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Canne, scarpe zarre e senso di inferiorità: com'è crescere nella provincia italiana

Prima di trasferirmi a Milano ho passato più di vent'anni in una piccola frazione di un piccolo comune di una delle province più insignificanti d'Italia, e a forza di pensare di essere "migliore" di chi restava credo di aver imparato qualcosa.
Niccolò Carradori
Florence, IT

Sono cresciuto in una piccola frazione di un piccolo comune di una delle province più insignificanti d'Italia, nota soltanto perché ha dato i natali a Licio Gelli.

Un paesino di poco meno di 2000 abitanti con tre bar praticamente attaccati, un negozio di abbigliamento in cui i pantaloni a losanghe rappresentano il picco avvenieristico della moda, un barbiere e una scuola elementare in cui la mensa è costituita da una serie di tavoli messi per lungo in corridoio.

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Ho sempre frequentando lo stesso gruppo di amici con cui ho fatto le elementari, quando non addirittura l'asilo. Ammazzavamo interi pomeriggi facendoci le canne nei vivai vicino al fiume che attraversa il paese, andando in giro senza meta con i nostri Phantom, o giocando a Virtua Striker nel baretto in cui abbiamo passato praticamente tutta l'adolescenza—il genere di bar in cui il 99 percento degli avventori ha un soprannome tipo Cammello, Corda, Tenda, Bibba. E i tipi strani non finiscono in pezzi d'inchiesta perché scrivono frasi senza senso sui muri, ma hanno una specie di vero e proprio ruolo sociale. Questo ad esempio è l'Omino che si esibisce nel suo cavallo di battaglia: l'Aquila Reale.

Fino a che non ho avuto l'età per spostarmi autonomamente le uniche forme di intrattenimento erano rappresentate da feste paesane estive con discoteche improvvisate in capannoni o piazzette, in cui il DJ metteva in loop Dragostea Din Tei. Feste in cui la maggior parte dei presenti indossava delle Nike Squalo, si sperimentavano le prime avvisaglie di difficoltà locomotorie durante il ballo, e si tentava di concupire in branco ragazze le cui doti nella fellatio erano espresse da soprannomi eloquenti, tipo Pompinpaola.

L'autore (a sinistra in foto) durante il Carnevale, uno dei pochi eventi sociali locali degni di nota.

In realtà la sostanza non è cambiata nemmeno quando ho iniziato a uscire nella città della mia provincia: le uniche migliorie alla nostra vita sociale erano rappresentate da qualche pub in cui potevi ascoltare musica decente, qualche minidiscoteca ricavata in mezzo al niente e la possibilità di trovare del fumo migliore.

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Malgrado fondamentalmente stessimo a più o meno 40 chilometri da Firenze, il tedio di dover andare fin là ci sembrava maggiore della prospettiva di annoiarsi. Perché la provincia ti dà una prospettiva distorta e dilatata delle dimensioni e delle distanze.

Nonostante questo, però, ricordo di aver sempre percepito con chiarezza la posizione laterale che il microcosmo in cui sono cresciuto occupava rispetto a chi è nato in una grande città. D'estate, al mare, gli amici che venivano da Milano o Roma—ma in una certa misura anche da città sostanzialmente provinciali come Firenze—mi sembrano sempre più svegli, o messi a parte di cose che io ignoravo. L'impressione è che avessero possibilità praticamente infinite.

Non solo mi sembrava palese che avessero un tenore di vita migliore e più stimolante: i vestiti che indossavano, la musica che ascoltavano e i locali che raccontavano di frequentare testimoniavano come avessero potuto scegliere,vivendo in città. Nella mia provincia le mode dipendevano quasi interamente da quali tipi di negozi aprivano, e generalmente arrivavano con un periodo di latenza piuttosto prolungato. Ricordo un periodo, subito dopo le medie, in cui aprì un negozio dove potevi comprare pantaloni della Dickies e le felpe dell'Emerica: per tipo un anno quasi tutti ci siamo vestiti con quella roba, nonostante la maggior parte di noi pensasse che Joe Cassano fosse il cugino tabbozzo di Antonio.

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Durante la tarda adolescenza la situazione era peggiorata: avevamo gusti diversi, e avremmo voluto poter andare ai concerti dei gruppi che ascoltavamo, frequentare locali di cui avevamo solo sentito parlare, o avere anche solo l'opportunità di non frequentare sempre le stesse identiche persone e provarci con le stesse ragazze.

Ormai eravamo quasi maggiorenni, e ci eravamo annoiati delle feste organizzate prendendo a noleggio ristoranti, laghi artificiali o piscine, e che avevano tutte nomi tipo Operazione Mi Gonfio. A differenza delle feste paesane, in cui il massimo dell'aspirazione era far a suonare Raoul Casadei, a questi eventi lo staff invitava gente come Arrieta di Campioni o Ascanio del Grande Fratello. E forse in prospettiva era quasi meglio Raoul.

Guardavamo con invidia e desiderio i ragazzi più grandi che erano riusciti ad andarsene—pochi a dire il vero—e che tornavano al baretto con l'aria di chi la sa lunga. Malgrado poi facessero i baristi nei locali come avrebbero potuto benissimo fare in provincia.

Dentro il "baretto".

Fu guardando gli altri ragazzi più grandi rimasti a vivere in paese, che in pratica già appena passati i 20 si erano imbucati in matrimoni combinati o in lavori che trovavo noiosi e insulsi, che cominciai a pensare che mai e poi mai avrei voluto ritrovarmi a 25 anni in un posto del genere. All'epoca ero molto più supponente.

Probabilmente appartengo all'ultima generazione, quella subito precedente alla stabilizzazione di internet nella vita quotidiana, che ha vissuto con frustrazione i gradi di separazione che intercorrono fra la vita della provincia abissale e quella di città. E in una certa misura è un condizionamento che ti rimane attaccato.

