano delicatamente riempiti di lacrime. Paul aveva ricambiato lo sguardo, prima rapito e poi improvvisamente ebbro di emozione. Era la prima volta che la vedeva piangere. Lentamente avvicinatosi alla sua sagoma accoccolata sul parquet, l’aveva abbracciata chiedendole scusa. A luglio Paul oscillava spesso tra irritazione e muto abbattimento, come fosse l’unico al mondo a conoscere una serie di terribili verità—e non lo non era, ovviamente. L’assunzione di caffè, birra o farmaci riusciva comunque a risollevarlo, e da quel punto di vista gli piaceva quella che si era figurato come la versione di Michelle sulla questione droghe—per la quale la tolleranza alle sostanze le rendeva insostenibili per una vita senza sorprese, ma la parola “sostenibile” perdeva stranamente di significato in un contesto di temporaneità. A quel punto erano in un certo senso dipendenti dall’occasionale uso di droghe (divenuto, ad agosto, l’evento futuro su cui focalizzare la loro attenzione) per poter godere l’uno della compagnia dell’altra. Avevano il metadone, glielo procurava un amico di Michelle che era caduto dalle scale. Lo prendevano una o due volte la settimana, e per qualche ora facevano dentro e fuori dai negozi o andavano al cinema a vedere film che avessero un budget sopra gli 80 o sotto i due milioni di dollari. Dopo una cena consumata tra le luci soffuse di un ristorante biologico, tra costose insalate e bistecche giganti, si rifugiavano a casa di Paul. Rimanevano al buio, stretti, lasciando che l’effetto della droga, come una lunga progressione armonica, li portasse verso un’altra dimensione, appagante e senza meta come finale realizzazione apolitica. Si sarebbero risvegliati tra le dieci e le quattordici ore più tardi, al mattino presto o a pomeriggio inoltrato, mentre la luce fuori si tingeva di un rosso intenso. “Forza, dobbiamo sbrigarci” disse Paul una di quelle notti, fingendo una certa urgenza. Mentre, con passo instabile, si muoveva per il Sunshine Cinema sentiva Michelle dietro di lui. Sedutosi in una delle prime file aveva fatto scivolare la mano tra le cosce di lei senza alcuna intenzione sessuale, per poi abbandonarsi alla visione del film. “Brunch.” Erano a letto, poche ore dopo essere usciti dal cinema. “Focaccia di granturco.” “Già” replicò Michelle con voce sensuale, mentre il suo sedere ondeggiava a poca distanza da Paul. “Guacamole,” disse risoluto quest’ultimo, quasi stesse ordinando del cibo. Cercava di ricordare quale film avessero visto, ma l’unica cosa che gli veniva in mente era che a dicembre sarebbero dovuti andare a trovare i suoi genitori. “Sono contento di andare a Taiwan,” mormorò. “Lì dovrebbe far caldo, in quel periodo dovrebbe fare caldo.” Due giorni più tardi, dopo aver passato tre ore a navigare su Internet mentre il suo racconto se ne stava aperto in una delle tante finestre accumulatesi sullo schermo fino a diventare ingestibili, Paul era uscito dalla biblioteca diretto verso Washington Square Park per incontrare Michelle, di ritorno dall’ultima lezione della giornata. Si erano abbracciati per un tempo apparentemente lunghissimo, come se si stessero consolando a vicenda, per poi passeggiare privi di meta e senza tenersi per mano. L’unica vaga certezza era che a un certo punto, passati 60 o 90 minuti tra una libreria, due drogherie e forse anche tre ristoranti, si sarebbero fermati a mangiare. Dopo qualche isolato di silenzio, Paul disse qualcosa a proposito del ritardo con cui Michelle aveva risposto ai suoi messaggi qualche ora prima. Lei spiegò che era con Genie, e non aveva sentito il telefono. Davanti a loro c’era un ristorante in cui una sera di sei o sette anni prima, ai tempi del college, Paul aveva mangiato sushi con patate dolci, solo e annoiato. Michelle gli chiese se fosse triste. “Sì,” fece lui senza