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I miei quattro giorni di follia con l'Esercito Siriano Libero

In fuga dalle milizie del regime nella provincia di Idlib, tra nascondigli improvvisati, bombardamenti e un mucchio di fucili puntati addosso.

C’è qualcosa di affascinante nelle parole “dietro le linee nemiche”. Forse è per il film che porta lo stesso nome, dove tra mille avversità Owen Wilson riesce comunque a risolvere la situazione, ma vi posso assicurare che nella realtà tutto questo non potrebbe essere più diverso.

L’ho capito dopo aver passato quattro giorni con i ribelli siriani nella provincia settentrionale di Idlib, scappando dalle milizie degli shabiha, schivando i cecchini dai tetti, strisciando intorno alle postazioni nemiche e dormendo in una caverna per poi ritrovarmi in ginocchio con le armi puntate addosso.

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Il fotografo Rick Findler ed io avevamo il compito di osservare come l’Esercito Libero Siriano stesse operando a nord e documentare le atrocità nella città assediata di Idlib. Per il periodo della nostra permanenza siamo stati gli unici giornalisti occidentali in città, e avendo seguito conflitti per tutto il Medio Oriente pensavamo di essere preparati.

Non c’è voluto molto, comunque, perché ci rendessimo conto che era una situazione molto diversa: eravamo rannicchiati sotto un cespuglio al confine tra Turchia e Siria, nel buio, a pochi metri di distanza dagli shabiha che avevano avuto una dritta sul nostro arrivo. Era mezzanotte, e le esplosioni echeggiavano per la valle. Per un attimo ho pensato di tornare indietro. Due ore più tardi avevano smesso di cercarci, ma poco dopo sono spuntati fuori dal nulla tre uomini che portavano addosso solo kalashnikov e stretti pantaloncini rossi. Ci hanno ordinato di toglierci i vestiti.

“Che cazzo significa?”, ho sussurrato a Rick che mi guardava perplesso. Era tutto molto surreale.

Ma l’ufficiale dell’Esercito Siriano Libero con cui eravamo sembrava pensare fosse normale, così ci siamo svestiti e abbiamo seguito gli uomini oltre il confine e fino a un fiume, che abbiamo guadato immersi fino al collo nell’acqua congelata, con i vestiti, le telecamere e i giubbotti antiproiettile sulla testa.

Una volta a riva, senza neanche il tempo di pensare ci siamo vestiti e abbiamo percorso un paio di chilometri attraverso un oliveto; siamo stati sistemati nel retro di una macchina che ci aspettava e siamo partiti. C’era una tensione incredibile, e mentre ci spostavamo di casa in casa, da macchina a macchina, rannicchiati sotto le coperte nei camion o sul retro di motociclette, circondati da ribelli armati, ci è apparso chiaro come fossimo in pieno territorio nemico.

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Nel nord del Paese ci sono vaste zone sotto il tentennante controllo dei ribelli. L’esercito non le pattuglia molto spesso, dal momento che gli uomini di Asad abbandonano malvolentieri la sicurezza dei loro veicoli armati. Questo significa che i ribelli sono in grado di stabilire posti di blocco per monitorare i movimenti delle persone nella regione e, cosa più importante, di spostarsi con un minimo grado di libertà. Ma spesso le cose vanno male, e a volte le macchine partono senza più fare ritorno. La più grande paura, comunque, rimangono gli shabiha, bande di criminali pro-regime che possono apparire in qualsiasi momento e fracassarti il cranio.

Molti sono alawiti, come il presidente Asad, e sanno che stanno combattendo per le loro vite. Se il regime cade, la loro sorte non sarà diversa.

Vanno in giro come bande di saccheggiatori, su macchine civili e armati fino ai denti. A volte, quando non c’è nessun'altra opzione, l’Esercito Siriano Libero li coinvolge in scontri a fuoco, nel tentativo di fare qualche prigioniero e avere informazioni.

La prima notte li abbiamo evitati, ma per poco, e solo perché i ribelli conoscono la zona e sanno spostarsi nella campagna attraverso gli oliveti.

Erano le 5 del mattino quando siamo arrivati in una grotta tra le colline che l’Esercito Siriano Libero usa come centro operativo. Entrando, siamo stati colpiti da una nube di fumo di narghilè. In cerchio, una dozzina di uomini barbuti e pesantemente armati battevano le mani e cantavano come se fosse il locale più figo della regione. In un angolo c’erano dei divani logori, altre armi, granate sparse a caso e una piccola televisione che mostrava una specie di mash-up delle atrocità che erano state commesse quel giorno. Una volta dentro, siamo diventati l’attrazione del momento.

