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Rave, techno e calcio: breve storia della mia squadra amatoriale

La rosa dell'Inter Avinit era ufficialmente composta da 14 giocatori, ma nel corso della stagione si sono avvicendate in campo più di 50 persone, di solito tizi fattissimi reclutati a fine serata
Foto di Jo Gallagher.

È l'estate del 1998, e Il Grande Lebowski sta insegnando a una generazione di scansafatiche come sopravvivere agli alti e bassi degli sport di squadra—e della vita, dato che gli sport di squadra sono insieme una metafora e un allenamento per le difficoltà della vita. I miei piedi non sono particolarmente buoni, ma che importa? In fondo è un gioco. Nel frattempo, in Francia, Zinédine Zidane, Lilian Thuram e Youri Djorkaeff stanno dando una bella lezione a quel bigotto di Le Pen, e gli mostrano che il calcio è in grado di unire come nient'altro al mondo (tranne, forse, la musica e la droga).

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Quella stessa estate, i ragazzi del Samovar soundsystem—che era nato qualche anno prima e che fino ad allora non aveva fatto che suonare techno ruvidissima a feste clandestine o in locali bui e malsani—decidono di unire il calcio alla musica e alle droghe, fondando una squadra e iscrivendola al campionato dilettantistico di Nottingham. Non sarebbe dovuta diventare una cosa seria. Pensate a un intero romanzo sul calcio scritto da Irvine Welsh e avrete una mezza idea di come sono andate le cose.

Naturalmente la squadra è stata chiamata FC Inter Avinit, un riferimento neanche troppo sottile all'Inter e all'ethos espresso dal disco di Liberator DJ, It's not Intelligent… It's not from Detroit… But it's F****n 'Avin It! Riconoscerete che è un nome appropriato per la squadra di calcio di un soundsystem techno. Non so quanto tempo abbiate passato in compagnia dei membri di un soundsystem techno, ma le dieci di mattina di domenica non è proprio il momento in cui sono più in forma. Di positivo c'è che è abbastanza probabile che siano ancora svegli.

Io sono entrato in squadra quando il campionato era già quasi a metà. Non ero del loro giro, ma per puro caso una mattina un mio amico aveva ricevuto una telefonata. Chiedevano se c'era qualcuno disposto a giocare, e dato che ero insieme a lui è a me che lo aveva chiesto: "Sì, va bene. Gioco. Perché no." Inizio così, e finisco per giocare nella squadra finché non smette di esistere (cioè per una stagione). La rosa dell'Inter Avinit era ufficialmente composta da 14 giocatori, ma nel corso della stagione si sono avvicendate in campo più di 50 persone, di solito tizi fattissimi reclutati a fine serata a cui veniva assegnato il nome e il numero di uno dei 14 giocatori della squadra in caso questi avessero ricevuto un cartellino giallo. Ogni ammonizione corrispondeva a una multa di 5 sterline. Se la squadra veniva scoperta a schierare un giocatore non registrato, la multa era di 25 sterline.

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Il campionato aveva l'obiettivo di mantenere intatta la buona fama del calcio dilettantistico della domenica, e uno dei membri della vecchia guardia che lo organizzava una volta ci ha chiesto in modo molto educato: "Non è un problema se gli spettatori bevono birra mentre guardano la partita, ma se proprio devono farlo anche i giocatori, non potrebbero essere un po' più discreti?"

Il calcio domenicale è chiaramente nato per smaltire le sbronze della notte precedente, non per sbronzarsi ulteriormente. Di conseguenza, le birre che a fine primo tempo ci smezzavamo con la nostra curva di ultrà non erano viste proprio di buon occhio. "E per favore, potreste evitare che i vostri cani entrino in campo mentre giochiamo?" "Certo, scusa Trev. Non succederà più."

La maglia dell'Inter Avinit.