particolare emozione—“letteralmente,” pensò mentre si fermava a un incrocio e con un’espressione tetra guardava dall’altro lato della strada. Lei lo osservava con un senso di preoccupazione lieve e annoiato, provvedendo a sistemare la faccenda dei messaggi con uno “Scusa” che ripeté per tre volte. “È irriguardoso,” riprese lui mentre notava un piccolo cane lì vicino. Poi volse lo sguardo lontano, contro un muro di mattoni 15 metri più in là. Continuava a pensare “Mi odio, mi odio,” ma quello che disse ad alta voce fu altro: sarebbe andato in biblioteca. “Cristo, vai davvero in biblioteca?” chiese Michelle. “Già,” fece lui con una certa esitazione. “Vai in biblioteca.” Paul si era girato verso di lei con occhi inespressivi, leggermente teso. Durante i loro litigi capitava che di colpo un sorriso si allargasse sul suo volto, quasi fosse un attore soddisfatto della scena appena girata. In quei casi Michelle non poteva non fare altrettanto, in virtù dell’implicito accordo per cui “La vita è breve, e ognuno può scegliere di sentirsi come vuole, perciò lasciamo perdere e tutto torna come prima.” Ma quella volta non fu così. “Problemi di coppia,” scrisse Paul a Kyle sulla chat di Gmail. Era in biblioteca, e Kyle era l’unico amico che aveva continuato a sentire dopo aver conosciuto Michelle. Per lui, gli amici erano un mezzo per arrivare alle ragazze, mentre Michelle li vedeva come un fine. Ne avevano discusso insieme, arrivando alla conclusione che, in un certo senso, Paul aveva la scrittura, Michelle gli amici. “Forse dovreste passare un po’ meno tempo insieme,” digitò Kyle. “Ma mi sento solo quando lei è fuori con altri.” “Non è bello, dovresti sentirti bene, invece. O meglio, non c’è qualcosa di particolare che ‘dovresti’ provare in situazioni del genere.” Leggendo quelle parole, Paul provava un senso di paura non del tutto sarcastico. “L’ha detto Rilke,” aggiunse Kyle. “A quanto pare ho la tendenza a fare l’opposto di ciò che pensa Rilke,” replicò Paul pensando al pollo General Tso. L’etimologia di quel nome suscitava in lui un vago, beffardo interesse. “Ma no, penso che tu sia a posto,” concluse Kyle. “Non so. Credo che stasera non ci parleremo.” Non lo fecero, ma il giorno successivo Paul le inviò un sms e la sera si ritrovarono a cena. Bevvero anche una birra, guardarono un film e non discussero più fino alla notte dopo. Ad agosto erano stati dai genitori di Michelle, che erano separati ma entrambi residenti a Pittsburgh. Il padre gli aveva regalato le sue memorie, un tomo di 650 pagine che si era autopubblicato, mentre la madre li aveva portati a un ristorante cinese con soffitti altissimi e luci soffuse degni di un museo di storia naturale. La sera dopo a Paul era salita la febbre, e Michelle gli aveva portato del Tylenol Flu e una vellutata di broccoli. Erano rimasti a lungo sul suo divano ad angolo, stretti l’uno all’altra a guardare un film su una cieca impiccata per aver ucciso un uomo che l’aveva derubata e poi violentata. Il mattino successivo, Michelle, che si sarebbe trattenuta qualche giorno in più, aveva accompagnato Paul in aeroporto. Al contempo sentendosi leggero e simile a uno zombi sul punto di collassare, Paul era rimasto in fila per circa mezzora per poi scoprire che il suo volo era stato cancellato. Michelle era tornata a prenderlo, e lui aveva strisciato fino al sedile posteriore dell’auto immaginando una versione in salute di se stesso che se ne andava a spasso per l’IKEA mano nella mano con un’affettuosa Michelle che lo osservava sorseggiare un brodo di Miso. Poi, a occhi chiusi e sdraiato sul sedile, glielo chiese: “Possiamo andare all’IKEA?” “All’IKEA?” “Sì, possiamo andarci?” “Ok,” acconsentì lei qualche secondo più tardi. “L’abbiamo già passato?” domandò Paul non appena sveglio, tirandosi leggermente su. “Ho saltato