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Cosa è successo alle manifestazioni studentesche in Italia

Un'occhiata alle condizioni del movimento studentesco ora che i nemici contro cui deve combattere non si chiamano più Letizia Moratti o Mariastella Gelmini, e agli studenti sembra fregare ancora meno di prima.
Niccolò Carradori
Florence, IT

Manifestazione a Roma, ottobre 2013. Foto di Federico Tribbioli.

Quando finii le elementari, visto che le scuole medie del mio comune, per risparmiare tempo e inutili illusioni, organizzavano gite formative a Sollicciano per mostrare ai propri studenti quale futuro li attendeva, mia madre decise che mi avrebbe iscritto alla scuola privata che lei e le sue sorelle avevano frequentato. Un istituto paritario della provincia, gestito da suore mantellate.

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Quell'autunno, dalle finestre del palazzo rinascimentale che ospitava l'istituto, vidi la prima manifestazione della mia vita. Non ricordo il motivo per cui si manifestava, ma il corteo si era fermato proprio sotto di noi.

Per un quarto d'ora sono rimasti lì, a cantare cori contro la Chiesa, il Papa, e i fighetti delle scuole private. Poi qualcuno ha cominciato a tirare delle arance contro le finestre, rompendone un paio. A quel punto una suora si è affacciata da uno dei balconi e ha cominciato a inveire contro la folla, mentre tutte le altre si affrettavano a chiudere gli scuretti.

Non riuscivo a capire cosa urlasse, ma prima di rientrare aveva strillato "Siete tutto fumo e niente arrosto!"

Dopo poco è arrivata la polizia e il corteo si è spostato. Finite le lezioni sono uscito insieme agli altri, e mentre ascoltavo uno dei miei compagni più grandi sproloquiare sul fatto che quelle zecche puzzolenti di lì a qualche anno sarebbero stati i nostri servi della gleba, ho notato una scritta a bomboletta sul muro di fianco al portone. Una piccola suora scheletrica si affannava con un panno intriso di alcol per cercare di cancellarla, inutilmente.

C'era scritto "MEGLIO IL FUMO DELL'ARROSTO!"

Ora, io all'epoca non sapevo manco cosa fosse il fumo, e non avevo neanche lontanamente un barlume di coscienza civile, ma capii che potendo scegliere fra i tizi con le kefie in strada e la progenie post democristiana con cui ero stipato tutti i giorni, preferivo di gran lunga i primi.

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Così due anni dopo, quando sono andato al liceo ho cominciato a manifestare anche io.

Fu un anno di apprendistato abbastanza intenso: essendo nato in Toscana, avevo l'opportunità di frequentare uno degli atenei sinistroidi più rigorosi e nostalgici. Iniziai ad andare al circolo ARCI del mio paese, a partecipare alle assemblee di istituto e ai cortei contro la Moratti, ad ascoltare gruppi socialmente  impegnati, e a comprare capi di vestiario che testimoniassero il rifiuto verso il mondo capitalista che ogni giorno assorbivo per osmosi. Cominciai anche a capire per quale motivo il fumo era meglio dell'arrosto.

Nonostante, con il senno di poi, possa affermare che i miei interessi riguardo alle aggregazioni studentesche fossero praticamente tutti collaterali, avevo imparato un elenco di motivazioni e filippiche retoriche da propinare a chiunque mi chiedesse per quale motivo era importante farlo. E ci credevo anche.

L'anno successivo partecipai alla prima occupazione. La cosa non si rivelò poi un granché: nonostante un'oligarchia dell'ultimo anno organizzasse ogni giorno riunioni in aula magna per dare direttive, le giornate si esaurivano in collette per lo sputnik, e nel tentativi (falliti) di ricevere fellatio nei bagni da ragazzette con le Etnies mentre nei corridoi rimbombava "Chi non salta Berlusconi è" dei Peter Punk.

L'hype di quella occupazione venne raggiunto quando un tizio, che non so perché si faceva chiamare Cobra, improvvisò uno spogliarello e corse nei corridoi in mutande per una mattinata intera.  Dopo tre giorni l'occupazione era già finita, e visto che Cobra l'anno successivo si iscrisse a un professionale (finendo nel giro degli pseudofascisti che stazionavano di fronte alle Poste e cercavano pretesti astrusi per rompere setti nasali), non ci furono motivazioni sufficienti per occupare di nuovo.

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Continuai a partecipare alle manifestazioni, ma anno dopo anno il mio interesse verso le tematiche politiche calava, a differenza di uno zoccolo duro di oltranzisti in cui i semi della tempra sociale avevano attecchito sul serio. (Alcuni dei ragazzi con cui avevo partecipato alle prime manifestazioni hanno continuato a farsi le ossa a forza di sputi a poliziotti e manganellate, un po' come succede quando giochi a calcio nei pulcini e piano piano quelli che hanno più talento vanno avanti mentre tu rimani indietro. Alcuni attualmente militano nel campionato NoTav. Ma erano un gruppo piuttosto esiguo.)

