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A10N4: Animaletti vivi schiacciati sotto tacchi a spillo

I ragazzi perduti della California

Molti dei minori entrati illegalmente negli Stati Uniti stanno (letteralmente) morendo per raccogliere frutta, e la California, insieme a molti altri stati dell’ovest, vive su questa forza lavoro.

Ernesto, 16 anni, lavora in un’enorme azienda agricola 65 ore a settimana. Qui fa le pulizie in una sila di alberi in Madera, California. All’età in cui la maggior parte dei teenager americani decide chi vuole portare al ballo di fine anno, Ernesto Valenzuela stava valutando se fosse meglio morire di sete nel deserto o farsi tagliare la gola dai gangster. Questa è la scelta che ha dovuto affrontare il sedicenne nella sua città natale, Mulapaca, in Honduras, un villaggio sonnolento dove i gangster della MS-13 e del Barrio 18 sono noti per reclutare giovani tra le loro file—a volte in età prescolare. Se i bambini si rifiutano, spesso vengono uccisi. Ernesto era tra i prescelti, e non voleva essere una delle 6.000 persone che muoiono per omicidio ogni anno in Honduras. L’Honduras ha una popolazione complessiva di 8 milioni di persone, il che significa che quasi un abitante su 1.000 è vittima d’omicidio. Dopo le zone di guerra in Iraq, Somalia e Siria, è il posto più pericoloso al mondo. Dopo averci riflettuto per mesi—e aver provato a evitare i membri tatuati della gang che volevano arruolarlo—Ernesto decise che un futuro a casa sua presentava molti più rischi di quelli che avrebbe dovuto affrontare nell’attraversare il deserto. Così, una mattina presto del giugno 2013, dopo aver ascoltato le mille raccomandazioni di sua madre, è partito per un luogo che avrebbe potuto vedere soltanto nei film, un posto dove aveva sentito che un ragazzino come lui—con la licenza elementare—poteva guadagnare 60 dollari al giorno lavorando nei campi: l’America. Per affrontare il viaggio, Ernesto aveva chiesto dei soldi in prestito a vecchi cugini emigrati in California molti anni prima. Gli avevano prestato 7.000 dollari, la cifra di cui aveva bisogno per pagare l’autobus dall’Honduras al Guatemala, al Messico, dove avrebbe poi avuto bisogno di prendersi un coyote—un trafficante di esseri umani—per essere introdotto furtivamente oltre il confine, in Texas. Per come Ernesto vedeva le cose, il fatto che i suoi cugini fossero riusciti a prestargli così tanti soldi in una volta sola era la prova di quello che poteva trovare una volta arrivato a destinazione. Inizialmente Ernesto non era turbato dal suo viaggio solitario su una successione infinita di autobus. Non lo infastidiva il fatto di dover talvolta dormire per strada o, se era fortunato, in un hotel-topaia di confine. Aveva anche dato poco credito ai racconti ammonitori dei suoi compagni di viaggio sulla violenza dei narcos e sui numerosi migranti morti in mezzo al fuoco incrociato dei cartelli. Ma al quinto giorno di viaggio iniziava a essere nervoso. Era arrivato alla città di Reynosa, in Messico, con 14 altri viaggiatori. Soltanto uno scuro nastro d’acqua—il Rio Grande—separava Ernesto da McAllen, in Texas, e dalla sua nuova vita. Ma prima di tutto il gruppo doveva evitare di morire affogato durante il guado. Guidato dai trafficanti, il gruppo di Ernesto aveva attraversato il fiume in un’imbarcazione di fortuna. Ce l’avevano fatta senza capovolgerla, ma poco dopo aver raggiunto la sponda, lasciando una linea di impronte nel fango dietro di sé, sono stati avvistati dagli agenti americani che sorvegliavano il confine proprio mentre stavano per essere caricati nel camioncino di un altro trafficante. Si erano sparpagliati, ed Ernesto si era fiondato a nascondersi. Era riuscito a scappare dalle autorità, ma si era completamente perso. Per tre giorni lui e altri quattro—tre adulti e un ragazzino senza genitori, tutti di El Salvador—hanno vagato nel deserto senza cibo né acqua, ustionati dal sole. Perso e morente per l’afa dei 90 gradi, per Ernesto i gangster di Mapulaca non erano più minacciosi. Dopo aver girato a vuoto nel Texas del sud senza sosta, sull’orlo del collasso, il gruppo si era imbattuto in un ranch di bovini. Poco fuori l’edificio avevano trovato delle giare d’acqua, lasciate presumibilmente nella sabbia per i migranti senza speranza come loro. Avevano trangugiato tutta l’acqua che potevano, si sono lasciati le bottiglie alle spalle e hanno preso la strada che portava a nord. Lungo quel cammino, la Border Patrol aveva di nuovo scovato il gruppetto infangato. Questa volta, erano troppo