l’uscita. Te l’ho chiesto, e non hai risposto.” “Dormivo.” “Vuoi ancora andarci?” “Perché non dovrei… te l’ho chiesto, e tu hai detto sì.” “Non sapevo se sarei riuscita a prendere l’uscita. Magari volevi andare a casa e stenderti un po’, è per quello che te l’ho chiesto. Ma non hai risposto.” “Dormivo.” “Vuoi che torni indietro?” “Fa’ ciò che credi,” disse poco dopo Paul, chiudendo nuovamente gli occhi. Si risvegliò nel parcheggio, e scese dalla macchina arrancando dietro a Michelle. “Sono un po’ arrabbiato con te, sai.” Michelle rispose che provava lo stesso nei suoi confronti, e lui incredulo e leggermente confuso biascicò “Avevamo deciso di andare all’IKEA, poi tu mi metti in questa situazione… neanche fossi un moccioso. Perché sei arrabbiata con me?” “Perché ti comporti come un bambino. Non gridare.” “Mi hai messo in questa situazione… come se avessi sbagliato qualcosa. Sono malato, non voglio che mi tratti così. Non stiamo più insieme,” concluse Paul sistemandosi nuovamente sul sedile posteriore, accortosi solo a quel punto di essere tornato verso l’auto. Con la voce bassa, a metà tra curiosità e risentimento, chiese a Michelle di riportarlo in aeroporto, percependo la distanza, come se stesse parlando a un tassista. “Ho bisogno di camminare.” Michelle uscì dalla macchina in lacrime. Dopo aver guardato fuori dal finestrino per qualche minuto—c’era un’aiuola, e poi la strada—Paul si era ricordato di quando da piccolo aspettava la madre sul sedile posteriore mentre lei faceva la spesa, e di quella volta in cui, seduto in una vasca piena d’acqua, si era spaventato perché non riusciva a vederne il fondo. Nel frattempo Michelle era rientrata in macchina, non piangeva più. “Puoi portarmi da te? Prendo un taxi domattina.” Arrivati a casa di lei, Paul si era sistemato a un capo del divano ad angolo—qualcosa si era risvegliato in lui—e aveva iniziato a lanciare sorrisi a Michelle, seduta dall’altra parte con un’espressione indecifrabile. Paul disse che voleva ancora stare con lei, e che non intendeva veramente dire quelle cose. Le si era avvicinato e l’aveva abbracciata, mentre complice con se stesso continuava a sorridere con la testa sulle sue spalle. Sull’aereo per New York, Paul era rimasto per 15 minuti a faccia in giù, come faceva a scuola, con le braccia sul tavolino reclinabile, tutto preso a odiare se stesso. Poi aveva bevuto un caffè e letto qualche pagina delle memorie del padre di Michelle: frustrazioni sessuali con l’ex moglie, alcuni commenti sul fallimentare studio legale che gestiva, cinque anni di “sesso trascendentale” con la nuova moglie. Nella sua precedente relazione, Paul aveva sperimentato un’insoddisfazione che si traduceva in una sorta di entusiasmo per il futuro, nella prospettiva di un rapporto maggiormente appagante che prima o poi sarebbe arrivato. Se nemmeno con Michelle, alla quale pure si sentiva più vicino (gliene aveva parlato qualche volta, a cuore aperto), riusciva a essere felice, allora in lui doveva esserci qualcosa di sbagliato, di geneticamente sbagliato, magari. Nelle settimane successive si erano nuovamente lasciati, una volta per uno (una sera, senza alzare la voce, Michelle aveva concluso che avrebbero potuto essere semplici amici. Paul aveva annuito impassibilmente, con un che di sarcastico. Più tardi Michelle gli aveva scritto un’email rimangiandosi quanto detto. Pochi giorni dopo era stato il turno di Paul, che con le sue mezze frasi aveva dato il via a dieci giorni di contatti a intermittenza), per poi rimettersi insieme, in modo più deciso di prima ma anche più vago, come un magnete che continua a staccarsi dal frigo finché qualcuno non decide di fissarlo con il nastro adesivo. A inizio ottobre, per circa una settimana, Paul aveva vissuto un periodo confuso: poteva scorgere una soluzione a quel