Ho passato una giornata in Stazione Centrale

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Ho passato una giornata in Stazione Centrale

A poco più di una settimana dal blitz con cavalli ed elicotteri per i controlli sui migranti, sono andato a vedere qual è la situazione.

Lo scorso 2 maggio, la Stazione Centrale di Milano è balzata alle cronache per un'operazione delle forze dell'ordine conclusasi con un controllo a tappeto sui migranti che ormai da tempo la popolano costantemente. Se la retata ha condotto a risultati anche concreti—decine di identificazioni, 52 portati in questura in questura di cui 12 espulsi, nessun arresto o denuncia—i motivi per cui ha fatto scalpore sono da cercare altrove. Innanzitutto nella teatralità dell'operazione, per cui sono stati dispiegati 300 agenti, con tanto di elicotteri e cavalli. E poi nella reazione della politica: mentre Salvini è accorso immediamente per lodare in diretta Facebook le forze dell'ordine, alcuni esponenti del Partito Democratico milanese hanno criticato le modalità dell'intervento e diverse parti della società civile hanno reagito con proteste che continuano in questi giorni.

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La situazione, del resto, è piuttosto delicata: se è innegabile che quella zona di Milano sia da tempo un luogo sensibile in termini di sicurezza, è naturale chiedersi se un controllo a tappeto con un tale dispiego di forze sia il modo più corretto, se non efficace, di intervenire. Poco più di una settimana più tardi, ho deciso di passare un ordinario pomeriggio nei dintorni della stazione per cercare di capire qual è il clima che si respira in un giorno qualsiasi e cosa è cambiato dal 2 maggio.

ORE 12:30

Giunto in piazza Duca d'Aosta in tarda mattinata, la situazione è piuttosto ordinaria per chi è familiare con l'area: persone che trascinano i trolley, ragazzi seduti sui muretti, ambulanti e, sul lato sinistro della piazza, una trentina di migranti; qualcuno giovane e spaesato con valigie alla mano, ma per lo più anziani. A spiccare sono piuttosto due jeep dell'esercito e una camionetta della polizia di stato parcheggiate vicino a una scultura a forma di mela gigante, la Mela Reintegrata di Michelangelo Pistoletto.

Avvicinandomi, noto che due giornalisti con una piccola telecamera a spalla stanno litigando con alcuni degli uomini seduti sul muretto. Sono troppo lontano per distinguere le parole, e quando riesco ad avvicinarmi i due giornalisti stanno andando via.

Quando mi rivolgo agli uomini del muretto chiedendo cosa sia successo nessuno risponde. Quando rifaccio la domanda, però, un uomo sulla cinquantina si alza e comincia a sbraitarmi addosso in francese. Cerco di capire cosa intenda quando dice che "tutti gli italiani sono ipocriti," ma non ottengo risposta. A quel punto interviene un altro signore, africano come il primo, che mi guarda un po' di sbieco e mi chiede chi sia. Rispondo presentandomi e dicendo di essere un giornalista, poi gli chiedo il suo nome. Si rifiuta di dirmelo ("il mio nome non è importante") e quando gli faccio notare che parla un ottimo italiano e gli chiedo da dove viene e da quanti anni è in Italia ride e non risponde.

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Ci tiene però a farmi un discorso. "Voi italiani siete fissati su una cosa: che tutta la gente che vedete qui proveniente dall'Africa sia ignorante, analfabeta. Ce l'avete proprio ficcato in testa. E voi giornalisti italiani ci chiamate barbari: ma come dicevano i romani, i barbari sono quelli che non parlano la tua lingua, non cattive persone."

Poi mi parla dei danni del colonialismo italiano e del fascismo, ma il suo punto di vista mi stupisce: secondo lui, l'errore è stato quello di non aver saputo imporre un vero colonialismo, con un apparato statale forte, e di aver abbandonato l'Africa dopo la guerra, rinnegando il fascismo e le cose buone fatte da Mussolini (sic). Rimango in silenzio, un po' perplesso. Il mio primo approccio non è stato dei migliori.

Alcuni indumenti stesi su un prato al lato sinistro della piazza.