Sciopero generale della scuola, 30 ottobre 2008, Roma. Foto via Flickr/Vincenzo Fiore.

Nel frattempo mi avevano segato ben due volte, quindi ho fatto in tempo a godermi l'ultimo riverbero di protesta suscitata dal decreto Gelmini. Il 2008, Onda o non Onda, era stato un anno disastroso: la carcassa fumante di Bertinotti aveva creato un trombo che risaliva inesorabile l'arteria femorale, e il tessuto si indeboliva rapidamente nonostante anni e anni di cinghiale in salmì alle feste dell'Unità.

Dopo una riunione nel parco dietro la scuola, fu deciso di occupare. Il ragazzo che gestiva la cosa, il cui padre aveva militato in Prima Linea, aveva deciso di fare le cose sul serio. I primi giorni erano stati organizzati cineforum, dibattiti e assemblee. La responsabile, dopo che la preside aveva minacciato uno sgombero forzato, aveva dichiarato al giornale locale: "Non scenderemo a compromessi, bloccare la scuola è l’azione forte che cercavamo e non torneremo indietro. Se la preside deciderà di farci sgomberare dalla polizia faccia pure."

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Nonostante i buoni propositi, e passata la botta di epinefrina dell'agguato al bidello per fottergli le chiavi, anche quell'occupazione andò in merda. A poco a poco la situazione era degenerata in una specie di esonero a oltranza dall'ora di educazione fisica: cineforum o no, assemblee o no, il 90 percento della gente si ammassava in palestra per cantare "Alba Chiara" e cazzeggiare. La maggior parte non era neanche troppo convinta della scelta fatta, e alcuni si rifiutavano di scrivere il proprio nome durante la raccolta firme per continuare a occupare.

Dopo qualche giorno il nostro piccolo Che ebbe un crollo emotivo: spintonò una ragazza che si era rifiutata di firmare e mise le mani addosso alla preside che tentava di entrare nella scuola. Quando gli venne fatto notare che non era il comportamento da tenere, se ne andò indignato dalla nostra mancanza di palle. Il giorno successivo, durante una riunione, venne votata la fine dell'occupazione.

Quella è stata l'ultima forma di protesta a cui ho preso parte: la tenia borghese che serbavo nell'intestino si era svegliata. Mi sono iscritto alla facoltà di psicologia dell'Università di Firenze, e il primo giorno di lezioni c'era un banchetto del collettivo che distribuiva volantini. Gli ho dato una rapida occhiata, e ho scambiato due parole con una ragazza che portava un giaccone militare. Non ricordo cosa ci siamo detti, ma ricordo bene il sapore metallico di pubertà che sentivo sulla lingua.

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Quando ho saputo che il collettivo si chiamava Psi Per Vendetta, ho deciso che per me finiva lì.

Da quel giorno, probabilmente per indorarae con uno strato di elegante cinismo il mio disinteresse, mi sono reso conto che le manifestazioni studentesche hanno più a che fare con l’intrattenimento e con l’affermazione di un’identità che con rivendicazioni propriamente politiche. Queste ultime sono più che altro un pretesto: il vero motivo per cui gli studenti di sinistra partecipano a una manifestazione è perché si tratta di un evento che insieme intrattiene e definisce, fornendo un’identità sulla base di un’appartenenza.

Venerdì 10 ottobre, gli studenti di tutta Italia sono scesi in piazza per manifestare contro il Jobs Act e la riforma Giannini dell’istruzione. “Troviamo assurda una riforma della scuola che si basi interamente su merito e competizione, due valori […] a nostro avviso inutili, ingiusti e inapplicabili,” si legge nel comunicato stampa dell’Unione degli Studenti, il gruppo che ha organizzato la protesta. Protesta che è stata coordinata tramite un apposito hashtag (#10o) e che ha interessato un centinaio di piazze in tutta Italia, coinvolgendo, secondo l’UdS, circa 100.000 studenti. In aggiunta a questo c'è tutto un pacchetto di altre questioni: l'entrata delle aziende nel mondo dell'istruzione, l'Expo, il nuovo test invalsi e il vertice europeo che si è svolto in settimana.

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A Milano la liturgia è stata rispettata in pieno. Striscioni con sloganismo vario in cima al gruppo, adolescenti esagitati dotati di megafono, e le classiche due-tre provocazioni: graffiti contro l'EXPO, un'arrampicata sui cancelli del provveditorato a Milano con stazionamento nel cortile annesso, e una sacchettata di letame lanciata contro il cancello della Cattolica. Il corteo si è chiuso con il confronto fra gli studenti e il provveditore Marco Bussetti, che è uscito dal provveditorato e ha parlato con un megafono. "Scrivetemi un documento con tutte le vostre istanze. Mi impegno a farvi da portavoce: le presenterò al direttore regionale."

