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Tecnologia

Perché rompere la filter bubble non è la mossa giusta

La filter bubble non è il problema, è solo un sintomo.

Partiamo mettendo subito in chiaro un punto: la responsabilità per l'elezione di Donald Trump non va attribuita alla filter bubble dei social media.

Questa idea solleva tutta una serie di problemi. In primo luogo, traccia un nesso di causalità diretto tra l'esito delle elezioni e i social media, dando per scontato che ogni elettore abbia un account su Facebook, Twitter o anche solo un accesso a internet. Secondo: suggerisce che i social media siano l'unico meccanismo attraverso il quale i fenomeni che hanno caratterizzato questa elezione—la disinformazione, l'estremismo, la radicalizzazione e la paranoia—sono proliferati.

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Anche se non mancano i recenti tentativi di illustrare in modo creativo le camere di eco che si creano quando le piattaforme social come Facebook producono feed che rafforzano le nostre convinzioni politiche, la filter bubble dovrebbe essere studiata piuttosto che combattuta. Il vostro feed di Facebook non è il problema. È solo un sintomo.

Cosa resta quando si fa scoppiare la bolla?

Secondo Wikipedia, la filter bubble entra in gioco quando "una ricerca personalizzata restituisce dei risultati scelti da un algoritmo che decide, in maniera selettiva, cosa ci piacerebbe vedere basandosi sulle informazioni a sua disposizione riguardanti l'utente. Come risultato, gli utenti si allontanano sempre di più dalle informazioni che non concordano con i loro punti di vista, isolandosi di fatto all'interno delle proprie bolle culturali o ideologiche."

Questa è la definizione che sottende le numerose riflessioni sul fare "esplodere la filter bubble," basate sulla premessa che la perturbazione digitale sia una tattica di per sé liberatoria. Ma non esiste una "via d'uscita" o, perlomeno, non nel senso tradizionale del termine che corrisponderebbe a rompere le filter bubble per creare degli spazi non monitorabili, manipolabili o in qualche modo limitabili.

Dobbiamo chiederci: cosa resta quando si fa scoppiare la bolla? Questo percorso è emancipatorio? Verso cosa ci conduce la liberazione dalla bolla? Cosa si ottiene facendo scoppiare la bolla? Cosa succede alle nostre idee, alle nostre pratiche e ai nostri comportamenti senza che strutture come le bolle diano loro ordine, forma e coesione? Per rispondere a queste domande e proporre soluzioni pratiche all'enigma delle filter bubble, dobbiamo sforzarci di capire cosa sono, cosa nascondono nei loro risvolti materiali, algoritmici, ideologici e nelle loro infrastrutture comunicative. Questo scritto non risponde a queste domande, ma offre un punto di partenza iniziale per pensare a delle linee guida per porsi domande che conducano verso possibili risposte.

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Ecco cosa manca alla definizione operativa di filter bubble fornita da Wikipedia: le filter bubble non sono ambienti immutabili o recinti stabili alimentati da informazioni prodotte in maniera unidirezionale dall'utente. Il "selective guessing" è pensato per affinarsi, cogliere delle sfumature e fornire contenuti maggiormente cliccabili quanto più un utente interagisce con gli oggetti tracciabili di una piattaforma come può essere Facebook. Gli utenti sono coinvolti in un ciclo di feedback in costante evoluzione composto da rapporti di machine learning con le infrastrutture dei social media. La loro stessa partecipazione attraverso le grammatiche di azioni indiscriminate come quella del "Click Click Like" di piattaforme come Facebook perfezionano continuamente il calcolo di cosa possono trovare "engageable."

Quanto più un utente interagisce in maniera frequente e robusta con una piattaforma, quanto meno l'algoritmo dovrà fare delle congetture su cosa può gradire: sia i processi di machine learning che le tipologie di contenuti prodotti diventano maggiormente su misura rispetto alle prestazioni degli utenti. In altre parole: attraverso il nostro interagire con i social media, siamo i primi responsabili per il restringimento del nostro orizzonte cognitivo. Oppure, come sostiene il ricercatore di Futures and Digital media, Giancarlo M. Sandoval: "Quando un individuo con un dato insieme di valori epistemico entra in questa infrastruttura algoritmica, contribuisce anche a formare una struttura algoritmica di credenze."

