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Ho fatto sesso con il mio capo, ma ci ho guadagnato solo delle malattie veneree

La mia coscienza mi diceva che fare sesso con il mio capo non era una buona idea, ma alla fine l'ho fatto comunque. Così ho imparato sulla mia pelle che è bene non mescolare lavoro e piacere.

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Era il mio ultimo semestre di università ed ero al verde. Ero quasi arrivata al punto di non riuscire a mettere insieme nemmeno i soldi per mangiare, quando sfogliando un giornale locale avevo trovato un annuncio per un lavoro come cameriera e barista in un locale piuttosto elegante dove suonavano jazz, nel quartiere più ricco della città. Nell'annuncio era specificato che i candidati avrebbero dovuto presentarsi di persona: sono andata lì, ho mentito su quanta esperienza avessi e sono stata assunta subito.

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Il tizio che mi ha assunta—il mio nuovo capo—era davvero bello. Era un po' più grande di me, aveva dei boccoli biondi che lo facevano somigliare a un dio greco e suonava la chitarra in un gruppo che faceva cover di John Denver. Avevo 24 anni, e all'epoca questo era abbastanza per farmi impazzire. Ho cominciato a lavorare due giorni dopo, e ho realizzato subito che in realtà era uno stronzo—sempre serio e minaccioso, si vedeva che era nel giro dei locali da troppo tempo—e che volevo portarmelo a letto.

Abbiamo lavorato insieme per qualche mese, flirtando un po' ogni tanto, finché una sera mi ha chiesto se mi andava di "guardare un film o fare qualcosa" dopo il lavoro. Sappiamo tutti cosa significa una domanda del genere. Dato che da mesi speravo che succedesse qualcosa tra noi due—in più, era anche un periodo di magra—ho accettato.

Così siamo andati a casa sua, abbiamo visto 20 minuti di un film di cui non mi ricordo niente e abbiamo cominciato a baciarci. Ma la mia coscienza mi diceva che fare sesso con il mio capo non era una buona idea, e in più volevo farlo aspettare. Per cui quella sera non siamo andati oltre.

Poco tempo dopo mi ha invitata di nuovo a casa sua. Ci siamo seduti sul suo letto e abbiamo cominciato baciarci, solo che quella volta siamo rimasti subito senza vestiti. Di solito in fatto di sesso sicuro sono molto responsabile (niente preservato, niente sesso), ma in quell'occasione mi sono lasciata un po' trascinare dal momento. Era già dentro di me da un po', senza preservativo, quando gli ho chiesto di fermarsi. Non prendevo la pillola e l'ultima cosa che volevo era dover dire ai miei genitori che mi ero fatta mettere incinta da un barista che nel tempo libero faceva il musicista, e che come se non bastasse era anche il mio capo.

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Il mattino seguente sono partita per andare a trovare degli amici. Lui mi ha accompagnata all'aeroporto e per tutto il tempo in cui sono stata lontana mi ha mandato dei messaggi tanto carini quanto idioti, facendo progetti per quando ci saremmo rivisti. Mi piaceva.

Ma qualche giorno dopo, mentre ero in vacanza, mi sono accorta che laggiù c'era qualcosa che non andava. La mia vagina era come un rubinetto in perdita. Ogni tanto, pulsava così dolorosamente che sembrava qualcuno ci stesse versando sopra dell'acido. Ho provato a godermi la vacanza, ma era impossibile. Fare la pipì era straziante. In certi momenti mi prudeva così tanto che non riuscivo a camminare né a dormire. A essere sincera, non riuscivo proprio a fare niente. Inoltre, emanava un cattivo odore e ho iniziato ad avere delle strane perdite.

Ho iniziato a sospettare che tutto ciò fosse un regalo del mio capo, ma non volevo ancora dirglielo—prima di tutto, perché era il mio capo. In più, non c'è niente di meglio che accusare una persona di averti trasmesso una malattia venerea per sabotare sul nascere una relazione. E dopotutto, magari si trattava solo di un caso di candida particolarmente grave.