#10o 100.000 studenti in più di 100 piazze! Nel collage: Roma, Milano, Torino, Bari, Napoli, Firenze #entrainscena pic.twitter.com/ILaXToRgyl

— Unionedegli Studenti (@UdS_Studenti) October 11, 2014

Dato che erano passati un po’ di anni dall’ultima volta che avevo partecipato a una manifestazione, ero presente al corte di Milano per dare un'occhiata alle condizioni del movimento studentesco ora che i nemici contro cui deve combattere non si chiamano più Letizia Moratti o Mariastella Gelmini. Era dunque la mia prima volta da "osservatore esterno", sufficientemente distaccato dal contesto scolastico per poter elaborare una riflessione sul tema.

Dopo la breve promessa di Bussetti molti avevano già iniziato a sciamare verso casa e il piccolo presidio degli studenti era sorvegliato a distanza da un gruppo di poliziotti palesemente annoiati. Quando ho chiesto in giro quali fossero i motivi della protesta, nessuno dei manifestanti è riuscito a darmi una risposta soddisfacente; a dirla tutta, a molti di loro non sembrava nemmeno interessare. Non hanno cercato di propinarmi le cinque banalità trite che sparavo a raffica quando ero al loro posto. La sensazione generale che ho avuto, però, è stata la stessa: ovvero che alla base della protesta ci fosse, più che un malessere reale, la volontà di portare avanti una tradizione consistente nell’impugnare vaghe istanze di cambiamento.

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La differenza rispetto a qualche anno fa, credo, risiede nel fatto che la diffusione pervasiva di internet nelle nostre vite abbia reso molto più semplice organizzare eventi di questo tipo, coordinando più istituti e città nella stessa protesta. Ma forse ha comportato anche la perdita della loro capacità di intrattenere chi vi partecipa—il che non è niente di nuovo, perché il virtuale ha effettivamente influito su tutte le forme di socialità reale. In quanto a intrattenimento, le richieste di un quindicenne si sono evolute; l’offerta di questi eventi non si è evoluta di pari passo. Dieci anni fa le casse montate sul camioncino in testa al corteo alternavano a comizi canzoni di Guccini o dei Modena City Ramblers, oggi suonano pezzi rap sull’intifada.

Volendo andare al di là dell'inutile discorso dell'"ai miei tempi era diverso/era meglio prima," l’impressione che ho avuto è che, oltre a perdere il suo valore di intrattenimento, la manifestazione ha smesso anche di essere la fonte primaria di legittimità per un certo tipo di identità. Perdendo questo valore, ha perso anche buona parte dell’attrattiva che esercitava—trasformandosi in una formalità, qualcosa di simile a una festa comandata priva di senso.

Una considerazione abbastanza banale ma veritiera, è che con l'avvento del bipartitismo la murmura vescicolare dei punti di riferimento politici si è fatta sempre più flebile. Come se non bastasse, la forza gravitazionale del grillismo ha dato una sfumatura ancora più grottesca alla cosa.

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Forse la mia è l'ultima generazione che ha avuto un minimo legame con un certo tipo di sinistra. Replicare il format delle proteste studentesche che avevamo idealizzato aveva quantomeno un barlume di credibilità. Quando l'altro giorno ho visto studenti di 15 anni con il pugno sinistro alzato, ho provato uno strano senso di straniamento per procura.

Con questo non voglio assolutamente sostenere che la manifestazione di dissenso e le cause che ne stanno alla base non siano giuste, che si dovrebbe cessare di protestare, o che l'autoconsapevolezza debilitante sia una caratteristica esclusiva delle mobilitazioni studentesche contemporanee. È la configurazione generale di un evento morto a dover essere svecchiata.

Date un'occhiata a questo video che ho trovato sul sito del Corriere e provate a trovare differenze fra il 1997 e il 2014.

Sabato 25 ottobre gli studenti scenderanno ancora in piazza a fianco dei lavoratori per partecipare allo sciopero nazionale indetto dalla CGIL, e la solfa si ripeterà ancora.

La cosa più triste, per me, non è il fatto che fondamentalmente le manifestazioni in termini di cambiamenti reali della società abbiamo rilevanza zero, ma che in un certo senso non abbiano più rilevanza nemmeno per le esperienze soggettive.

Se dovessi affacciarmi oggi da un istituto paritario gestito da suore per vedere passare uno di questi cortei, la prospettiva di simbiosi con i miei compagni collaborazionisti non sarebbe distopica quanto mi era sembrata 15 anni fa: spalancandomi le porte di un'adolescenza fra gli scout AGESCI, delle partecipazioni alla Ruota Della Fortuna e delle cariche di presidente della Regione Toscana.

Segui Niccolò su Twitter: @NCarradori