stanchi per correre. Ernesto era stato arrestato e portato in un carcere a circa 50 miglia di distanza a Harlingen, in Texas, una specie di rifugio ad alta sicurezza per minori—con porte sbarrate e guardie ovunque—per “bambini stranieri non accompagnati” (bambini clandestini che vengono ritrovati negli USA senza genitori né documenti). Era stato messo in una delle numerose stanze da letto tra i 200 ragazzi con storie tutte simili alla sua. Quest’anno, a causa del crimine crescente e della depressione economica dell’America centrale, il dipartimento di Sicurezza Interna si aspetta che saranno circa 60.000 minori senza genitori catturati mentre cercano di entrare illegalmente negli USA. Così dice un report della Conferenza Federale dei Vescovi Cattolici, che si occupa di diritti umani. Più del doppio rispetto al 2013, e più del quadruplo rispetto all’anno ancora prima. Al contrario, negli ultimi nove anni, il numero di adulti catturati mentre cercavano di varcare il confine tra USA e Messico è diminuito sensibilmente—dagli 1,1 milioni del 2005 ai 367.000 del 20132. Apparentemente l’aumento dei rischi e della sorveglianza sul confine USA-Messico ha scoraggiato gli adulti, ma non i bambini. Amilcar e Junior fuori dalla loro casa, a Mendota. Secondo Jennifer Podkul della Women’s Refugee Commission, una ONG che lavora con donne e bambini emigrati, il picco di violenze nel Centro America impoverito è la prima causa di migrazione giovanile. Come risultato, l’età media della forza lavoro immigrata illegalmente diminuisce di anno in anno. Senza genitori, senza soldi e senza casa—cosa accadrà loro? E che effetto avranno sull’economia statunitense? Questo settembre, tre mesi dopo la cattura, ho incontrato Ernesto nella polverosa città di Mendota, “Non dovrei lavorare,” mi ha detto. Eravamo in un mercatino dove guanti, stivali e bandane dai colori improbabili venivano vendute ai lavoratori di questa città di 11.000 abitanti, il 97 percento dei quali latini. Ma Ernesto—che ha gli occhi a mandorla e una lieve ombreggiatura di baffi adolescenziali—ha ammesso che, anche se è illegale, doveva raccogliere meloni per sopravvivere. Stava anche mandando un po’ di soldi alla madre, e aveva ancora i 3.500 dollari per il coyote (visto che era stato catturato aveva potuto negoziare il debito). “Il giudice mi ha detto che non posso lavorare, ma io ne ho bisogno,” diceva. Dopo aver trascorso più di due mesi in quel carcere in Texas, era stato rilasciato nell’attesa di un’udienza ufficiale, che doveva aver luogo a marzo o aprile 2014. I riformatori sul confine USA-Messico si stavano riempiendo e avevano bisogno, più che mai, di mandarlo via (come spesso accade in questi posti) e di affidarlo alle cure di un adulto fidato. In attesa del processo, sarebbe stato libero, ma a due condizioni: primo, doveva essere messo sotto la responsabilità di uno zio più vecchio residente in California di nome Orlando; secondo, doveva temporaneamente frequentare la scuola. Se avesse obbedito, avrebbe avuto gli strumenti per convincere il giudice di aver lasciato l’Honduras dietro la minaccia di violenze, e ottenere lo status speciale di immigrato minorenne e infine il permesso di soggiorno. Questa sarebbe un’enorme vittoria che gli permetterebbe di restare legalmente in America e di lavorare e di avere aperta la strada verso la cittadinanza. Tuttavia, per far sì che accada, deve far fronte a difficoltà enormi, non ultima il sesto emendamento, che garantisce il diritto a un avvocato soltanto nei casi penali—e quelli di immigrazione sono classificati come civili. Quindi Ernesto, con i suoi 16 anni e un inglese che si limita a “Hi” e “Thank you”, dovrà affrontare molto probabilmente la cosa da solo di fronte a un giudice americano. E se fallisse nell’essere sufficientemente persuasivo, verrebbe riportato indietro immediatamente. Per ora, non c’è nessuno dei presupposti per il suo rilascio. Lo zio che doveva prendersi cura di lui è sparito poco dopo l’arrivo di suo nipote a Mendota; Ernesto viveva con quattro dei suoi giovani cugini che si erano intrufolati negli Stati Uniti senza essere catturati e che vivevano in una casa in zona, e sopravvivevano arrangiandosi con duro lavoro fisico e poco altro. Non stava nemmeno frequentando la scuola. È così che era arrivato a questo mercatino delle pulci, dove un gruppo chiamato Fresno County Migrant Education Program aveva allestito una bancarella polverosa tra un camioncino di tacos e uno stand di stivali antinfortunistici, raccogliendo giovani per lezioni di inglese. “Possiamo