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Quando finalmente mi sono trasferito a Milano, proprio a 25 anni, ho rivissuto lo stesso senso di inadeguatezza da mezzadro che avevo provato a 14 anni quando cominciai a frequentare le superiori nella città della mia provincia: ovvero la convinzione di essere molto meno scafato e avvezzo alle umane miserie di chiunque mi circondasse. In definitiva, però, devo dire che molti degli stereotipi negativi che attribuivo al posto da cui vengo si sono rivelati falsi, o comunque di trascurabile importanza.

Ad esempio, una delle prime cose che ho notato vivendo a Milano è che quasi tutti tendono prevalentemente a frequentare persone (e luoghi) appartenenti al loro stesso retaggio culturale. In provincia, invece, si è praticamente obbligati a confrontarsi quotidianamente e a vivere a stretto contatto con una miscela più eterogenea di persone: che spesso hanno aspettative, idee e valori completamente diverse dai tuoi. E non sono persone che vedi di sfuggita nei corridoi del liceo o per strada, ma qualcuno con cui hai un'interazione.

Questo ovviamente ha anche dei lati fastidiosi: vivere in un piccolo posto comporta livelli di vicinanza spesso eccessivi. Non solo praticamente tutta la popolazione ha accesso a dispacci diramati nei negozi di alimentari sul tuo conto, ma ha anche una mappatura completa del tuo ceppo genealogico. Durante l'infanzia non possiedi un'identità; il tuo io dipende totalmente dalle parentele: sei il figlio di, il nipote di, il cugino di. È come appartenere a una specie di clan.

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E in un contesto del genere le figure di merda, come tentare di rientrare in macchina da sbronzi passando per il finestrino perché si pensa di aver lasciato le chiavi dentro, sono permanenti.

In una città come Milano, invece, si è molto più liberi di scegliere come vivere o cosa pensare, senza la liquefazione di gonadi del doversi scontrare continuamente con chi si sente in dovere di esprimere un'opinione. Ma la difficoltà della vita di provincia non sta tanto nel poter esprimere la propria identità, quanto piuttosto nel poterla concretizzare.

Anche nella mia città esistevano delle piccole sottoculture, ma nessuna vera "scena". I punk ad esempio si tingevano i capelli, si mettevano gli anfibi e avevano le magliette dei Bad Religion; ma fondamentalmente copiavano in ritardo stilemi che avevano assimilato di striscio, e finivano a sfondarsi di birrini e ciorbole insieme a tutti noi.

Il periodo refrattario dopo cui arrivavano le novità riguardava praticamente tutto: abitudini, moda, musica, droga. Ed è questo che fondamentalmente rende più difficile essere "diversi". Sono cresciuto nel genere di posto in cui le velleità e le stramberie non fanno di te una persona interessante, ma un babbeo che non ha ben presente quello che lo circonda: ovvero una realtà in cui le persone fanno lavori normali e hanno aspettative normali. E in cui uno scatto sociale realmente incisivo è rappresentato dal laurearsi. Come prevedibile, è uno schema mentale che ti condiziona nel malaugurato caso in cui aspiri realmente a qualcosa di diverso.

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Fondamentalmente ci sono due modi di reagire: o integrarsi, o rifiutare rabbiosamente lo status quo e vivere schifando tutto e tutti mentre si aspetta di potersene andare. Quanto a me, non ho mai voluto attirare l'attenzione su quello che mi piaceva davvero—che si trattasse di scrivere per lavoro o progettare l'invasione e la presa della città di Fiume—e questo non tanto perché mi avrebbe fatto sembrare un rincoglionito, quanto perché ero riuscito a percepire il vero nocciolo della questione: ai miei amici non interessavano queste cose, e andare al baretto tentando di fare l'artista sarebbe stato da stronzi. Perché le pose sono sempre da stronzi.

In tutto ciò, però, non ho dovuto rinunciare a niente del provincialismo che mi circonda: a carnevale vado a mangiare le ciambelle fritte, e d'estate vado a vedere il palio dei rioni. E, vivendo a Milano, c'è una parte di me che trova forzati e ridicoli i manierismi di chi cerca di darsi un tono. Anche se è nel posto giusto per farlo.

Come dicevo, ho fatto in tempo ad assimilare questa Gestalt prima dell'epoca in cui anche i video degli YouTuber di Barletta possono diventare virali. Oggi infatti una grossa parte delle nostre vite si svolge su internet. E la facilità con cui la rete ha ridotto il gap nel flusso di informazioni ha fatto sì che il luogo in cui cresci abbia un'importanza sempre più marginale. Resta vero, però, che quasi tutti gli scrittori che mi piacciono sono nati in posti dimenticati da Dio: Faulkner, ad esempio, è nato nel Mississippi. Goffredo Parise era di Vicenza. Foster Wallace è cresciuto a Philo, in Illinois.

Con il tempo il senso di inferiorità che provavo vivendo a Milano è diminuito: in parte perché dopo un po' uno si abitua, e in parte perché ho capito che arrivare in una grande città dopo essere cresciuto in provincia riesce a darti uno sguardo sulle cose obliquo e per certi versi più interessante. Ma forse è solo uno schema adattivo di difesa.

Non so se dipenda dal fatto che ho avuto l'opportunità di andarmene, ma per certi versi adesso nutro un rispetto quasi ossequioso per alcuni aspetti del vivere in provincia che un tempo mi sembravano limitati o stupidi. Come ad esempio quella saggezza popolare che rende possibile la liaison fra una pratica sessuale e un nome proprio.

Segui Niccolò su Twitter: @NCarradori