ORE 13:30

L'uomo senza nome mi sta ancora parlando quando noto altre due camionette della polizia arrivare e disporsi sulla piazza. Nessuno tra i presenti sembra minimamente preoccupato, quindi chiedo loro che rapporto hanno con la polizia—anche rispetto al blitz della settimana prima. Mi risponde un uomo di 62 anni proveniente dalle Mauritius. Mi dice che in questo lato della piazza, quello sinistro, la polizia non va a dare fastidio: perché lì ci sono loro, che hanno il permesso di soggiorno da anni. Tutti i presenti confermano di averlo, alcuni me lo mostrano. Ma è da tempo che l'azione della polizia contro i sans papier si è inasprita, e ogni tanto portano via anche dei loro amici.

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Le loro storie hanno tutte uno sfondo simile: sono arrivati in Italia negli anni Ottanta o all'inizio degli anni Novanta, molti hanno studiato nei paesi di origine (Omar, un cinquantacinquenne nato a Casablanca, dice di aver fatto l'università, Luciano, un ivoriano di cinquant'anni, conosce alla perfezione francese, inglese, italiano e tedesco), e tutti hanno perso il lavoro nell'ultima decina d'anni. Alcuni da allora vivono per strada; quelli che ancora hanno una sistemazione vengono qui per passare il tempo tra amici.

Hanno quasi tutti nostalgia dei tempi della loro immigrazione, e ricordano gli anni Novanta come un'età dell'oro, in cui abbondavano lavoro e speranze poi naufragate. Omar ha perso il lavoro, è stato abbandonato dalla moglie e ha dovuto lasciare la casa dove aveva tutti i suoi libri e i suoi dischi; un brasiliano sulla sessantina, che lavorava come muratore, è caduto da un tetto, ha perso l'uso del braccio destro e per questo è stato licenziato dal padrone per cui lavorava da 15 anni con una liquidazione di 900 euro.

ORE 14:30

Omar e Luciano, che sono quelli con cui ho avuto modo di parlare più a lungo, decidono di andare a prendersi una birra a un supermercato poco lontano e io li accompagno. Lungo la strada mi presentano Rex, il cane di un senzatetto romeno a cui entrambi sono molto affezionati. Anche nel supermercato sembrano conoscerli tutti: i commessi li salutano, ridono e scherzano con loro.

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Quando torniamo sul muretto, Omar mi chiede se può usare il mio smartphone per sentire le sue canzoni preferite, visto che qualche giorno fa altri abitanti della piazza l'hanno aggredito per rubargli il telefono. In ordine mi fa ascoltare due pezzi egiziani, "Ya bint baladi" di Farid El Atrash e "El hob kullu" di Umm Kulthum, e "Azzurro" di Celentano.

Un gruppo di persone in Piazza Duca d'Aosta.

ORE 15:30

Il 2 maggio, l'operazione di polizia è iniziata più o meno intorno a quest'ora.

Finisco la mia birra e per evitare anche di finire i miei giga di internet dico a Omar che devo andare a intervistare qualcun altro, ma che sarei tornato più tardi. Quindi mi dirigo verso un baracchino nella parte della piazza con la maggior concentrazione di migranti. Il piccolo negozio vende gadget e souvenir per turisti. Chiedo al gestore, Sharif, proveniente dal Bangladesh, cosa pensa della situazione. Sharif scuote la testa e fa uno sguardo cupo.

"Rovinata, l'hanno rovinata. Fanno paura ai clienti, i turisti hanno paura e non passano. Questi qui vendono droga, rubano, devo avere non due, ma quattro occhi, tutto il giorno. Sono in questo negozio da nove mesi, e non sono mai stato tranquillo." Gli chiedo cosa pensa dell'operato della polizia, e Sharif scuote di nuovo la testa. Secondo lui, le istituzioni risolveranno mai la situazione. Decido di fare pochi passi e di conoscere un po' degli altri migranti che stazionano sui muretti. Sono tantissimi, molti stanno mangiando—per lo più prodotti di una rosticceria di via Vitruvio che vende kebab a un euro e 50—e bevendo delle CocaCola Zero che alcune ragazze distribuiscono gratuitamente nella piazza. Molti ascoltano e cantano musica dancehall, alcuni mi chiedono se voglio da fumare e maneggiano panette di hashish.