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Dopo che abbiamo finito con gli abbracci, i baci e le presentazioni siamo andati a dormire, ammassati tra di loro sulle coperte che coprivano il pavimento.

Il giorno successivo ci siamo spostati, senza abbandonare la prudenza della notte precedente. Siamo entrati in città che erano state colpite, e strisciando verso le postazioni del nemico abbiamo visto come provavano a nascondere i carrarmati dietro a dei teloni. Secondo il piano del cessate-il-fuoco sostenuto dalle Nazioni Unite, i carrarmati e i mezzi blindati avrebbero dovuto abbandonare i centri abitati, ma le promesse non sono state mantenute.

Siamo stati in città che erano state bombardate. Non solo da carrarmati e granate, ma in alcuni casi, da dinamite, elicotteri e bulldozer. Tutti in una volta. Le famiglie abbandonate nell’indigenza vivevano in tende di fianco ai resti appiattiti delle loro case, e ovunque incontravamo vecchi contadini, bambini e donne che erano stati attaccati senza alcuna pietà. È un massacro indiscriminato, e se c’è un segno del fatto che al regime non importi nulla della propria popolazione, è proprio questo. In qualsiasi posto andassimo stavamo solo per dieci minuti, tanta era la paura per le spie di Asad—come abbiamo potuto sperimentare il giorno seguente.

Sapevamo che la maggior parte degli attacchi aveva luogo il venerdì dopo le preghiere, quindi ci siamo travestiti come meglio potevamo e abbiamo preso parte a una delle proteste. Rick ha i capelli rossi, e nel tentativo di mascherarli aveva provato a tingerli di castano. Sfortunatamente l’unica cosa che è riuscito a tingere di marrone è stata la sua pelle bianca. Lo abbiamo avvolto in una sciarpa e abbiamo provato a dimenticarcene.

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Duecento uomini e bambini urlavano cori anti-Asad, i tamburi suonavano ad alto volume e la gente sollevava le armi e sventolava bandiere e striscioni. Improvvisamente abbiamo avvertito una scarica di proiettili dai tetti; la gente si è sparpagliata ed è arrivato il caos. I combattenti dell’Esercito Siriano Libero hanno fatto fuoco in direzione dei proiettili, e noi gli siamo stati alle calcagna. Di colpo, ci siamo ritrovati nel bel mezzo di una terribile sparatoria senza via d’uscita.

In tutti questi scontri, la strategia dell’Esercito Siriano Libero è quella di rispondere per un po’ al fuoco e poi ritirarsi. Del resto, possono fare ben poco contro la superiorità degli armamenti dell’esercito regolare.

Ci siamo finalmente ritirati nel nostro nascondiglio quando improvvisamente si è precipitato dentro un gruppo di uomini sconvolti. L’esercito aveva avuto una dritta sul fatto che dei giornalisti occidentali erano in città. Sapevamo che li avevamo filmati mentre facevano fuoco sui dimostranti, e stavano lasciando la loro base per venire a cercarci.

Nella grotta è scoppiata una lite. Alcuni volevano che ce ne andassimo e dicevano che stavamo peggiorando la situazione. Altri insistevano perché rimanessimo, così che potessimo vedere quello che stava succedendo. Non c’è niente di peggio che essere avvisati del fatto che l’esercito sta strisciando fuori dalla sua tana per venire a prenderti, a meno che questo non ti venga comunicato mentre uomini arrabbiati e armati urlano in arabo e ti indicano, e tu non hai nessun posto in cui andare.

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Credendo alla sicurezza della grotta siamo rimasti fino al giorno seguente, sebbene nessuno di noi abbia dormito. La nostra unica speranza di salvezza era che eravamo in alto tra le colline e che i ribelli avevano circondato l’area per avvisarci nel caso fosse arrivato qualcuno. Avevano deciso che avremmo dovuto rimanere, ci hanno accerchiati e abbracciati promettendoci che sarebbero morti prima che fosse fatto del male ad uno di noi. “Siamo fratelli adesso” ci hanno detto tutti, e io ci ho creduto. Potrebbe suonare come qualcosa di irreale da dire adesso, ma lì, nella grotta, sapevo per certo che avrebbero combattuto fino alla morte per difenderci. Penso di non essermi mai sentito così umile.