aiutare soltanto persone che lavorano in questi campi,” disse una donna entusiasta, Rosa Hernandez, mentre approcciava Ernesto al tavolo. Il programma di educazione dei migranti è sostenuto dal Dipartimento per l’Educazione degli Stati Uniti, e mira a fornire supporto ai figli dei migranti che lavorano nelle fattorie—o, come nel caso di Ernesto, ai lavoratori minorenni stessi. Se Ernesto si astenesse dal lavorare, come il giudice ha comandato, non avrebbe accesso ai servizi sanitari provvisori, alle lezioni di inglese e al dentista offerti dal programma. Questa è la situazione confusa e contraddittoria in cui vive un giovane migrante illegale negli USA. Ernesto dondolava avanti e indietro quando Rosa prendeva nota dei suoi dati, agitato dal fatto che la corte per l’immigrazione avrebbe saputo che stava lavorando invece di andare a scuola—o che non stava, a tutti gli effetti, vivendo con suo zio, che lo aveva abbandonato (violando l’accordo che aveva firmato con il governo federale).Dopo aver lasciato lo stand e scambiato quattro chiacchiere mangiando, mi aveva detto che, visto che aveva lasciato la scuola in Honduras a 12 anni per aiutare la famiglia, era molto contento della possibilità di imparare l’inglese. Era la sua chance di “guardare avanti.” Avrebbe potuto anche aiutarlo a cavarsela di fronte al giudice. Il percorso di Ernesto da Mapulaca, in Honduras, a Mendota, in California. Più tardi, ho visitato la casa di Ernesto a Mendota, dove viveva con i quattro cugini. Era una sorta di rifugio alla Peter Pan per giovani immigrati disillusi. Nessuno dei ragazzi che vivevano con Ernesto aveva i documenti, e tutti avevano varcato il confine per lavorare nei campi californiani molto prima del diciottesimo compleanno. La loro casa in periferia era un piccolo ranch, messo lì tra una casa più grande da una parte e un campo vuoto e polveroso dall’altra. Il recinto di ferro, dipinto di bianco e nero, era leggermente storto nei cardini, e sotto la veranda di cemento c’erano cinque paia di stivali da lavoro, incrostati e allineati vicino alla porta. Quando sono arrivato, Ernesto mi ha fatto sedere su un divano cencioso e mi ha raccontato del lavoro che stava svolgendo. I muscoli delle sue spalle erano molto sviluppati per la sua età. Appesa al muro del salotto, dietro di lui, c’era una collezione di foto della Madonna di diverse misure, e ritratti colorati di famiglia, molti dei quali sembravano ritrarre la stessa vecchia signora. Ho chiesto di lei, pensando che fosse una parente. “Oh, queste non sono nostre,” mi ha detto Ernesto. Le foto appartenevano alla proprietaria di casa—una donna messicana che viveva in zona e che aveva affittato loro la casa. Quella era la famiglia di lei, raccontava Ernesto, e i ragazzi avevano appeso le foto giusto per dare un po’ di colore. Sembrava in ogni caso confortato dalla loro presenza, molto più che da un muro bianco. Dal suo rilascio dal riformatorio del Texas, Ernesto e i suoi cugini stavano lavorando tra le piantagioni di meloni, ma ora che l’estate era passata e l’inverno stava arrivando, avevano incominciato con la potatura dei mandorli. Guadagnavano un salario minimo—non a cottimo, guadagnavano otto dollari l’ora e non un tot a cesta (come nel caso di colture come l’uva e le fragole). Ernesto lavorava 65 ore a settimana, diceva, il che fa circa 1.400 dollari al mese. 100 dollari per l’affitto, più le spese. Anche dopo aver pagato una rata del suo debito con il coyote, aver messo a posto il telefono e le bollette della luce, aver com- prato da mangiare, e inviato qualcosa alla famiglia per quel che poteva—più risparmiare qualcosa per i mesi invernali, in cui c’è meno lavoro—la sua paga non era poi così male, per un sedicenne. Le compagnie locali—come Stamoules e Westside Produce, la cui frutta e verdura raggiunge praticamente ogni grande catena di alimentari degli USA—approfittano della manodopera a basso costo per ricavarne enormi profitti. Nel 2012, i baroni delle fattorie californiani hanno guadagnato 311,2 miliardi di dollari soltanto di meloni. L’industria delle mandorle, per cui Ernesto stava lavorando, anche se illegalmente, ha guadagnato 4,35 miliardi quell’anno. Più o meno il 75 percento del lavoro manuale era richiesto per mettere le confezioni di mandorle sugli scaffali del supermercato, lavoro svolto per lo più dai migranti, secondo Philip Martin, un professore di agricoltura e risorse economiche all’Università della California di Davis. Logico che sia questa la ragione per cui i politici di qualsiasi colore, da Nancy