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Música

Un genio del male, uno stronzo, un vero coatto: tanti auguri Miles

Miles Davis: re del jazz, genio assoluto e grande, grandissima testa di cazzo. Ci piace ricordarlo così.

Oggi è il compleanno di Miles Davis, che lui evidentemente non festeggerà perché morto nel 1991. Me lo ricordo, di quando è morto Miles: i giornali ne parlavano, era una cosa grossa. Ero piccolo e mia madre mi spiegò che questo Miles Davis era un musicista drogato che aveva pure collaborato con Zucchero. Mi spiegò anche che era un'enorme testa di cazzo, probabilmente esprimendo il concetto attraverso espressioni meno triviali, ma ecco, il concetto era quello. Come mia madre potesse sapere quanto testa di cazzo fosse Miles, non so dirlo. Presumo fosse la vox populi.

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Se conoscete il personaggio, o meglio ancora avete letto la sua autobiografia, saprete che sì, mia madre aveva ragione. Il soprannome di Miles era “Il principe delle tenebre” ma per conoscenti, familiari e collaboratori poteva essere tranquillamente “Il re degli stronzi”. Miles è stato, nell’ordine: puttaniere, magnaccia, pornomane, eroinomane, cocainomane, alcolizzato, dipendente da psicofarmaci, ladro di musiche altrui, gretto maschilista, marito prepotente, padre degenere, capetto irascibile e dittatore vendicativo. Poi certo: incidentalmente è stato anche il più grande trombettista di tutti i tempi. E visto che è il suo compleanno, io vorrei ricordarlo con quello che è stato il suo periodo al tempo stesso più luminoso e infame; la speranza è che chi legge si toglierà dalla mente che sto parlando di un “famoso jazzista morto” e capirà che Miles, oltre che un rinomato pezzo di merda, fu sopra ogni cosa un genio del male, forse nella vita privata, sicuramente nella musica. Vi avverto: andrò per le lunghe. Ah, e non sto parlando di jazz, intesi?

Cominciamo dalla fine. È la metà degli anni Settanta: Miles ha cinquant’anni, è ricco, è famoso, gira in Ferrari, prende un sacco di pillole, ed è pronto per scalare le vette dell’aberrazione umana. Stanco di tutto, smette di fare musica e si rinchiude nella sua casa di Uptown Manhattan, una specie di reggia arredata in stile afro-kitsch dove per capirci non esistono spigoli e angoli retti ma tutto—dalle scale al mobilio—è arrotondato o di forma circolare (“perché mi andava così,” spiega lui). Sta lì, al buio, con le tapparelle abbassate e la TV sempre accesa, 24 ore su 24. Non esce mai, le uniche volte che mette il naso fuori casa è di notte per rimediare la droga o qualche battona, gira solo in accappatoio, fa schifo, e la casa diventa un cesso (“gli scarafaggi avevano un bel daffare”). Dice tagliando corto Miles: “in quel periodo che sono stato fuori dalla musica, per la maggior parte mi sono fatto un casino di cocaina e mi sono scopato tutte le donne che riuscivo a portarmi a casa.”

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Ora: questo periodo non è la classica parentesi tipo “lost weekend” di cui abbondano le mitografie rocchettare. Sono cinque anni interi. Un tipico episodio di come passavano le giornate del nostro tra 1975 e 1980 è il seguente: “Stavo guidando la mia Ferrari su per West End Avenue e sorpassai due poliziotti seduti in macchina. Mi conoscevano—tutti mi conoscevano da quelle parti—così mi dissero qualcosa. Quando fui circa due isolati più avanti andai in paranoia e pensai che ci fosse una specie di complotto per mettermi dentro per droga. […] Fui preso dal panico. Inchiodai in mezzo alla strada e corsi dentro un palazzo di West End Avenue, cercai il portiere ma non c’era. Corsi all’ascensore e lo presi […]. C’era una donna nell’ascensore. Pensai di essere ancora sulla mia Ferrari, così le dissi: 'Troia, che cazzo ci fai sulla mia fottuta macchina?' e poi le diedi uno schiaffo e corsi fuori dal palazzo. […] Lei chiamò la polizia, che mi arrestò e mi mise nel reparto dei matti al Roosevelt Hospital per un po’ di giorni.”