Il giorno successivo abbiamo scoperto che non si poteva ancora partire. Le strade per la Turchia erano state chiuse e l’esercito ci stava ancora cercando. A quel punto, i ribelli hanno deciso che sarebbe stato più sicuro se ci fossimo allontanati il più possibile, verso l'interno del Paese. L'idea non sembrava delle migliori, ma certamente avrebbe distratto le truppe di Asad.

Dopo un altro viaggio accalcati nel retro di un camion abbiamo raggiunto la periferia della città di Idlib. Qui abbiamo aspettato per diverse ore, mentre degli elicotteri ci giravano sulla testa e i ribelli cercavano un modo per farci entrare.

I bombardamenti erano andati avanti tutta la notte e ci avevano detto c’erano molti feriti. Era quello che eravamo venuti a documentare, ma in quella situazione, e con la possibilità sempre crescente di essere catturati, abbiamo deciso di ritirarci.

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Testimoni raccontavano di bombardamenti e spari indiscriminati. Di torture, di celle minuscole riempite con 60 persone, dagli adolescenti agli anziani. Di ospedali improvvisati, con i feriti che venivano curati nei salotti, perché i normali ospedali lasciavano semplicemente che i civili morissero, e i dottori che aiutavano i ribelli venivano uccisi. Ci era stato detto che l’assedio aveva bloccato i rifornimenti di medicine e cibo.

Deciso che era più sicuro andare verso nord, ci siamo messi nuovamente in cammino. Mentre sfrecciavamo tra le colline, abbiamo fatto una curva e ci siamo ritrovati dritti dentro un posto di blocco. Prima che potessimo fare inversione, alcuni uomini urlanti vestiti di nero si sono mossi verso di noi. I membri dell’Esercito Siriano Libero seduti davanti hanno abbassato le armi, e sono sgusciati fuori. Noi abbiamo cercato di fare lo stesso, ma ci hanno puntato contro i loro fucili. Con una sensazione di assoluto terrore ci siamo messi sulle ginocchia, convinti che fosse la fine.

In tutto il mio lavoro non ho mai avuto la convinzione che stessi per morire, ma spero di riuscire a definirla. Non mi passavano per la mente immagini di casa, e non ho né pianto né avuto attacchi di panico, semplicemente perché non ne ero capace. Al contrario, avevo una sensazione di vuoto, e il cuore e la testa sembravano destinati a esplodere. Di fianco a me il respiro di Rick si era fatto veloce come quello di un cane affannato.

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Quando le nostre guardie del corpo dell’Esercito Siriano Libero gli hanno risposto urlando, provando a spiegare la situazione, abbiamo scoperto si trattava di altri ribelli. Gli shabiha erano dietro di noi, e questi uomini stavano aspettando per attaccarli. Eravamo schiacciati tra due eserciti che avanzavano.

Continuando a tremare e a nasconderci, siamo prima risaliti in macchina e poi scesi, percorrendo a piedi gli ultimi chilometri fino al confine. Non c’è stato un secondo in cui fossi lucido, non un secondo in cui capissi cosa stava succedendo finché non abbiamo raggiunto il confine e ci siamo aperti un varco.

Proprio quando pensavamo di essere salvi, sono esplosi degli spari. Venivano dalla parte turca. Le pallottole hanno colpito gli edifici dietro di noi. Rick ed io abbiamo perso gli altri due e ce ne siamo stati uno stretto all'altro sotto le scale di un fabbricato. Il sudore ci sgorgava sotto i giubbotti anti proiettile. A un certo punto ricordo di averne catturato una goccia mentre cadeva.

Ascoltavamo i rumori intorno a noi, i turchi che avevano sparato erano vicini. Li abbiamo sentiti caricare le armi e girarci intorno. Non appena abbiamo avuto campo libero siamo scappati saltando tra i muretti fino in terra turca. Una volta al sicuro abbiamo acceso i cellulari, per scoprire che gli altri erano stai presi. Ci siamo consegnati. Se non lo avessimo fatto, il nostro aiutante—siriano—sarebbe stato mandato al campo profughi.

Abbiamo passato la notte in cella, dopodiché siamo stati spediti fuori dal Paese. Ma questo era assolutamente secondario rispetto a tutto ciò che ci era successo nei giorni precedenti e alla condizione di milioni di siriani che non hanno la possibilità di andarsene, come invece è stato per noi.

Segui i lavori di Rick e Benjamin sui loro rispettivi siti: www.rickfindler.co.uk e www.hallbenjamin.com