Pelosi a George W. Bush, hanno sempre supportato tacitamente le leggi lassiste sull’immigrazione, pur riempiendosi occasionalmente la bocca di retoriche anti-immigrazione; la California, insieme a molti altri stati dell’ovest, vive su questa forza lavoro. Secondo un rapporto del 2012 dell’Osservatorio per i Diritti Umani, almeno il 50 percento della forza lavoro agricola degli Stati Uniti è illegale; in California, secondo le stime, si è vicini al 60. Sempre più bambini clandestini e teenager vengono accettati come parte di questa forza lavoro. Al momento ci sono più di 3.500 minori senza genitori che lavorano nella contea di Monterey, secondo Ernesto Vela dell’Ufficio dell’Educazione dei Migranti. In tutto lo stato si superano probabilmente i 10.000. Negli USA, individui sotto il 14 anni, legalmente, non possono lavorare, e quelli sotto i 16 possono lavorare solo la sera, nei fine settimana e durante le vacanze scolastiche, a meno che non ottengano un permesso speciale del loro distretto scolastico che attesti il compimento del percorso scolastico e il permesso esplicito di lavorare invece che andare a scuola. Ernesto mi aveva già detto di non aver mai avuto bisogno di documenti o permessi di lavoro—nessuno dei suoi capi si è mai preoccupato di vedere se gli è permesso legalmente lavorare. Non ha nemmeno comprato la tessera contraffatta dell’assicurazione sociale—che molti bambini comprano al mercato nero nella periferia di Huron—per paura di compromettere il suo processo. Invece, ne aveva presa una in prestito “da qualcuno che al momento non lavora e non ne ha bisogno”. Ho chiesto a Ernesto se il suo lavoro era difficile. Non proprio, mi ha detto. Nei campi dell’Honduras, quando ha iniziato a lavorare all’età di 12 anni, faceva solo 100 lempire al giorno— cioè 5 dollari. Il lavoro lì era duro tanto quanto questo, se non di più, e precario. Quel tipo di vita non andava bene per lui, non poteva nemmeno aiutare la famiglia con una paga così incerta. “Per questo te ne sei andato?” gli ho chiesto. “Una persona tende a voler migliorare la sua vita,” ha detto rimanendo sull’astratto, universalizzando la sua esperienza e facendola sembrare non così particolare, non così male. “Uno vuole sempre avere qualcosa di più.” Proprio allora, la porta della casa di Ernesto si era aperta. Erano entrati tre ragazzi che portavano del cibo. Il cugino di Ernesto, Amilcar, che avevo intravisto al mercatino, sembrava un bulletto di scuola, solo con bicipiti sviluppati e lo sguardo indurito. Aveva 16 anni e veniva dalla stessa regione dell’Honduras di Ernesto—erano andati alle elementari insieme e avevano smesso circa alla stessa età per lavorare nei campi. Amilcar era stato negli USA per tre mesi, attraversando il confine senza scocciature. Portava 30 pacchi di Pepsi, mentre gli altri trascinavano sacchetti pieni di scorte alimentari per la settimana: ho contato almeno cinque cartoni di uova e tre pile di tortillas, così come diversi litri di succo di frutta e pollo surgelato. Ognuno di loro doveva fare tre viaggi per portare tutto quel cibo in casa. “Quando il lavoro inizia, domani,” diceva Ernesto, “non avremo più tempo per fare la spesa fino a domenica prossima.” A Mendota vivono 11.000 persone, quasi tutti immigrati provenienti da Messico, Honduras, Guatemala, o El Salvador. Molti di loro lavorano come braccianti nei campi che circondano le contee di Fresno e Monterey. Cinque di loro vivevano lì, divisi in tre piccole stanze da letto. C’erano Ernesto e Amilcar, entrambi di 16 anni; Juan Pablo di 22 e suo fratello più piccolo, José, di 19; e Junior, piccolo, muscoloso e con i capelli tirati all’indietro con il gel, anche lui 19. Juan Pablo e Junior hanno vissuto nell’area di Mendota per più di tre anni e hanno saldato con successo i debiti con il loro coyote. C’era un forte senso di famiglia nel gruppo; mi hanno detto che si prendevano cura l’uno dell’altro, i ragazzi più grandi davano consigli ai più giovani quando ne avevano bisogno. “Sai,” mi diceva Ernesto, “dicendoci cosa è giusto e cosa è sbagliato, e cosa dovremmo fare.” Gli ho chiesto se per lui era difficile vivere così lontano della famiglia. “Ovviamente mi mancano,” ha risposto. Amilcar, il tipo tosto tra i due, ha alzato le spalle—niente di che. “Ma ti fa sentire meglio parlarci spesso al telefono,” aggiunse Ernesto. “Così una persona si sente meglio.” “Stanno diventando dei bravi lavoratori,” ha detto Junior dei due ragazzi. “Stanno imparando.” Qualche settimana dopo, ho accompagnato Amilcar ed Ernesto alla loro prima