profondo malessere, ma la forza di volontà o, per contro, il senso di apatia richiesti per farsene carico, erano a lui sconosciuti. Michelle passava sempre più notti nel suo dormitorio di Union Square, insieme alle amiche di Pittsburgh. Una sera confessò a Paul che aveva l’impressione che lui la “odiasse”. Paul rimase in silenzio per qualche istante, per poi ricordarle un recente episodio in cui era stato carino con lei. Michelle ribatté che era per effetto della droga, e venne subito contraddetta da Paul. Un’altra volta fu Paul a lamentarsi: era sempre lui, diceva, a offrire a Michelle di assaggiare la sua bevanda o il suo piatto. Ma alla disponibilità di lei di fare lo stesso, ora che sapeva quanto fosse importante, Paul aveva replicato che non gli interessava e che lei non avrebbe dovuto cambiare il suo modo di comportarsi. Un pomeriggio Michelle gli aveva mandato un’email in cui accennava alla possibilità di andare a studiare a Berlino, da febbraio a maggio; quella sera stessa, fuori da Whole Foods, dove si erano dati appuntamento per andare al cinema, Paul le confessò che non sapeva se avrebbe potuto stare con qualcuno il cui concetto di impegno in una relazione contemplava la possibilità di quattro mesi a distanza. Michelle spiegò che era un momento particolare della sua vita, ma più tardi, a letto, tornò sui suoi passi. “Forse non dovrei,” aveva detto pensosa. “Dove ci vedi tra cinque anni?” “Idealmente, insieme, direi,” aveva risposto Paul, anche se non immediatamente. Pochi giorni dopo, in attesa di prendere posto per una cena a lume di candela, Michelle gli confidò che aveva deciso di rinunciare al periodo di studio all’estero. Le sarebbe piaciuto andare a trovare Genie in Italia, però, verso Natale o Capodanno. Osservando il ciondolo a forma di trofeo sulla fibbia della cintura di Michelle, Paul si disse deluso all’idea che lei volesse trascorrere le vacanze senza di lui. Michelle cambiò nuovamente idea, anche lei non voleva stargli lontana. Avrebbe potuto vedere Genie nelle settimane successive al Capodanno. Dopo aver ingerito metadone e Xanax e condiviso con Michelle tre antipasti, Paul le spiegò placidamente che se voleva trascorrere una vacanza con Genie avrebbe dovuto farlo. L’unico modo per convincerla a restare, quello che avrebbe usato da quel momento in poi, spiegò (consapevole, non senza un certo divertimento, che le droghe lo stavano rendendo più razionale e articolato, come se stesse parlando dal futuro a una conferenza di logici e consulenti di coppia), consisteva nell’essere gentile con lei, invogliandola così a non partire. Non era la prima volta che lo diceva, lo sapeva, era più un promemoria rivolto a lui e Michelle—e alle due ex fidanzate, e per un certo periodo, alla madre: lamentarsi non era la sua condotta ideale. “Voglio stare con Genie, a Capodanno” riprese Michelle. Paul si disse sinceramente d’accordo, e lei lo raggiunse dal suo lato del tavolo. Si abbracciarono e presero a imboccarsi a vicenda, pescando dal piatto piccole porzioni di farcitura della torta di zucca dalla consistenza soffice e incolore degli omogeneizzati. Uno dei due ricordò che non avevano ancora acquistato i biglietti per Taiwan, e Michelle propose di farlo il giorno dopo. Paul annuì con distacco, perfettamente conscio che, sparito l’effetto della droga, non ne avrebbe più avuto voglia, anche se magari si poi sarebbe costretto a farlo, se Michelle avesse insistito. Ma lei non lo fece, e nonostante ciò le settimane successive passarono più tranquille, con meno litigi. L’agitazione di Paul aveva lasciato il passo a un atteggiamento filosofico—o forse, semplicemente, era ormai giunto al punto di non capire se la sua calma fosse una mancanza di pensieri irrazionali o qualcosa di più trascendentale—, che lo portava a reagire con uno scetticismo