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Attualità

Abbiamo parlato con il direttore della fotografia del film in 3D di Jean-Luc Godard

Fabrice D’Aragno, il direttore della fotografia di "Adieu au Langage," ci ha detto che Godard è come un cuoco.

A metà del primo lungometraggio in 3D di Jean-Luc Godard, Adieu au Langage (Addio al Linguaggio), la coppia protagonista senza nome discute nella propria stanza. Mentre la donna si allontana dall’uomo, la scena si divide e si crea una spaccatura: la donna si ritrova nel campo visivo del vostro occhio destro, e l’uomo si trova in quello del sinistro, ma se si tengono entrambi gli occhi aperti i due personaggi appaiono insieme, ma sfuocati. Questa semplice ma sbalorditiva scissione è una delle scene più discusse del film di Godard e riconferma la reputazione di innovatore del cinema dell’ottantatreenne padre della Nouvelle Vague.

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L’idea del film è nata nel 2010 con il titolo Adieu au Langage, ricorda Fabrice D’Aragno, collega di vecchia data di Godard, direttore della fotografia e regista. Dopo aver testato la tecnologia 3D per realizzare un breve lavoro chiamato Les Trois Désastres per il film antologico, 3x3D, Godard ha voluto osare di più con questo mezzo per realizzare un lungometraggio. “Non avevamo stabilito di fare qualcosa di sperimentale,” dice D’Aragno. “Il cinema è già di per sé un esperimento. Ogni film è un nuovo film.” Si sono già stabilite regole per l’utilizzo della tecnologia 3D nel cinema, tecniche che sono state dettate dai blockbuster hollywoodiani, aggiunge D’Aragno, ma per lui e Godard , “l’iconoclasta”, il divertimento e la sfida consisteva proprio nell'andare contro quello che viene considerato un “buon” 3D.

Man mano, il copione ha cominciato a prendere forma, hanno trovato due piccole telecamere 3D che Godard avrebbe potuto portare sempre in tasca. Negli ultimi quattro anni Godard ha fatto delle riprese di Roxy, il suo cane, che sarebbe poi diventato un personaggio di primo piano nel film, mentre scorrazzava in riva a un lago e in una foresta. Nel frattempo, D’Aragno ha utilizzato una vasta gamma di macchine fotografiche, tecniche di esposizione, e addirittura delle gru per fare riprese appena poteva. Mentre era in Umbria a lavorare per un altro film, D'Aragno ha trovato un campo di girasoli rivolti verso il sole, con le nuvole che formavano un meraviglioso sfondo. Ha filmato la scena e l'ha aggiunta alla sua raccolta d’immagini da cui Godard avrebbe poi scelto quelle che preferiva.

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“Jean-Luc sceglie le immagini come un cuoco va al mercato per acquistare mele, legumi, pomodori o prugne,” afferma D’Aragno. “Il cuoco o regista memorizza tutte le immagini che ha avuto davanti e poi le combina per creare i film.” Invece di preoccuparsi di decifrare il significato del film, incoraggia il pubblico a sperimentarlo nello stesso modo in si sperimenta un’opera lirica, un quadro o una scultura―una festa per i sensi.

Il film si spinge oltre i confini della tecnologia 3D per creare un’esperienza visiva disorientante e, come nella maggior parte dei film di Godard, il risultato finale è un montaggio d’immagini che non aveva mai visto prima il grande schermo. Il titolo in grassetto rosso sembra scagliarsi contro di te. I corpi nudi dei due protagonisti sembrano tangibili e malleabili. Il primo piano e lo sfondo sono così teatralmente pronunciati che lo spettatore può esaminare ogni livello visivo: un iPhone scorre in avanti, mentre un libraio indietreggia, un vecchio film va in onda su uno schermo televisivo e una donna si spoglia, un cane esplora una foresta in technicolor nello spazio che si trova tra l’immagine e lo sfondo. In una scena un pennello che fluttua su un aereo picchietta su una tavolozza di acquarelli mentre una voce misteriosa dice, “noi dipingiamo ciò che vediamo. La cosa difficile è far stare ciò che è piatto nella profondità.”

“Se qualcosa può essere fatto in 2D allora deve rimanere in 2D. Un’espressione o un’emozione non hanno bisogno del 3D per essere approfondite,” afferma D’Aragno. Il 3D è soltanto uno strumento, aggiunge. Con esso si possono comporre strati, giustapporre immagini o addirittura creare collage di suoni. In Adieu au Langage il paesaggio sonoro rivela profondità e superficialità mentre delle voci si sovrappongono ad altre, rumori provenienti dall'esterno interrompono le conversazioni e i volumi crescono e decrescono.

Nonostante tutte le analisi che potrebbero decostruire l’opera di Godard, il processo di realizzazione è stato in realtà molto semplice. “In inglese, si dice ‘shooting’ riferendosi alle riprese di film, che si rifà alla nozione di sparare. Non è una bella terminologia. Noi preferiamo dire che un'immagine viene ricevuta,” spiega D’Aragno. Godard si affida a una sorta di istinto infantile per trovare e mettere assieme le immagini, aggiunge. I due e il loro piccolo team sperimentale hanno posizionato la fotocamera in diverse location, hanno regolato le luci, detto agli attori come muoversi―e la scena finale è il risultato di una magica ricetta di elementi che solo Godard, “il cuoco”, conosce.

Scoprite di più su Adieu au langage.