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ORE 16:30

Un ragazzo nota la mia macchina fotografica e mi chiede in inglese se sono un giornalista. Gli dico di sì, e lui dice che vuole raccontarmi la sua storia. Sì chiama Mamadou, viene dal Gambia ed è in Italia da due anni, e da due anni non ha un lavoro e dorme qui davanti alla stazione. È scappato dal Gambia perché il patrigno—che non lo accettava in quanto nato dal precedente rapporto della madre—ha cercato di ucciderlo: mi mostra cicatrici da ustione con acqua bollente e di coltellate. Mi spiega che è arrivato qui con un barcone che è affondato, e che la maggior parte dei suoi compagni è annegata. La vita che fa in Italia non è quella che voleva, ma non può tornare indietro né andare altrove.

Mi lascia il suo numero di telefono, spera di trovare un lavoro, e qualcuno che possa aiutarlo. È l'unico di tutti i migranti della piazza con cui ho parlato a concedermi di fotografarlo. I più si vergognano e hanno paura che parenti o datori di lavoro li riconoscano e scoprano che vivono per strada.

Mamadou, intervistato sopra.

A questo punto vado a parlare con un ragazzo che rivende biglietti dei pullman che portano agli aeroporti, quelli che stanno tutto il giorno seduti in piccoli gazebo fuori dalle uscite principali della stazione urlando "Malpensa? Orio al Serio?" ai passanti. Si chiama Giuseppe, è italiano, sulla trentina. Chiedo anche a lui come vive la situazione coi migranti.

"Di qua c'ho la polizia, davanti c'ho i vigili urbani, dietro c'ho i carabinieri, e a fianco c'è l'FBI [ride]. Quindi mi sento sicuro. Ogni tanto qualcuno si comporta male, alcuni sono sporchi, fanno vandalismo: un po' di disagio lo creano, se arrivano i turisti a Milano vedono accanto all'immigrato buono che viene, mangia e se ne va quello cattivo che piscia davanti a tutti." Dice poi che le forze dell'ordine hanno esagerato col loro operato, con una pressione eccessiva: la presenza costante di camionette su camionette e di militari incute timore perché dà l'idea di un assetto da guerra. Tutto sommato, conclude, per lui e i suoi colleghi il lavoro c'è sempre.

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Giuseppe, intervistato sopra.

ORE 18:00

Dopo essermi concesso un'oretta e delle patatine dal McDonald's, il locale più economico in piazza, torno nella parte destra, dove sta sempre il grosso dei migranti. Con il passare della giornata sono aumentati, e io faccio conoscenza con Nouroudine, proveniente dal Niger. Ha l'aspetto curato, degli occhiali appariscenti ma non di marca e delle cuffie vistose che vogliono imitare le Beats by Dre.

Nourudine mi racconta di essere andato via dal Niger nel 2008 per scappare dalla povertà. È arrivato con un barcone, in un viaggio senza vittime. Fino al 2012 ha lavorato come giardiniere per il comune, ottenendo il permesso di soggiorno e riuscendo a pernottare nei dormitori. Ma ormai da cinque anni è senza lavoro, e vorrebbe tornare in Niger. Qui la storia si fa tragicomica: mi dice che avendo il permesso di soggiorno non può essere rimpatriato. Il viaggio costa molto per un disoccupato, ma potrebbe risparmiare: il vero problema è che l'ambasciata del Niger non gli rilascia il passaporto perché non ha con sé il certificato di nascita—che è rimasto a casa sua, in Niger. Gli hanno consigliato di andarlo a prendere—in Niger.

Comunque Nourudine confida che troverà un modo o per tornare a casa o per fare fortuna. A questo punto qualcuno mette una canzone reggae in cui si sente distintamente la parola Babylon, e Nouroudine mi guarda con un sorriso amichevole.

"Man, Italy is Babylon! Babylon, not Zion!"

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ORE 19:00-20:30

Mentre mi allontano dal gruppo mi fermo a parlare con un tassista. Non ha molta voglia di fare conversazione, e rispetto al blitz mi dice che la situazione per lui è come prima: i clienti continuano a esserci, e nell'atmosfera non nota alcuna differenza.