mai sperimentato prima, unito a un certo disinteresse per ciò che capitava intorno. Gli bastava rimanere calmo, anche se era sempre più difficile farlo senza la possibilità di sfogarsi con un litigio. Al ristorante, una sera, mentre tornava dal bagno verso il tavolo, la visione di Michelle seduta, intenta ad aprire una bottiglia di acqua di cocco e a bere, lo aveva fatto sentire paurosamente solo. Visti i suoi occhi cupi che la fissavano, lei gli aveva offerto dell’acqua. “No,” aveva replicato Paul con tono risentito, ricordandosi subito dopo che era stato proprio lui a dirle che non era importante che gli offrisse cibo prima di prenderne per sé. Nei minuti successivi, contro ogni logica e volontà, il risentimento si era fatto tanto più forte quanto il ricordo si allontanava, dissoltosi in una dimensione di semi-vita. Più tardi, diretti a Chelsea per il party di lancio di una rivista, Paul era deciso a non aprir bocca. Non avevano droga, né la volevano. Pioveva leggermente, e Paul aveva l’impressione di “muoversi nell’universo”, più che “camminare sul marciapiede”. Normalmente, una sensazione del genere lo avrebbe consolato, eccitato o quantomeno fatto sentire schizofrenico. Invece guardava avanti, con un’espressione indefinita. Aveva un po’ freddo, e cercava di ricordare dove si trovasse il novembre scorso. “Va tutto bene?” chiese Michelle dopo qualche isolato. “Sì,” fece Paul sovrappensiero. Dopo un lungo silenzio, Paul spostò lo sguardo su Michelle, che gli stava sorridendo. Per un attimo non poté trattenersi dal fare lo stesso, pur sentendosi orribile. Sì girò di nuovo dall’altra parte, lasciandosi sfuggire un “Cosa…” Da qualche parte in lui c’era la minuscola convinzione—e al tempo stesso speranza—che Michelle gli volesse abbastanza bene da tollerare e addirittura domare la sua negatività. “Niente,” rispose Michelle. “A chi stai sorridendo?” “A niente. Alla vita, a questa situazione.” Entrato nel locale, Paul aveva intravisto una persona di cui qualche anno prima aveva sparlato online, perciò si era subito diretto verso David, un tipo a posto con cui si era lanciato in una conversazione sui film visti ultimamente. Dopo avergli girato intorno per un po’, Michelle chiese sorridendo a Paul se voleva qualcosa da bere. Tornò poco dopo con la birra richiesta, e riprese a ciondolare nelle loro vicinanze, dando a Paul la confusa impressione che volesse stare da sola, o forse lasciarlo solo. Un’ora più tardi, al terzo o quarto drink, se ne stavano seduti in un angolo. Davanti a loro c’erano tra le 40 e le 60 persone, sembravano un grande gruppo di amici. Avevano messo della musica elettronica ballabile. Paul concentrò lo sguardo sugli stivali rossi di una donna, poi sugli occhiali spessi di un tizio, infine avvicinò la sedia a quella di Michelle e le toccò la spalla, esitante e temerario come un bimbo di due anni intento ad accarezzare un cagnone distratto. Era difficile decifrare l’espressione di Michelle. Paul le offrì di andare a cenare da qualche parte. “Tu vuoi?” e lui, “Non so.” Una sera di mesi prima, seduti sul bordo di un marciapiede di Lafayette Street nel bel mezzo di un litigio, la vista di Michelle, così bella, aveva distratto Paul fino a fargli dimenticare le sue ragioni. Con gratitudine crescente aveva pensato che lei gli volesse abbastanza bene da non andarsene alle prime avvisaglie di una discussione senza più rivolgergli la parola. “Voglio presentare Kyle a una persona, torno tra cinque minuti.” Paul si era alzato per raggiungere l’amico, che se ne stava da solo in mezzo al folto gruppo di persone, come fosse a un concerto. Sembrava ubriaco. “Ti va di conoscere Kristen?” gli chiese. L’aveva descritta come una specie di blogstar, mentre Kyle si era limitato a commentarne l’aspetto fisico per poi acconsentire. Presa un’altra