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Cosa succede adesso che gli USA sono usciti dall'accordo sul nucleare con l'Iran

Donald Trump ha mantenuto una delle sue promesse elettorali, ma cosa comporta concretamente questa decisione?

L'8 maggio 2018, Donald Trump ha annunciato il ritiro americano dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), l'intesa sul nucleare iraniano sottoscritta nel 2015 dall'Iran, dall'Unione Europea e dal 5+1 (cioè i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu più la Germania). Si tratta di una decisione molto grossa, attesa e temuta al tempo stesso, e potenzialmente in grado di cambiare lo scenario geopolitico. In che modo?

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Anzitutto, per chi non sapesse in cosa consiste l’accordo, è utile fare un breve riepilogo. In base ad esso, l’Iran—anche e soprattutto per rompere l’isolamento internazionale—ha accettato di limitare drasticamente il suo programma di sviluppo nucleare, da sempre visto in modo sospetto dagli USA, nonché di permettere ispezioni a sorpresa dell’Agenzia internazionale per l’Energia atomica (Aiea), in cambio della cessazione di una parte delle sanzioni economiche.

Stringendo quel patto, l'attuale amministrazione “dialogante” di Hassan Rouhani ha scommesso che i potenziali benefici derivanti dalla rimozione delle sanzioni superassero i costi della parziale dismissione del programma nucleare. Tuttavia, si è sempre dovuto confrontare con le (sempre più feroci e popolari) critiche del blocco oltranzista, basate su ragioni economico-finanziarie e sulla percezione dell'inaffidabilità americana.

Inaffidabilità, sempre in ottica iraniana, confermata dalle ultime parole di Trump. Il presidente americano, infatti, ha ufficializzato la sua decisione sostenendo che “oltre a non fermare le ambizioni nucleari iraniane, l'accordo non intacca neanche il loro sviluppo di missili balistici, in grado di trasportare testate nucleari. E infine, non fa nulla per frenare le attività destabilizzanti dell'Iran, incluso il suo sostegno al terrorismo.”

Ora, per chi conosce gli sviluppi dell'accordo, quelle di Trump sono parole che tradiscono la mancata comprensione dell'accordo stesso: nelle 159 pagine del JCPOA, infatti, non c'è alcun riferimento all'interruzione dei test di missili balistici iraniani, né alla necessità di limitare la sua influenza regionale. O meglio, un riferimento c'è laddove si afferma—appunto—che l'accordo sul nucleare iraniano prevede la rimozione delle sanzioni legate alle attività nucleari, sul settore bancario e petrolifero iraniano, ma lascia intatte le altre. Il JCPOA, quindi, non produce effetti rispetto allo sviluppo di missili o al protagonismo in Siria e Iraq, perché riguarda esclusivamente le ambizioni nucleari di Teheran.

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Nel documento della Casa Bianca rilasciato dopo il discorso di Trump, inoltre, si sostiene che l'Iran è “entrato nell'accordo in malafede.” In realtà sia l'Aiea, incaricata delle ispezioni nei siti nucleari sia l'UE che diverse agenzie di intelligence—compresa quella americana—hanno più volte attestato che l'Iran sta rispettando pienamente i patti.

A ogni modo, la decisione del presidente americano non è solo coerente con i suoi proclami in campagna elettorale, ma per certi versi è un atto di chiarezza dopo mesi di ambiguità: si certifica infatti la volontà di voler uscire da un'intesa sottoscritta ma mai applicata fino in fondo dal punto di vista sostanziale, cosa che ha influenzato o reso più complicata anche l'effettiva applicazione da parte dei paesi dell'UE.