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Le filter bubble sono un prodotto della tecnica, ma non sono esclusivamente tecnologiche.

Le piattaforme dei social media sono sia epistemi che esempi della cultura degli algoritmi messa in atto: la "filter bubble" è progettata e funziona grazie a dei cicli di feedback perennemente all'opera, e il rafforzamento dei suoi meccanismi si basa su un rapporto simbiotico tra utente e piattaforma. In Feed Forward, Mark B Hansen illustra come questo lavoro algoritmico e cognitivo sfrutta anche l'attività dei loop "feedforward", i quali creano un rapporto tra gli utenti e le piattaforme definibile come "precessuale" piuttosto che processuale, dove i meccanismi che rafforzano le filter bubble non sono facilmente percepiti o compresi da un soggetto umano. I sistemi feedforward sfidano l'idea che le piattaforme, con il loro tenere conto degli input forniti dall'utente, siano semplicemente dei ricettacoli di informazioni. Nelle interazioni feedforward, il livello di coinvolgimento di un utente con i social media è inversamente proporzionale alla capacità dello stesso di mantenere la distanza da essi—il meccanismo del feedforward è una consunzione dell'umano da parte dei social media, un autocannibalizzarsi dell'utente in quanto agente della comunicazione. I media diventano sempre più predittivi, rivolti verso il futuro e proattivi: penetrano nei sistemi di credenze epistemiche anticipando queste "credenze"—dove per "credenze" si intende il calcolo delle probabilità che un utente interagirà con un certo tipo di contenuti che gli vengono proposti sui social.

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L'urgenza con cui si chiede di "scoppiare" le filter bubble deve essere messa in discussione per le sue premesse implicite che le piattaforme digitali siano intrinsecamente restrittive; che rompere il dominio digitale sia un atto esclusivamente di emancipazione e che le filter bubble dei social media siano le uniche strutture che impediscono agli utenti di entrare in contatto con idee che sfidano o mettono in discussione i loro sistemi ideologici. In questo senso, le filter bubble non sono le uniche a svolgere questo compito algoritmico, ma, semplicemente, nell'epoca del machine learning, sono diventate più efficienti. Le filter bubble sono un prodotto della tecnica, ma non sono strettamente tecnologiche. I social media sono una relatà relativamente recente, ma le filter bubble di certo non lo sono. Il curatore di Digital Culture, Filippo Lorenzin, a tal proposito sostiene che "filter bubble" è un termine che, nell'uso colloquiale, sembra riferirsi solamente a un genere di meccanismo ben preciso: "che riguarda i social media, gli algoritmi del dot-com e gli utenti di Internet."

Contrariamente al suo uso nel discorso informale, il meccanismo delle filter bubble non è puramente algoritmico: lo psicologo Leon Festinger aveva già osservato i suoi effetti qualche decennio fa, nella sua teorizzazione della dissonanza cognitiva. La dissonanza cognitiva è, senza dubbio, il risultato che il superamento delle filter bubble desidera produrre. Il desiderio di "scoppiare" le bolle si fonda sull'idea che scoppiarle corrisponda a un processo di rilascio informativo che favorirebbe lo scambio di informazioni e la libera circolazione dei dati, dati che probabilmente contraddicono le credenze di un utente solitamente rafforzate online. Tuttavia, l'esposizione a delle idee nuove e l'impegno necessario per ascoltare e comprenderle non sono la stessa cosa.

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Inoltre, il processo di "liberazione" dei dati attraverso lo scoppio delle filter bubble non tiene in considerazione il fatto che non esiste nessuna tabula rasa da cui vengono rilasciate le informazioni. Persino questa supposta tabula rasa è il frutto di una concezione ideologica. Anche nella loro forma grezza, i dati vengono prodotti da un agente e impongono quadri per la loro interpretazione, operano "scelte" sulle possibili aperture narrative, presuppongono le condizioni della loro stessa rappresentazione, assumono confini spaziali e temporali, incorporano pregiudizi inconsci e spesso si basano su decisioni editoriali che riducono le informazioni per categorie.