birra, seguì Paul nel vestibolo della galleria, dove scambiò diverse strette di mano. Paul sorrideva nervosamente, passando da un volto all’altro fino a notare Michelle, seduta da sola contro un muro. Iniziò a camminare verso di lei con la sensazione che il suo stesso volto avesse qualcosa di diverso, come un sacchetto di plastica strattonato dal vento. Che lo avesse visto mentre sorrideva a un’altra ragazza? “Vuoi andare a casa,” le domandò. “Puoi stare ancora un po’ con Kyle se vuoi,” disse Michelle. “No, non voglio,” replicò lui guardando verso la galleria. L’impressione di qualche ora prima sembrava completamente folle: Michelle non avrebbe potuto consolarlo. “Sei sicuro?” “Lo saluto e torno, ok?” Si spinse con fare robotico tra la folla fino a raggiungere Kyle. “Penso che Michelle creda non le stia riservando abbastanza attenzioni.” “Ma dai. Dopo una festa da noi, Gabby mi ha detto che tu sei sempre attaccato a Michelle mentre io sono sempre in giro con altri, come se non la amassi.” “Cavolo. E tu, che le hai risposto?” “Che la amo e le do un sacco di attenzioni,” disse Kyle alzando la voce. Nel frattempo era tornata Gabby, voleva presentargli una vietnamita e il suo fidanzato, anche lui di nome Kyle, che teneva in mano due bottiglie di birra ancora chiuse. Paul comprese che la vita era strana e piena di trappole, e accennando un saluto mormorò, “Ora devo andare, ciao.” Entrando in corridoio non si accorse immediatamente di Michelle, rannicchiata a terra come un animaletto. Le si avvicinò, toccato dalla sua vulnerabilità, chiedendole perché si fosse allontanata così. “Ti stavo aspettando. Hai detto che volevi andartene un’ora fa.” Si alzò e prese a camminare, infilando le mani nelle tasche della giacca come in cerca di un’aerodinamicità che le permettesse di allontanarsi il più velocemente possibile da Paul. Continuava a piovere, ed erano senza ombrello. “Cosa vuoi fare?” le chiese lui. “Non so, non ho più fame.” Illuminati dai fari di un taxi in sosta, attraversarono in diagonale la Decima Strada senza aspettare di arrivare all’incrocio, per poi proseguire verso il centro sulla Ventiduesima Strada. “Possiamo fermarci un attimo?” mugolò Paul. Lo fecero, continuando tuttavia a guardare avanti. “Cosa c’è che non va?” riprese Paul con tono leggermente accusatorio. “Mi hai ignorato per tutta la sera.” “Ma se quando eravamo seduti mi sono avvicinato per abbracciarti.” “Una volta dentro ti sei messo a parlare con gli altri.” “Ho visto che ti eri allontanata, non capivo.” Sotto una tenda poco lontano c’era un cameriere, fissava un punto imprecisato all’orizzonte, disinteressato alla vicenda. “Non ti eri mai comportato così prima,” aveva piagnucolato Michelle ad occhi bassi e con un’aria stanca e spaventata. Erano rimasti così, sotto la pioggia che cadeva pigra su di loro, mentre Paul cercava di interpretare la situazione come se ci fosse un problema da risolvere. Ma non c’era nulla, o forse sì, eppure Paul non riusciva ad afferrarlo, come capiterebbe a un’ameba decisa a crearsi una pagina web in CSS. “Sto semplicemente perdendo interesse,” disse infine, improvvisando un po’. Michelle scoppiò in lacrime, confessando che non se lo aspettava, visto che nelle due settimane precedenti le era sembrato di essere più vicini che mai. “Credevo fosse per la questione del periodo di studio all’estero,” continuò Paul. “Torna alla festa, ne parliamo domani.” “Non credo dovremmo lasciarci proprio adesso,” fece Paul ancora confuso dalle parole di Michelle sul loro sentirsi più vicini. “Divertiti, coi tuoi amici.” “Aspetta. Se ognuno se ne va per i fatti suoi adesso… è finita.” “No, non è vero. Ne riparliamo domani.” “Vado a quegli eventi solo per trovarmi una ragazza,” disse Paul citando se stesso. Ci fu un minuto di silenzio, finché Paul non propose