Ad aspettarmi nello stesso punto di prima, dall'altro lato della piazza, ci sono Omar e Luciano. Con loro c'è anche un uomo sulla quarantina che si presenta come Jimmy e mi racconta di venire dal Kenya. Tutti e tre aspettano i volontari che portano da mangiare ogni sera. Hanno con sé diversi quotidiani, probabilmente abbandonati nei dintorni della stazione. I loro discorsi sono estremamente variegati e complessi. Li guida Luciano, che è acuto e informatissimo: ragiona con gli altri dei metodi di approvvigionamento di Boko Haram, con Jimmy della situazione dei profughi somali nel campo di Dadaab in Kenya e dei problemi con il gruppo terroristico Al-Shabaab, degli scenari aperti dalle recenti elezioni francesi.

Interrompo una di queste conversazioni chiedendo loro se abbiano idea del perché non ho ancora incontrato nessuno che stia in Italia da meno di due anni. La situazione dell'accoglienza in zona è cambiata di molto dai tempi del mezzanino—così come sono cambiate la natura dei flussi e lo scenario generale—e l'hub di via Sammartini, luogo di passaggio di moltissimi migranti che arrivavano o ripartivano dalla stazione, d'ora in poi ospiterà solo richiedenti asilo. Già dall'inizio di maggio alcuni degli ex ospiti sono finiti a dormire per strada.

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Anche per questo motivo, mi aspettavo di trovare molti più transitanti. Omar mi dice che è perché da quando c'è stato il blitz gli irregolari si nascondono nei dintorni, anche perché la piazza pullula di agenti in borghese. Al limite arrivano quando fa buio, per prendere il cibo portato dai volontari, ma non si fanno più vedere.

Unità medica in Piazza Duca d'Aosta.

ORE 21:00-22:00

Quando torno, dopo la pausa che mi sono concesso per cena, la piazza si è improvvisamente quasi svuotata. Dalla parte sinistra non c'è più nessuno, solo militari e polizia. Omar, Luciano e Jimmy sono spariti. Decido di andare dalla parte destra per vedere se sono arrivati i volontari delle associazioni a portare del cibo, e magari per riuscire a parlare con qualcuno di loro. Anche quel lato, se non deserto, ha una concentrazione di persone molto inferiore in confronto a quella di due ore prima. È arrivata un'unità mobile medica di volontari, ma non vedo nessuno che porti da mangiare.

Mentre provo a scattare qualche foto si avvicina un adolescente, che parla italiano ma non riesce ad articolare e ha movenze strane, come fosse sotto l'effetto di qualche sostanza. Mi chiede del tabacco e delle cartine, poi dei soldi. Mi insegue per tutta la piazza, continuando a chiedermi soldi.

Mi dirigo verso il centro, dove sono ancora posizionati i militari, e quando mi sposto di nuovo verso sinistra per scattare qualche ultima foto i pochi rimasti mi lanciano un coro di insulti. Il clima si è fatto più teso che durante il giorno e dele persone con cui ho parlato nelle ore precedenti non c'è più traccia.

Alle 22:00 decido di tornare a casa, perché non credo accadrà più nulla che sia degno di nota.

A poco più di una settimana dal blitz, la sensazione che si ha passando una giornata davanti alla Stazione Centrale è che, nella percezione dei suoi abitanti, poco o nulla sia cambiato. Non ho trovato nessuno, né tra gli stranieri né tra gli italiani, che l'abbia individuato come un punto di cesura di qualche tipo. L'unica differenza pare essere che i migranti appena arrivati si nascondano invece di stazionare in piazza.

Tra i due lati c'è chi tira avanti onestamente e c'è indubbiamente anche della delinquenza, soprattutto furti e spaccio, reati compiuti da persone disperate per la mancanza di lavoro e prospettive di inclusione sociale. In definitiva, il problema pare proprio essere di tipo strutturale, sociale, da risolvere attraverso politiche adeguate; non è certo un problema di ordine pubblico da liquidare con arresti e retate.

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