lezione di inglese, a Mendota. Hanno l’impressione che conoscere l’inglese potrebbe aprire loro le porte del futuro, e dopo aver visitato casa loro, Amilcar mi aveva chiamato per chiedermi di aiutarlo a trovare dei corsi d’inglese in città. Dopo avergli ricordato che sono un giornalista e non un assistente sociale, ho deciso di aiutarlo. Gli ho spiegato dov’erano i corsi: non molto lontano da casa, e da dove andava al mercatino tutte le settimane. “Non so dov’è,” mi ha detto al telefono. Quando ho guidato fino a casa loro per andarli a prendere, erano appena tornati da lavoro. Ernesto era in doccia, si stava preparando per uscire. Ma Amilcar, che era il più entusiasta di tutti, sembrava esitante. “Secondo me non possiamo andare stasera.” “Perché no?” “Perché devo preparare il pranzo per domani.” In una padella, c’erano quattro petti di pollo che sfrigolavano lentamente. Ci ha versato dentro dell’altro olio da una grossa caraffa gialla, ha girato i pezzi di carne e ha alzato la fiamma. “Sono appena tornato da lavoro, mi dovrei fare la doccia,” mi ha detto. Ernesto è arrivato dal corridoio che profumava di colonia, si era alzato i capelli e si era messo una camicia a quadri. “Mi porto questo quaderno e la penna, che dici?” aveva detto platealmente. Amilcar era evasivo mentre cucinava. Era ancora indeciso sulla lezione di stasera. Chi non ci penserebbe due volte prima di andare a una lezione d’inglese da tre ore dopo 12 ore a potare mandorli sotto il sole? Suo cugino più grande, seduto al tavolo della cucina, gli aveva intimato di andare. “Devono imparare, è importante,” aveva detto Junior—coi suoi capelli perennemente ingellati—mentre si scolava una tazza di succo. “Ok, ci vado” ha detto Amilcar alla fine, uscendo dalla cucina e andandosi a fare la doccia. Mentre aspettavo, ho chiesto a Junior perché non fosse interessato alle lezioni d’inglese. “Vanno bene per i giovani, ma non per me. Mi servirebbero—ma sai, sono vecchio.” Ha detto. Aveva solo 19 anni. Gli ho chiesto fino a che età era andato a scuola in Honduras. Aveva frequentato quasi tutta la terza elementare, e sapeva solo leggere e scrivere solo un po’ in spagnolo. Si era arreso all’idea di non poter più imparare qualcosa che non fosse il lavoro nei campi, ma era speranzoso per i suoi cugini più piccoli. Quando siamo arrivati alla scuola, un gruppo di studenti delle elementari e delle medie—sia immigrati e californiani—stava giocando a basket in palestra. Amilcar ed Ernesto si erano sistemati la camicia nervosamente, e stringendo i quaderni avevano attraversato la libreria, dove si teneva il corso d’inglese—ma la stanza era chiusa. Il corso era stato annullato, quel giorno. Amilcar ed Ernesto erano molto delusi, ma anche un po’ sollevati. Per quanto ne sapessero, l’educazione era importante per il loro futuro, ma la vita senza scuola al momento andava benissimo. Ma volevano lavorare nei campi per sempre? “Oh, no” ha detto Ernesto. Amilcar ha scosso la testa. Dopo una lunga giornata di lavoro, Amilcar viene accolto da uno dei ritratti a caso che decorano il salotto. Mi ha colpito che una caratteristica della loro giovane età era una fiducia verso il futuro così forte: nella loro mente, non sarebbero rimasti nei campi per sempre, nonostante il fatto che, statisticamente, probabilmente l’avrebbero fatto. Secondo l’Osservatorio per i Diritti Umani, un terzo dei giovani braccianti negli Stati Uniti hanno abbandonato la scuola, il che li lascia con poche opzioni a parte una vita di lavoro nei campi e la povertà che l’accompagna. Ed Ernesto ha abbandonato la scuola al sesto anno in Honduras—non ha nemmeno iniziato le superiori.“Lavorare in un ristorante, un giorno” ha detto Ernesto quando gli ho chiesto cosa sognava di fare, seduto sul sedile di dietro della mia macchina mentre andavamo in auto verso casa. Ha guardato fuori dal finestrino verso la notte di Mendota. “Sarebbe davvero bello.” Per tutta la sua abbondanza c’è qualcosa di malato nel paesaggio della Central Valley californiana. A poche miglia dalla casa di Ernesto a Mendota, l’aria è pesantemente grigio-marrone, inquinata dai camion che passano per la Highway 99, portando prodotti agricoli da impacchettare, distribuire e mettere in fila sugli scaffali dei Safeway e degli Hannaford del Paese. Le nubi tossiche annebbiano i raggi di sole sui campi, macchiando la linea d’orizzonte e i profili delle colture. Anche i campi, in città come Mendota, Huron e Raisin City, sembrano squisitamente tossici. Produttivi e pieni di fiori e frutta come sono, le piante sono