FYI.

This story is over 5 years old.

Psicología

Pro e contro della terapia di gruppo, secondo una ragazza che l'ha fatta

Da pianti disperati a litigi in stile mucciniano passando per violente recriminazioni, il gruppo era un organismo dotato di vita propria.

"Le vorrei proporre di iniziare una terapia di gruppo: cosa ne pensa?" È con questa semplice esortazione che, circa due anni fa, la mia psicoterapeuta mi ha aperto le porte di un'esperienza che difficilmente dimenticherò.

La mia fiducia incrollabile nella psicoterapia ha radici profonde, che affondano negli anni dell’adolescenza. Fu mia madre che, di fronte al muro eretto nei suoi confronti e a un malessere galoppante, stabilì che "con qualcuno ne dovrai pur parlare." Oggi, per me prendersi cura della propria salute mentale costituisce un imperativo categorico al pari di non trascurare l’igiene orale, e con ciò non voglio affatto sminuire la questione, anzi. Piuttosto voglio riportarla a una normalità che spesso non le è stata riconosciuta.

Pubblicità

La proposta di affrontare una terapia di gruppo è arrivata in un luglio torrido della mia età adulta, dopo che da un anno avevo ripreso in maniera continuativa un percorso con una psicoterapeuta di cui mi fidavo e che mi aveva aiutato a superare un momento complicato. All’inizio l’ho vissuta come una specie di provocazione: da brava figlia unica, i gruppi non sono mai stati il mio forte. Non ho mai praticato sport di gruppo; da piccola mio padre minacciò di diseredarmi qualora avessi voluto frequentare gli scout; non ho mai aderito a club; sono nata e cresciuta in una città dove la balotta è il fulcro della vita sociale ed è esattamente per questo motivo che sono scappata subito dopo la maturità. Insomma, il gruppo per me è ok, ma a piccole dosi.

Il preambolo è doveroso per capire come mi sentivo quando l'ottobre successivo andai alla mia prima sessione. Entrata nella stanza dove prima si tenevano le mie ordinarie sedute, trovai sette sedie disposte in cerchio, su cui ogni partecipante—me compresa—prese posto. Era la prima volta che vedevo queste persone, e di loro non sapevo nulla se non che condividevamo la stessa terapeuta, lì con noi a moderare la conversazione.

La parte più difficile, soprattutto durante i primi appuntamenti, con cadenza settimanale e della durata di un’ora e mezza, consisteva nel farsi avanti per primi e—nel mutismo generale—prendere la parola introducendo l’argomento che avrebbe funto da traino. Semplice a dirsi, ma provateci voi, a vincere la timidezza e raccontare le vostre paure, sfighe, traumi, idiosincrasie e compagnia cantante a una banda di sconosciuti.

Pubblicità

A volte trascorrevamo i primi dieci, 15 minuti fissandoci le punte dei piedi, col terrore di alzare gli occhi e incontrare lo sguardo della terapeuta che, con un cenno del capo, ci invitava a parlare. Non era mai lei a “dare il la”, esattamente come nelle sedute singole. Il suo ruolo di moderatrice si materializzava quando il discorso era avviato, e allora riconoscevo le sue domande mirate a farci ragionare e non volersi fermare di fronte a un "Non so perché." Rispetto alle sedute singole, il ragionamento era corale: "A cosa vi fa pensare quello che ha raccontato Marianna? Cosa vi viene in mente?” La nostra vita era sotto un microscopio composto da sei lenti, e una persona, dall’alto, aggiustava sistematicamente lo zoom. Ma noi ci vergognavamo a guardare.

I mesi iniziali trascorsero in una sorta di limbo: pochi osavano sbilanciarsi, e chi dimostrava coraggio finiva col vuotare il sacco su vicende intime senza avere riscontri sostanziali da parte del “pubblico”. Tanti i timori che impedivano al dialogo di decollare: e se pongo troppe domande e risulto indiscreto? Come faccio a esprimere il mio disaccordo? Posso intervenire interrompendo chi sta parlando? Posso intervenire per farlo smettere di parlare, se mi annoio? Ma era solo la superficie del problema: la sensazione principale era la frustrazione, perché ci sembrava di non fare passi avanti.

È buffo, ripensandoci, sapere che fui proprio io, in un momento di totale insofferenza, a dare quella che venne poi definita una “scossa”. Avvenne in seguito a una seduta durante la quale mi esposi più del solito, riportando alcuni avvenimenti che mi avevano fortemente turbata. Riferirli non fu facile: mentre cercavo si spiegare l’accaduto provavo un imbarazzo paragonabile a quello che avrei vissuto sfilando nuda davanti a sei sconosciuti. Il mio sforzo non sortì grandi effetti visibili, comunque: un silenzio tombale intervallato dagli stessi consigli che avrebbe potuto darmi la signora della tintora a cui porto le camicie.