Le nostre divise erano a strisce arancioni e nere—sì, gli hipster del calcio—e prudevano un sacco. Tenevano troppo caldo quando faceva caldo e non ti scaldavano abbastanza quando faceva freddo. E accumulavano un sacco di elettricità statica. Era una di quelle magliette di fibre sintetiche che l'uomo non dovrebbe indossare e che si impregnano dell'odore acre della sconfitta. Anche per questo motivo, non uscivamo mai dal campo puliti e profumati. Una volta abbiamo giocato in un campo fangoso, in cima a una collina ventosa, e non siamo riusciti a uscire dalla nostra metà campo per tutto il primo tempo. C'è un famoso adagio che circola nel mondo del calcio: se i rinvii del tuo portiere non escono dall'area di rigore, la tua squadra sta soffrendo. Be', quel giorno si è dimostrato vero. Ma nonostante questo non ci siamo persi d'animo.

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Ovviamente nella ripresa le sorti della partita non sono esattamente cambiate, ma almeno siamo riusciti a impedire ai loro difensori di stare seduti sulla linea di fondo. Una vittoria morale, insomma. Per quanto riguarda il risultato, gli avversari erano arrivati in doppia cifra, 17 a zero forse. A dire il vero non me ne ricordo tanti, di risultati, così come non ricordo granché dei campi, degli avversari né dei compagni di squadra casuali che saltuariamente si univano alla squadra—buona parte di quelle mattine sono sprofondate nell'abisso dell'oblio insieme alle notti che le precedevano.

Ci sono state tre o quattro partite in cui il risultato finale è arrivato in doppia cifra. Per gli avversari, ovviamente. Noi eravamo il San Marino, l'Andorra o il Liechtenstein del calcio domenicale di Nottingham. Quelle fighette dei nostri avversari non bevevano birra nell'intervallo, né si presentavano in campo dopo aver dormito 18 ore in 11. La nostra disorganizzazione tattica aveva delle buone spiegazioni. Vedetelo come un esperimento di auto-determinazione, se vi va, ma a dire il vero giocavamo con un modulo che ricordava il moto browniano. A volte, quando eravamo a corto di energie, ripiegavamo su un 10-0-0 che non era così invalicabile come poteva sembrare. Se si fosse trattato di parcheggiare un caravan avremmo avuto molte più opzioni a disposizione, visto che buona parte dei nostri ultrà viveva nelle roulotte. L'unico tatticismo un po' sofisticato che ci concedevamo era che ci piaceva giocare tra le linee.

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Gli scontri duri, dentro e fuori dal campo, sono continuati per tutto l'inverno. Non avevamo fatto punti, ma una volta avevamo fatto un goal assurdo—un pallonetto da dentro l'area di rigore—e c'era bastato quello. In una partita siamo anche riusciti a portarci in vantaggio per 2 a zero, solo che dopo aver segnato il nostro attaccante si è tirato un'enorme striscia di ketamina che si era preparato di nascosto prima del calcio d'inizio, e siamo stati costretti a sostituirlo dopo che aveva iniziato a vagare per la metà campo avversaria, completamente allucinato e sempre in fuori gioco. La situazione iniziava a somigliare a un sogno erotico di un autore di Channel 4.

Le sconfitte non ci demoralizzavano: eravamo una squadra di bidoni che volevano solo farsi quattro risate. Ma il nostro edonismo doveva pur essere alimentato. Per farlo, in quel periodo, i ragazzi del Samovar soundsystem hanno organizzato un paio di serate a nome dell'Inter Avinit. Durante la seconda di queste c'è stato un momento in cui siamo riusciti a fare gruppo alla perfezione (allenatori di tutto il mondo, aprite le orecchie).

Aussie Marc e la futura Signora Aussie Marc

In breve, Aussie Marc, la nostra ala destra scarsissima, si era fatto amico un truffatore di bassa lega lavorando in un locale in città. Questo, "Phil", aveva detto che stava per ereditare un milione di sterline e che voleva aprire un superlocale (era l'anno in cui avevano aperto sia il Fabric che l'Home, in Leicester Square, anche se quest'ultimo ha avuto breve vita). Aveva coinvolto Marc nel progetto e Marc aveva coinvolto altri tre membri della squadra, alcuni molto convinti, altri meno. Dopo un paio di settimane in cui non si era preoccupato molto dei dettagli del progetto—eravamo sotto Natale, e Phil aveva provato la droga per la prima volta a una festa a South London—la verità era venuta a galla, e il nostro amico "Phil" era stato pubblicamente umiliato nel corso di una "riunione d'aggiornamento" di 45 minuti sapientemente orchestrata da Marc.