sottilmente fiacche nelle loro file infinite, senza vita. Un paesaggio malconcio, scavato e pompato per ogni ultima piccola briciola che può dare. Una mattina presto, sei mesi dopo il mio primo incontro con Ernesto, mi sono inoltrato in questo paesaggio—ora secco e marrone—per andarlo a trovare a lavoro. Volevo vedere in prima persona come erano le condizioni, considerato che lavo- rare in questi campi oltre a essere illegale è anche probabilmente essenziale per capire lo stile di vita dell’americano medio. Ero curioso di come se la passasse tutti i giorni, e di come le compagnie—i loro capi e collaboratori—giustificassero l’impiego di bambini come Ernesto, come se fossero adulti idonei al lavoro. Ma considerate le varie contraddizioni del caso, l’ultima cosa che volevo era che Ernesto venisse licenziato, quindi avevamo elaborato insieme un piano per aggirare il problema: una volta arrivato nei campi, mi avrebbe detto dove stava lavorando (ogni giorno gli veniva assegnato un posto diverso), e io mi sarei guardato in giro e avrei fatto domande generiche al suo gruppo sul raccolto. Mi sarei presentato come giornalista, ma non come un conoscente di Ernesto. Nel caso in cui la cosa non avesse funzionato, avevo organizzato un innocuo posteggio fuori da casa sua, da dove poter osservare, nel fresco della mattina ancora buia. A un certo punto, un camioncino bianco ha accostato e ha suonato il clacson. Ernesto è corso fuori con il sacchetto del pranzo, come un liceale in ritardo per il bus. Ho seguito il veicolo ma l’ho perso di vista dopo qualche curva a gomito. C’erano dozzine di camioncini bianchi che girovagavano per le strade di Mendota alle 6 del mattino. Comunque, mi sono diretto a Madera, la città dove Ernesto mi aveva detto che avrebbe lavorato tra i mandorli quel giorno, e ho aspettato l’sms che mi avrebbe inviato se ci fossimo separati. Un’ora dopo il mio telefono ha vibrato: “Dodicesima strada, dove a nord ci sono degli aranci.” Ero fuori strada, solo allora ho capito che Madera è sia una contea che una città. La città—che consiste di circa 16 miglia quadrate di campi—ha un Avenue 12, una Road 12 e una Dodicesima Strada. Mi sono diretto rapidamente lungo la dodicesima, che corre lungo pochi isolati nella piccola peri- feria di Madera. “Road o Avenue?” gli ho scritto. “Road”. Allora ho guidato lungo le dieci miglia dall’inizio della Road 12 della contea di Madera cercando segni di arance, c’era la mia Volkswagen argentata e una carriola pietosa sporcata da strade piene di pozze di fango. Strade lastrate o polverose diventavano tunnel sotterranei e poi di nuovo fuori e poi per giunta senza uscita (nonostante il mio iPhone insistesse che ero sulla strada giusta), ai bordi vedevo alberi su alberi su alberi ma non aranci, la mia macchina sembrava più debole e la mia ricerca sempre più futile ad ogni metro che percorrevo. Dopo aver esplorato ogni centimetro della Road 12 senza risultato, sono andato sulla Avenue 12, una larga e infinita pista in cui i camion passavano rumorosi sui vasti campi marroni: solchi vuoti e sporchi, alberi spogli senza frutti né foglie. A differenza dell’estate, quando i camioncini e gli autobus pieni di lavoratori popolano i campi e le strade, non c’erano lavoratori in vista. Proprio quando stavo per arrendermi e fare retromarcia, comunque, ho intravisto una fila di aranci lungo la strada—una macchia di mandarini, i punti di riferimento che cercavo. Avanzando lentamente sulla Avenue 12 con la selva brillante di alberi di mandarino da una parte, sperando di arrivare tra i mandorli dov’era Ernesto, ho pensato al profilo di un diciassettenne di cui avevo letto su un giornale, che al suo primo giorno di lavoro in un aranceto della Florida era stato investito da un camion. Ma tolti gli umani e l’umana follia, queste piante erano magnifiche (a parte il tappeto di frutta in decomposizione tra un albero e l’altro), i colori vividi mi davano il benvenuto dal paesaggio invernale fulvo che stavo attraversando. Poi, abbastanza sicuro della direzione, ho attraversato gli alberi di mandarini, e sono arrivato a un frutteto di mandorli dove un gruppo di uomini erano sparsi tra le file e scuote- vano i rami più in alto. Nonostante non potessi vedere le loro facce dalla strada, ho riconosciuto Ernesto tra loro. Allora sono andato oltre e ho aspettato. Un lavoratore di Migrant Education che avevo intervistato precedentemente mi aveva spiegato come funzionavano le dinamiche della proprietà e del denaro nelle piantagioni. C’è tipicamente un proprietario che possiede