Ci sono anche altri aneddoti, che a seconda dei punti di vista possono risultare patetici, inquietanti, o persino divertenti, ma insomma, direi che è chiaro: Miles è diventato uno psicotico un po’ zombie un po’ Dracula un po’… be’, Miles Davis. Non è proprio l’immagine che uno si fa ascoltando cose come Kind of Blue, Sketches of Spain o Porgy and Bess, che sono i suoi album più famosi (risalenti alla fine degli anni Cinquanta) nonché i tipici dischi jazz “che tutti conoscono”: ottimi per insonorizzare il salotto, perfetti per darsi un tono se si ha a che fare col tipico aspirante intellettuale del tipo “il mio scrittore preferito è Garcia Marquez” e “l’hai visto l’altro giorno Santoro in TV?” (sono comunque album bellissimi, basta far finta di non sapere che probabilmente sono anche i dischi jazz che vi consiglierebbe Fabio Fazio). La domanda che quindi uno si potrebbe fare è: che è successo a quest’uomo? Come mai l’autore di quel concentrato di lirismo che è "So What" è finito a recitare la parte del vecchio pazzo depravato? Come ha fatto lo stilosissimo Prince of Darkness a tramutarsi in Dark Magus?

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Qualora sul serio vi stiate chiedendo una cosa del genere, significa che a) non conoscete i dettagli della vita privata di Miles anche nel suo periodo più lirico ed elegante, e che b) non conoscete la sua carriera da musicista, specie per quel che riguarda il periodo che va dalla fine degli anni Sessanta al ritiro di metà Settanta. Perché la mia opinione è che fu proprio la sua musica, perlomeno da un certo momento in poi, ad annunciare le voragini di cui sopra. Era già tutto scritto: bastava ascoltare i suoi dischi per capire che Miles era condannato all’abisso. Altro non gli restava: quell’abisso se l’era inventato lui, quindi che doveva fare se non esplorarlo fino alle estreme conseguenze?

L’inizio di tutto è ovviamente nella coppia di album In A Silent Way e soprattutto Bitches Brew, un colpo di genio che arriva nel 1969. Qualsiasi enciclopedia per casalinghe vi dirà che questo disco è “quello che ha sancito l’unione tra jazz e rock,” ricorrendo magari a formule del tipo “l’atto di nascita della fusion.” Ma le enciclopedie per casalinghe, si sa, dicono sovente un mucchio di stronzate, e quindi mettiamo subito in chiaro che Bitches Brew non fu il primo disco a tentare il guazzabuglio jazz + rock, né tantomeno il risultato è da ascrivere a quella specie di musica da ascensori che è l’orripilante fusion, un genere che sì, boh, forse, magari è stato ispirato da Miles, ma che colpa ne ha lui?

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Dall’altra parte, qualsiasi biografo di Miles parlerà di Bitches Brew come del manifesto del suo cosiddetto “periodo elettrico”, il momento cioè in cui il Prince of Darkness smette gli abiti del jazzista stiloso e si reinventa (a 43 anni) sciamano per la generazione hippie: al posto degli arzigogoli post-bop, ecco interminabili suite psichedeliche montate in studio assieme al produttore Teo Macero; al posto delle esibizioni nei fumosi club per jazzofili, ecco i live nelle arene per rocchettari sfatti dall’LSD; e al posto degli eleganti completi di sartoria italiana ecco turbanti, camicie a fiori, pantaloni in pelle, gilet di velluto, sciarpe, foulard, pettinature afro ecc ecc. Tipo così:

Quello che però i più tralasciano è quanto successo dopo il 1969/70. Per molto tempo, dischi come On the Corner (1972), Big Fun e Get Up With It (entrambi 1974), ma anche live come Agharta, Pangea e Dark Magus, sono stati interpretati un po’ come appendice poco significativa dell’exploit del 1969, un po’ come inconfutabile prova del progressivo esaurirsi di una vena lontanissima parente delle magie d’un tempo. Anche se la fortuna di questi dischi è sensibilmente cresciuta, specie in anni recenti e specie nei circuiti non jazz, c’è un motivo per cui da On the Corner in poi la reputazione di Miles presso la critica che conta va a puttane. E il motivo è che Miles, semplicemente, esagera. In poche parole, imbocca beato il tunnel della perdizione: e anche se per ora di perdizione solo musicale si tratta, è chiaro che lo sbocco ultimo non può che essere il “reparto dei matti al Roosevelt Hospital”.

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È risaputo che Bitches Brew aveva infastidito i jazzofili ortodossi perché, con tutti quegli strumenti elettrici e l’andamento lisergico dei brani, “non era più jazz.” Ma a partire da On the Corner—che secondo lo stesso Miles era un tentativo “di attirare il pubblico dei giovani neri”—le cose precipitano: la musica prende pieghe sempre più torbide e vira decisa verso il funk; la tromba del Principe—che una volta fu limpida, cristallina, evocativa—viene squassata da un onnipresente wah wah in modo da assomigliare alla chitarra di Hendrix; persino i musicisti del gruppo, più passa il tempo più vengono reclutati da formazioni rock anziché jazz. C’è un nome preciso che la critica ha affibbiato a questo periodo: ed è sell-out. Miles insomma si è “venduto”. Ma venduto a chi?