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Aussie è il classico tipo di persona a cui affidare situazioni complicate. Dopo che tutti i partecipanti alla riunione avevano detto la loro—e dopo che Phil aveva avuto la possibilità di ciarlare di giacche, cellulari, auto aziendali, ricerca di location, stipendi esorbitanti, marketing e robe del genere—Marc era entrato duro: "Sì, fantastico, peccato siano tutte cazzate." Se prima aveva parlato solo di dettagli, in questo caso era andato diretto al sodo, parlando di soldi. "Sai quell'assegno che mi hai fatto, quello da 8.000 sterline? Be', è rimbalzato dentro e fuori dal mio conto corrente come un cazzo di canguro."

Allan fa l'aeroplanino (Foto di Jo Gallagher)

Grazie a un registratore piazzato in modo strategico, quella frase è diventata parte integrante dei concerti dei Nibble e Allan, i due fondatori del Samovar soundsystem e della squadra. Il loro duo si chiamava No Ball Games. Avevano preso il nome dal loro unico attrezzo di scena, un cartello rubato da un parco della zona, e suonavano al Marcus Garvey Centre di Nottingham, un locale frequentato da criminali di ogni risma in uno dei quartieri peggiori della città. (Detto questo, bastava evitare guerre per le zone di spaccio e si poteva tranquillamente fare festa. Che era quello che facevamo noi.) I due salivano sul palco e facevano crollare il locale con il loro pezzo d'apertura, "Bullshit", un pezzo techno costruito su un sample vocale molto familiare: "Come un cazzo di canguro… Come un cazzo di canguro… Sì, fantastico, peccato siano tutte cazzate." Era catartico.

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Arrivata la primavera i merli cantavano, e noi non avevamo ancora portato a casa un punto. L'importante era partecipare, ma il fatto è che non partecipavamo nemmeno quanto dovessimo (o quanto imponeva la lega). Ad aprile, per via dell'alto numero di cancellazioni dell'ultimo minuto—tra cui una partita abbandonata dopo che quattro giocatori erano stati arrestati mentre tornavano da un rave, finendo per passare la serata in prigione—ci rimaneva ancora qualche partita. Per recuperare, la lega ci aveva fissato le partite al mercoledì sera in aggiunta a quelle della domenica. Come prevedibile, la differenza di performance tra gli scontri del fine settimana e quelli di metà settimana, tutta frutto dell'assenza di alcol e simili nel sangue, era enorme.

Il retro del flyer di una delle serate Inter Avinit.

Per quest'impennata di fine stagione, lo stadio dell'Inter Avinit, il Forest Fields Recreation Ground—un tempo appartenuto al Nottingham Forest—aveva assunto un aspetto da cartolina. Il nostro piccolo ma fedele seguito di cani, sbronzi, anarco-hippie, traveller, seguaci della New Age e sfaticati stava crescendo. La voce era arrivata anche a persone che normalmente non si sarebbero mai interessate al calcio. Ognuno portava con sé le sue pozioni. Durante una partita qualcuno si era messo addirittura a sniffare mescalina sintetica, ovviamente per mancanza di altri spuntini.

Nella penultima partita in casa—la stessa sera in cui Roy Keane aveva tirato fuori il suo cuore di tenebra per spingere lo United a vincere 3 a 2 contro la Juventus nella semifinale di Champions—la marmaglia eterogenea di colletti bianchi e frequentatori di pub che componeva la squadra avversaria non ci aveva impedito di arrestare la nostra corsa verso il primo punto della stagione. La partita era finita 0 a 0.

Dopo il bagno di autostima frutto del nostro primo scontro da imbattuti, ci eravamo preparati all'ultima partita, quella contro il West Bridgford Albion, motivati come mai prima. E indovinate come è andata? Esatto. Abbiamo vinto!

Anche se fossi in grado, non sarebbe granché utile fornirvi un resoconto dettagliato della partita. Mi ricordo solo di Allan che fa l'aeroplanino, gli altri dieci compagni di squadra, una quarantina di sbronzi e uno o due cani che lo seguono per poi buttarsi su di lui. L'unica stagione nella storia dell'FC Inter Avinit non sarebbe potuta finire meglio. Avevamo reso orgogliosa la nostra comunità.

@reverse_sweeper