nuovamente di andare a cena insieme. “Non ho voglia di parlarti, adesso.” Paul spiegò che non era disposto a mandare avanti una relazione “in una situazione del genere.” Neppure Michelle lo voleva. “Se non ti va di fare niente io torno indietro,” si affrettò a concludere Paul. “Io vado a casa, buonanotte.” “Ok.” Non era mai successo prima che si separassero in quel modo. Paul girò su se stesso, attraversò la Ventiduesima e di nuovo la Decima, per poi accorgersi che Michelle stava correndo in sua direzione. Era di fronte a lui, ferma al semaforo rosso con l’aspetto di un’adolescente un po’ depressa—in quel momento, Paul aveva distrattamente ricordato quanto le piacessero i Nirvana. “Paul,” disse sfiorandolo. Si guardarono per un istante, immobili, poi Michelle ritirò la mano, lasciando cadere il braccio lungo il fianco. “Cosa stai facendo?” chiese un po’ sulla difensiva. “In che senso?” “Non stai tornando alla festa?” “Sì.” Paul si sentiva confuso. “Hai detto che stavi tornando lì.” “Lo credevo.” “Bene. Allora perché te ne stai qui?” domandò Michelle con una curiosità che sembrava reale, come se avesse dimenticato quanto era successo. “Tu… sei tornata indietro.” Si avvicinò a loro un gruppo di persone, forse provenienti dalla festa. Michelle aveva lasciato il marciapiede per appoggiarsi a una recinzione in metallo, mentre Paul era rimasto alla sua sinistra ad osservarla piangere per circa un minuto, pensando con filosofico distacco che avrebbe dovuto consolarla. Concentrato lo sguardo sulla schiena di lei, curva come se si stesse preparando a fare yoga, si sentì nuovamente tranquillo e le propose di mangiare qualcosa insieme. Le braccia di Michelle, strette contro la recinzione, sembravano formare uno spazio di difesa accessibile soltanto a lei—era questa l’impressione che aveva Paul. “Allora, cosa vuoi fare?” le chiese. Michelle si voltò leggermente verso di lui, i capelli sul volto. Con una voce stanca e lievemente contrariata, come si fosse appena svegliata, rispose prima di riappoggiarsi alla recinzione, “Tu che fai?” Paul ripeté l’offerta, aggiungendo che sarebbero potuti andare al Green Table. Fu allora che Michelle si mosse, allontanandosi in movimenti lenti e regolari con le lunghe gambe simili a lame di forbici. Con quell’andatura le ci sarebbero voluti migliaia di passi per arrivare da qualche parte, pensò per un attimo Paul. Ma sarebbe arrivata comunque, e con la leggerezza di chi non ha compiuto che un piccolo sforzo. C’è del lavoro dietro l’esistere? Le persone sembrano semplicemente trovarsi in un posto, meno un accumularsi di momenti concessi senza sosta da un futuro inaccessibile. Man mano che Michelle si allontanava, Paul comprese le implicazioni del pensiero di qualche istante prima, ormai dimenticato: l’universo nella sua integrità è un semplice messaggio, consegnato a se stesso, per non stare male—una retorica oscura e vasta contro il malessere. La cosa lo disturbava, c’era in lui il sospetto che a un certo punto della sua vita (ad aprile, a maggio, o anche anni fa, da ragazzo, o da bambino), le sue intenzioni e i suoi pensieri avessero preso la via sbagliata. Eppure lui aveva continuato a procedere in quell’errore, ritrovandosi talmente distante dal “giusto inizio” che l’universo (e se stesso, come parte dell’universo) si era scagliato contro di lui. Stanco, distratto, guardando il nulla (Michelle era ormai fuori dal suo campo visivo), Paul ebbe l’impressione di trovarsi immobile al centro di una negatività i cui contorni erano in continua espansione. Quella cupezza non gli impedì tuttavia di avvertire un certo umorismo, anche se ciò che sentiva era soprattutto la pioggia, inarrestabile e onnipresente come un messaggio inconoscibile. Si voltò nuovamente e riprese a camminare, scintillante di gocce, diretto verso la festa.