la terra e la affitta ad aziende diverse—in questo caso, Cottonwood Creek Farms, secondo il Madera County Department of Agriculture—che possiede invece gli alberi e, di conseguenza, i raccolti. Una compagnia separata gestisce i contratti di lavoro e assume le persone. Un bus a Huron aspetta di andare a prendere i lavoratori che abitano vicino ai campi di meloni e ai mandorli. Con tutti questi strati di proprietà—terra, piante, persone—è facile capire come riesca l’industria agricola a lavarsi le mani se si scopre una violazione del diritto del lavoro, tipo assumere lavoratori senza permesso o minorenni, per non parlare delle implicazioni morali del pagare così poco per un bene da cui si ricavano così tanti prodotti. Quasi ogni gruppo che lavora nella valle include lavoratori senza documenti, secondo lo staff di Migrant Education, e degli oltre 15 campi che ho visitato nel corso dei cinque mesi in cui ho seguito questa storia, ho incontrato lavoratori minorenni quasi in ognuno di questi. Intenzionalmente o no, le compagnie agricole lucrano sulla vulnerabilità e sulla paura dei lavoratori illegali. Se i lavoratori illegali, soprattutto minori, segnalassero abusi come mancanza di acqua, di ombra o di bagni, abusi da parte dei capi, furti di salari o salari da fame—tutto ciò è dilagante nella Central Valley, secondo la California Rural Legal Assistance, che aveva denunciato molte di queste cose—potrebbero perdere il loro posto di lavoro. Intanto, ai piccoli gruppi legali come il programma Migrant Education o la California Rural Legal Assistance mancano l’abilità e le risorse per rinforzare il diritto del lavoro esistente; riescono a citare in giudizio soltanto caso per caso. Ma certi casi finiscono raramente in giudizio e sono mere spine nel fianco delle mega-compagnie che raccolgono grossi profitti. Secondo l’Osservatorio sui Diritti Umani, tra il 2005 e il 2008, 43 bambini sono morti mentre lavoravano nei campi americani o nelle fabbriche tessili—un numero che non include i giovani lavoratori mascherati da adulti, una metrica quasi impossibile da quantificare. Mentre questi giovani lavoratori forniscono la manodopera a basso costo e grandi profitti per il business agricolo, il numero di minori non accompagnati è a carico del governo federale: l’ufficio del Refugee Resettlement è obbligato a dare un tetto ai minori non accompagnati che vengono presi, a dare loro del cibo, tenerli al sicuro, e assicurarsi che siano sotto la custodia di adulti responsabili—il che implica risorse umane e soldi. Prima di questo picco nel 2012, il budget per i ragazzini stranieri senza genitori girava intorno ai 150 milioni di dollari; nel 2014, il Governo l’ha alzato a 495 milioni. Ernesto mi aveva detto che il suo gruppo pranzava a mezzogiorno, così verso quell’ora ho accostato la macchina e in punta di piedi ho attraversato il frutteto, abbassandomi sotto le file di alberi. Alla fine sono arrivato su un camioncino bianco. I braccianti si riposavano, allungati nella chiazza d’ombra del veicolo, con gli altri appoggiati agli alberi vicini, sorseggiando silenziosamente della soda. Mi sono presentato, chiedendo dove avrei potuto trovare il capo. Nel gruppetto di uomini sdraiati ho visto per primo Junior—il diciannovenne che mi aveva detto di essere troppo vecchio per imparare qualcosa che non fosse il lavoro nei campi—con i capelli perfettamente in ordine, e il mento affusolato. Era sorpreso di vedermi e aveva distolto brevemente lo sguardo. Poi, fuori dal mio campo visivo, ho visto Ernesto. Con un cappello da baseball malandato e una maglietta bianca e pulita, era appoggiato placido al tronco di un mandorlo, i suoi stivali da lavoro e i jeans erano coperti di polvere. Poi ho scambiato moine con il capo, un uomo amichevole sui cinquanta di El Salvador, di cui Ernesto mi aveva già parlato, “è davvero un bravo boss. Non ci tratta mai male.” Mentre parlavo con il capo, Ernesto si era un po’ agitato, si era alzato ed era andato furtivo tra le file a nascondersi. Non ho chiesto niente di lui, o se sapesse che era minorenne. Ma credo si fosse reso conto da solo che questo componente del gruppetto era solo un ragazzino, e anche che, legalmente, lui non poteva stare lì, perché era il pomeriggio di un normale giorno di scuola. Non gli ho chiesto niente, un po’ perché non volevo metterlo nei guai, e poi perché non sembrava il posto giusto per perdersi nei risvolti morali della questione. Dopotutto, Ernesto voleva questo lavoro e aveva bisogno di sopravvivere. Il capo, che a sua volta era un bracciante