Pubblicità

Sbroccai la settimana successiva, mettendo tutti davanti al fatto che, se fossimo rimasti ancora indifferenti di fronte a ciò che si portava all’interno del gruppo, allora tanto valeva rimanercene a casa. Da lì le cose pian piano cambiarono, facendosi più intense, in tutti i sensi. Da pianti disperati a litigi in stile mucciniano, passando per violente recriminazioni fino ad arrivare a improbabili dimostrazioni di affetto, il gruppo diventava via via un organismo dotato di vita propria, con una sua routine fatta di dinamiche, riti e abitudini che andavano consolidandosi. La diretta conseguenza era la conoscenza più approfondita dei membri di questa strana “famiglia”: sei persone che ho cercato di rivalutare ma con cui, in circostanze normali, non sarei andata nemmeno a bere un caffè.

Per esempio, l'aspetto prestazionale delle mie relazioni e la necessità di aderire alle aspettative che ritengo gli altri ripongano in me—con conseguenti bestie nere di insuccesso e fallimento—sono ciò che mi ha spinto ad andare in terapia, e una delle istanze che più di frequente emergevano in gruppo. Quando raccontai di un grosso fraintendimento con un'amica che aveva finito per sabotare il nostro rapporto e delle ripercussioni in termini di senso di colpa e delusione, scatenai un’animata presa di posizione da parte dei miei compagni. "Hai ragione tu, hai fatto bene a mandarla a cagare.""No, ha ragione lei e tu sei una stronza malfidata." Ovviamente non era quello il punto, e a nulla valsero le esortazioni della terapeuta a non inscenare un tribunale delle intenzioni: la mia storia venne ridotta a una puntata di Forum dove a nessuno pareva interessare che cosa mi avesse spinto ad agire un quel modo, e dove io stessa non ero quindi portata a rifletterci. Avrei potuto farlo presente? Sì. Eppure non lo feci: pesava di più l’approssimazione con cui una vicenda che mi aveva fatto soffrire era stata ritenuta “di poco conto”.

Pubblicità

Rimasi nel gruppo due anni, dando prova di un notevole stoicismo, e devo dire che a qualcosa è pure servito: in questo tempo mi sono conquistata la nomea di una persona piuttosto pratica, dal “ritmo veloce” di pensiero e d’azione, che mira a risolvere concretamente le difficoltà, anziché fissarle da lontano e dolersene. La mia attitudine in effetti si è estremizzata per contrasto con quella degli altri membri. Il risultato, all'interno del gruppo, era però che spesso passavo per superficiale: pur continuando a mettermi in gioco, venivo trattata con sufficienza rispetto a chi invece si lasciava sopraffare dagli eventi e dalle complicazioni. Ciò ha contribuito ad alimentare un senso di avvilimento che, da un certo punto in poi, non mi ha più mollata.

Intanto, una pericolosa domanda—"Ma chi me lo fa fare?"—aveva preso a ronzarmi in testa, insieme a una certa intolleranza nei confronti degli altri partecipanti e delle loro storie personali. Certo, non eravamo lì per fare amicizia, eppure fidarmi di gente che percepivo lontana anni luce da me e dal mio vissuto costituiva un ostacolo insormontabile: come potevano capirmi? Pare un’ovvietà, ma dalla notte dei tempi cerchiamo un’affinità con gli altri per instaurare una relazione di stima reciproca che ci permetta di cercare e di tenere in considerazione i loro consigli e pareri. Altrimenti siamo nel campo dell'autolesionismo, sia a livello psicologico, che economico.

La decisione di abbandonare il gruppo è stata presa in totale solitudine, senza pressioni o sollecitazioni esterne. L’ho poi dovuta comunicare in camera caritatis suscitando reazioni contrastanti, dalle accuse di alto tradimento all’accondiscendente indifferenza. Forse è stato una specie di atto di ribellione, ma mentre "uscivo dal gruppo" avevo la netta impressione di stare finalmente facendo qualcosa per me stessa, con una risolutezza e una fermezza che mi erano mancate in tante occasioni passate.

Non è certo questa la sede per analizzare quanto e cosa l’esperienza della terapia di gruppo mi abbia dato, ma sono sicura di avere un bel po’ di argomenti da affrontare con la mia psicoterapeuta. In sedute singole.

Segui Marianna su Instagram.