Un paio di giorni dopo, per poco non sono svenuta alzandomi dal letto. È stato allora che ho capito che era una cosa seria. Sono andata in una clinica per le malattie sessualmente trasmissibili e ho aspettato in una stanza affollata, con la vagina che bruciava e prudeva. Mentre aspettavo, mi chiedevo se mi sarebbe mai tornata la voglia di avere a che fare con un pene. Alla fine è arrivato il mio turno e mi sono sdraiata su un lettino bianco, esponendo la mia vagina alla frescura dell'aria condizionata. L'infermiera mi ha fatto dei tamponi mentre fissavo dei poster attaccati al soffitto che raffiguravano dei gattini.

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Quando poi l'infermiera è tornata da me, dal suo sguardo ho capito che non aveva delle buone notizie da darmi. Il test dell'HIV era negativo—ma nonostante questo avevo contratto una malattia sessualmente trasmissibile. In realtà, ne avevo contratte cinque: gonorrea, sifilide, clamidia e vaginosi batterica; in seguito, dal PAP test è emerso che avevo anche il papilloma virus.

Ero sbalordita. È possibile che alcune di queste infezioni le avessi già, che le stessi covando. Ma era improbabile, perché non facevo sesso da più di quattro mesi. Inoltre, in quel caso avevo sempre usato il preservativo e mi sottoponevo regolarmente a tutti i test. Se avevo preso tutte queste malattie dalla stessa persona, il mio capo era l'uomo con il pene più malato d'America.

L'infermiera mi ha fatto due iniezioni di antibiotico nel sedere e mi ha prescritto una manciata di pastiglie diverse, dopodiché mi ha lasciata andar via con la vagina piena di infezioni e il cuore pieno di rimorsi. Questa volta avevo fatto davvero una cazzata. Ma il peggio era che non finiva lì: adesso dovevo dire all'uomo che mi pagava lo stipendio che mi aveva quasi ucciso la vagina.

Avevamo già deciso di vederci quella sera stessa in un ristorante. Quando sono arrivata avevo solo due certezze: la prima, che non gliel'avrei detto in un locale affollato, davanti a tutti; la seconda, che avevo bisogno di bere per affrontare la serata. Mi sono scolata almeno cinque birre e sono stata più o meno sbronza per tutta la durata della cena.

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Dopo mangiato, siamo andati a casa sua. Ha messo su Harold e Maude—che una volta era il mio film preferito, ma da allora è associato per sempre a questi brutti ricordi. Mi sono seduta sul divano, all'angolo opposto rispetto a quello dov'era seduto lui, e mi sono preparata a dargli la brutta notizia.

Prima che potessi dire qualcosa, mi ha detto: "Dobbiamo parlare." Ho tirato un sospiro di sollievo. Sì! ho pensato. Lo sa già e mi risparmierà la fatica. L'ho guardato e ho annuito.

"Mi sa che dobbiamo smettere di vederci," ha detto. "Sei troppo piccola per me."

Non sono riuscita a fare nient'altro che rimanere lì a fissarlo. Ero senza parole. Prima mi aveva infettato con ogni malattia venerea esistente e adesso mi stava scaricando?

Grazie alla forza che mi dava tutta la birra che avevo bevuto, ho cominciato a urlargli che mi aveva attaccato cinque (cinque!) infezioni. Lui ha negato, dicendo che era impossibile e che non poteva essere stato lui. Sono scappata fuori dall'appartamento.

Di solito per lasciare una persona basta urlargli, "Non voglio mai più vederti!" e sbattergli la porta in faccia. Ma quando la persona che stai lasciando è il tuo capo, non è così semplice. La sola idea di tornare al lavoro mi terrorizzava.

Il giorno dopo, siamo stati convocati entrambi per una "riunione obbligatoria." Ero nervosa, ma dato che alla riunione erano presenti tutti i miei colleghi sono riuscita a evitare di incrociare il suo sguardo. Per uno strano scherzo del destino, durante quella riunione siamo stati informati della chiusura del locale—con effetto immediato. Quello stesso giorno ci hanno anche pagato l'ultimo stipendio.

In un certo senso, era un miracolo. Non avrei più dovuto vederlo. Ma c'era anche un lato negativo: ero disoccupata, senza soldi e affetta da cinque diverse malattie sessualmente trasmissibili. Adesso capisco perché la gente dice di non farti mai il tuo capo.