Va bene, Miles stesso aveva detto che voleva fare musica “per i giovani neri” e sostanzialmente conquistare le classifiche, ma solo un tossico col cervello in pappa poteva pensare che per conquistare i giovani (neri o bianchi che fossero) poteva andar bene una roba come On the Corner. Voglio dire, avete presente che razza di disco è? Se non l’avete sentito, ve lo racconto io: praticamente c’è una figura ritmica spastic-funk che comincia di colpo al minuto 0:01, prosegue con un po’ di varianti per quasi un’ora, poi a un certo punto finisce. Tutto qui. Sì, d’accordo, ogni tanto arriva Miles che fa wah-wah-wah con la tromba, la chitarra che fa wah-wah pure lei, le percussioni che saltellano da un canale all’altro, persino un sitar in sottofondo. Ma presa nel suo insieme On the Corner è una cosa contorta, ossessiva, acidissima e maniacale. Insomma, un capolavoro. Che però a passarlo per radio si rischia l’attacco epilettico degli ascoltatori.

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Perché il funk davisiano ha una particolarità: per certi versi, è una specie di grado zero del groove. È solo ritmo, nient’altro. Sudatissimo, martellante. Ma è un groove che anziché far muovere il culo perfora lo stomaco. Prendete i live come Pangea, Agartha e Dark Magus: di fatto non contengono nemmeno musica. È solo un suono convulso che lo senti e ti prende un’ulcera istantanea. È funk, o almeno così pare: ma al posto di farti ballare ti fa venire gli spasmi, ti stringe l’intestino, ti buca la pancia. I pezzi vanno avanti sostanzialmente identici a se stessi per dieci, venti, quaranta minuti. E sono pezzi cattivissimi, di una psichedelia atonale che sa di perfidia, più scontrosa di qualsiasi svolazzo free jazz, più rintronante di qualsiasi Sex Machine. È una specie di trance feroce, di stregoneria nera, di rituale empio e maiale. Questa musica brutale e a suo modo ascetica non ti fa viaggiare: ti prende a calci e ti precipita a forza in un buco nero, ti parla di turpitudini divine ed estasi oscene. È una roba quasi insostenibile, e pure quando le atmosfere si dilatano—l’immensa "Great Expectations" su Big Fun, registrata già ai tempi di Bitches Brew—o quando la tromba lascia spazio all’organo—"Rated X" su Get Up With It, una delle cose più angoscianti mai concepite dal negromante Miles—l’effetto è sempre morboso, malato. Date un’occhiata a questa celeberrima esibizione del 1973:

Qui è sul palco circondato dai musicisti, ma fateci caso: pare già di vederlo, il Miles-zombie, aggirarsi allucinato per la casa niente spigoli e solo forme tonde. Guardate come si muove, come si sfrega le mani (e con che espressione!) al minuto 3:09: probabilmente sta godendo per l’assolo di Pete Cosey alla chitarra, ma non è difficile andare col pensiero a lui che, appena un paio d’anni dopo, raccatta tre signorine al bar e se le porta in casa per la solita session “72 ore di coca+sesso di gruppo”. C’è anche un punto, al minuto 3:46, in cui prende la tromba e lì per lì sembra non sappia bene che farci, il che mi riporta a quando Miles, nella sua autobiografia, si lascia sfuggire che nei cinque anni di autoreclusione la tromba la sfiorava soltanto, ci passava davanti e la guardava, ma senza mai emettere un suono perché “impegnato a fare altro.” E poi c’è la musica: inequivocabilmente, la colonna sonora della lascivia più bieca.

Ora, i critici parlano di sell out: ma a questo punto avrete capito che se proprio tentativo di sbraco commerciale fu, l’esito fu un disastro. Miles si è “venduto”, solo che—comprensibilmente, visti i contenuti—nessuno compra, e i dischi da On the Corner in poi sono tutti, dal punto di vista delle vendite, un fiasco. Secondo la lettura “classica”, il ritiro del 1975 è insomma il triste epilogo di una china viepiù discendente. Per me, è la degna appendice di un’epica dello sfascio applicata con tanta cattiveria che è già un miracolo che Miles al 1975 ci sia arrivato.

Come detto, il ritiro di Miles finisce nel 1980. A quel punto rientra sulle scene e pubblica un po’ di dischi nuovi, un paio dei quali avranno pure successo. Il suo artista preferito in quel periodo è Prince. La sua autobiografia, scritta assieme a Quincy Troupe, esce nel 1989 e l’anno dopo vince l’American Book Award. In Italia la trovate edita da Minimum Fax.