E qui si arriva ad un altro punto fondamentale: sebbene la decisione americana di lasciare l'accordo porterà all'introduzione di nuove sanzioni (operative non prima di 180 giorni), il JCPOA non ha mai funzionato veramente. Le sanzioni sul comparto finanziario ed energetico dell'Iran, in essere prima dell’accordo, penalizzavano le imprese e le banche occidentali che facevano affari con controparti iraniane. Nel maggio 2014, la BNP Paribas fu costretta a pagare una multa di 9 miliardi di dollari per questo, e lo stesso si può dire per altri istituti come Hsbc, Credit Suisse, Ubs. Con l'entrata in vigore dell'accordo nel gennaio 2016, questi istituti sono tornati a poter operare in Iran.

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Ma solo in teoria. Perché, sin da subito, è stato palese il pericolo di ritorsioni. Come accennato, il JCPOA non ha portato alla rimozione di tutte le sanzioni ma solo di una parte. Così, le banche europee sono state mediamente restìe a condurre affari in Iran, nel timore di incorrere nelle sanzioni rimaste in vigore sullo sviluppo di missili e il sostegno ad Hezbollah.

Nel maggio 2016, un rapporto dello studio legale Clyde & Co. fece emergere che un quarto dei principali imprenditori britannici interessati a fare affari in Iran considerava le sanzioni il principale elemento deterrente, che si affiancava alla riluttanza—sempre legata alle sanzioni americane—da parte delle banche di concedere linee di credito a chi volesse investire in Iran.

Per le aziende americane, la possibilità di fare affari con l'Iran era ancor più una chimera, visto che devono ricevere l'approvazione del Dipartimento del Tesoro americano. Quando l'annuncio di Trump sarà operativo, queste situazioni non faranno che moltiplicarsi, ponendo diversi problemi a coloro che hanno già firmato contratti con l'Iran (per fare qualche nome: Total, Shell, Eni, Saipem, Boeing, Renault, Volkswagen) a cui “verrà concesso un periodo di tempo per annullare le operazioni [in Iran], pena con gravi conseguenze,” come si legge nella nota della Casa Bianca di ieri.

In questo scenario, peraltro, paesi come Cina e India potrebbero riempire gli spazi vuoti lasciati dai soggetti occidentali, in primis per quel che riguarda le risorse energetiche. Non è ancora chiaro quale sarà il grado di autonomia—e di coesione—dell'Unione Europea rispetto alla decisione di Trump, pur registrando le affermazioni volenterose della responsabile della politica estera dell'Ue, Federica Mogherini, ferma sulla preservazione dell'accordo.

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Come ricorda Foreign Policy, le nuove sanzioni americane a lungo andare potrebbero infatti costringere le aziende europee a scegliere tra mercato americano e mercato iraniano: il che è una scelta dagli esiti assai prevedibili. Per l'Iran la priorità è vendere il suo greggio, il cui export è raddoppiato negli ultimi due anni, soprattutto verso l'UE, e farà di tutto per preservarla.

L'uscita degli Stati Uniti dall'accordo contiene anche segnali ambivalenti. Da una parte quello di un rafforzamento dello strumento sanzionatorio, utilizzato per decenni, con l'idea che soffocando l'economia iraniana sia possibile innescare una dinamica di malcontento tra la popolazione in grado di rovesciare il regime (soffocamento che, storicamente, tende invece a compattare gli iraniani); dall'altra, quello di un innalzamento deliberato del livello di scontro, del tentativo di spingere gli iraniani a reagire in modo sconsiderato, e che induce a non escludere un conflitto militare anche a prescindere dalla tenuta dell'accordo.

In questi calcoli, però, probabilmente ci si è dimenticati che l'Iran non è più quello di dieci anni fa. Ed è l'aumento costante dell'influenza regionale iraniana, sopratutto per quel che riguarda la presenza in Siria, ad essere intollerabile per l’asse Stati Uniti-Arabia Saudita-Israele. I fronti più caldi, non a caso, sono proprio il Libano, le alture del Golan in Siria e l'Iraq, dove ci sono ancora 5000 soldati americani.

Ad un occhio superficiale, dunque, l'annuncio di Trump appare come lo zenit di un percorso retorico anti-iraniano iniziato due anni fa; in realtà, può essere il nadir di una sempre più probabile, quanto voluta, escalation.

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