che aveva fatto carriera, e il suo gruppo di braccianti avevano molte altre cose di cui occuparsi—la loro mancanza di documenti, il bisogno di uno stipendio, i debiti, le famiglie vicine e lontane. Invece ho chiesto al capo dettagli sul lavoro che lui e il suo gruppo stava svolgendo. Durante il periodo del raccolto, ha spiegato, le macchine passano attraverso queste file selvatiche di alberi e scuotono le mandorle. Ma le macchine non riescono a fare tutto. Ernesto e i suoi compagni erano addetti alla pulizia ulteriore. “Guarda,” mi ha detto, indicando il terreno. Era ricoperta di bucce di mandorle, che sembravano bulbi o ghiande muschiate. Ne ha afferrato uno dalla terra e l’ha schiacciato per tirarne fuori, con molta sorpresa da parte mia, una mandorla dorata perfetta. “Ma così tante mandorle vanno perse!” ho detto. “Così è. In ogni raccolto perdi qualcosa.” ha risposto. Dopo il tempo trascorso tra i campi di mandorle, non ho visto Ernesto o Amilcar per qualche mese. Ero occupato con il mio lavoro—insegno a bambini immigrati a Oakland, California, moltissimi dei quali sono minori non accompagnati. Da parte loro, Ernesto e Amilcare avevano continuato a potare mandorli mentre Ernesto aspettava il suo processo. Il loro lavoro calava durante le vacanze di Natale. I giorni erano noiosi, diceva Amilcar. Ernesto li trovava snervanti— era preoccupato all’idea di venire deportato, ed essendo senza lavoro, era anche senza soldi. Gli altri ragazzi che conoscevano si erano spostati in California o fino a Washington, Texas o Arizona, alla ricerca di colture invernali. Ma Ernesto e Amilcar erano spaventati all’idea di spostarsi per il raccolto perché erano clandestini. Conoscevano Mendota, qui avevano lavoro e connessioni e si sentivano abbastanza al sicuro dall’Immigration and Customs Enforcement (ICE). Amilcar in giardino. All’apice dell’incertezza, lo Stato della California aveva dichiarato lo stato di siccità. Come risultato, alcuni braccianti non si stavano nemmeno pre- parando, e Ernesto e Amilcar hanno aspettato, alla mercè del tempo. A inizio gennaio, Ernesto è andato a ritirare la posta. Dentro ha trovato una lettera dall’ufficio immigrazione di San Francisco, a cui era passato il caso: “La prego di prendere nota che il [suo] caso è stato fissato per un’udienza preliminare a luglio 2015. La mancata presenza… può essere punita con… la custodia presso il dipartimento di Sicurezza Nazionale.” Gli ci è voluto un po’ a capire la lettera, ma po’ rimase scioccato: il suo processo—quello che potrebbe determinare la sua vita—era stato posticipato. La corte dell’ICE è troppo carica di lavoro. Invece di scoprire se sarebbe stato deportato a marzo o aprile 2014, avrebbe dovuto aspettare un altro anno e mezzo. Quando andrà in tribunale, saranno passati due anni da quando ha superato il Rio Grande in quella barchetta. In un certo senso, la storia aveva senso così. Come molti altri ragazzini perduti prima di lui, Ernesto sarebbe rimasto in un limbo, alla mercè della corte, dei gangster, del mercato, delle coltivazioni, del clima della California. Forse passerà tutta l’adolescenza in questo stato di incertezza. Quando lo incontro l’ultima volta a Mendota, mi dice, con un ottimismo impressionante e forse ingiustificato, che ha visto il rinvio del processo come una cosa buona. Starà negli Stati Uniti a lavorare e non in Honduras, e questo per lui era abbastanza. “Ho tempo di trovare un avvocato,” mi ha detto. Suo zio, che era “da qualche parte a Nord,” aveva promesso di aiutarlo, ma quando insistevo a chiedergli come, e con che soldi, non sapeva darmi risposte chiare. Anche con un ottimo avvocato, le possibilità di ottenere una richiesta d’asilo, e poi un visto, sono le stesse di vincere alla lotteria. Puntare sulla violenza delle gang in Honduras non era abbastanza, e non era dimostrabile che lui fosse nel loro mirino. Secondo la Women’s Refugee Commission, molte poche cause di asilo vin- cono basandosi sulla violenza tra gang, perché sono difficili da dimostrare, e non basta indicare la generica violenza di un’area. In poche parole, a Ernesto non era andata abbastanza male da meritarsi il visto. Gli ho chiesto cosa dirà al giudice. “Ci penserà il mio avvocato, quando ne troverò uno.” E se non lo trovasse? “Credo che chiederò al giudice se posso restare.” Gli ho chiesto cosa pensa della deportazione, “Se mi mandano a casa, non torno nella mia città, è troppo pericolosa,” i membri delle gang potrebbero riconoscerlo. “Andrò da qualche altra parte.” “Dove?” ho chiesto. “Be’, e chi lo sa.”