La bolla è una metafora di una politica di scelta esclusiva tra due opzioni: incluso/escluso, dentro/fuori; sì/no; 0/1; clicca/passa oltre. Lo stesso processo di decision-making della sfida Trump vs Hillary. Il progetto di fare scoppiare la filter bubble per superare i vincoli imposti alle informazioni è figlio di una visione tecno-utopistica in cui la semplice esposizione a informazioni alternative o argomenti persuasivi produce naturalmente un riorientamento delle opinioni. Ma questa è la reale filter bubble in cui siamo inscritti, nonché il fulcro della divisione che ha caratterizzato l'elezione presidenziale 2016 degli Stati Uniti. Di seguito, sono riportati altri esempi di questa bolla all'opera:

Super istruito, senza contatto con la realtà — Poco istruito, ignorante
Establishment — Anti-establishment
Elite, stabile finanziariamente — Lavoratore povero bianco
Idealista, femminista radicale — Razzista, fascista
Privilegiato — Con preoccupazioni economiche
Politicamente corretto — Politicamente emarginato
Ipocrita — Votante "contro il proprio interesse personale"

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In generale, queste sono le categorie egemoniche che si adattano a un sistema che si rinforza suddividendo il mondo di sostenitori di Trump vs sostenitori di Hillary in termini di identità-politiche astratte sottoposte alla logica di un sistema a due facce. Non c'è da meravigliarsi, quindi, che il numero di articoli di riflessione incentrati sui sostenitori di Trump abbia generato questa presa in giro, la quale sottolinea sapientemente come il pensare in termini di identità politiche astratte produca necessariamente altre identità astratte. Durante questa campagna elettorale, ci sono stati pochi tentativi autentici di comprendere le motivazioni degli elettori di Trump in quanto individui. Le qualità della diversità, della complessità e della varietà di opinione tra i sostenitori Trump non sono state tenute in considerazione quando le loro motivazioni non rientravano nelle categorie politiche della "preoccupazione economica," della "supremazia bianca" o del'"ignoranza." I tentativi di delineare dei ritratti politici si sono trasformati in una serie di caricature superficiali. Trumpisti riluttanti, troll, elettori silenziosi, Repubblicani della prima, opportunisti strategici che sfruttano i risvolti dell'ideologia neonazionalista, razzisti palesi—sono stati, e continuano ad essere, compressi gerarchicamente in una figura monodimensionale: il sostenitore di Trump. Una categoria tanto riduttiva nel suo scarso tenere conto delle differenze individuali quanto "sostenitore di Hillary" può esserlo per chi ha votato la candidata democratica.

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I processi di feedforward e feedback rafforzano la validità epistemica percepita di un tale utilizzo della narrazione. I dati dei sondaggi e le previsioni sulle scelte degli elettori sono modellati dalle ideologie e queste deformano a loro volta l'orizzonte delle aspettative reali. Citando ancora una volta Giancarlo Sandoval: "È qui che la struttura algoritmica della fede viene ulteriormente rafforzata da una ontologia uomo-macchina e ci restituisce esempi di gruppi e sottogruppi mappabili in base alle loro convinzioni—"se sei un liberal leggi il Guardian, se sei un conservatore leggi il Telegraph." I Democratici e i Repubblicani sono responsabili di questo processo, ma il punto ora non è tanto addossare loro delle colpe. Le filter bubble che polarizzano gli estremi di un sistema bipartitico, rendendo inconcepibile l'"Altro" precludono qualsiasi dibattito: questo è il meccanismo che ha causato il clima politico attuale.

L'esposizione a nuove idee e la disponibilità ad ascoltarle non sono la stessa cosa.

Anche per questo motivo è ironico che così tante persone, dopo l'elezione di Donald Trump, abbiano utilizzato i social media per esprimere la loro incredulità: "Chi sono questi elettori di Trump?!" "Non conosco nessuno che ha votato per Trump!" "Non riesco a pensarci! " "Sono senza parole" la reazione della sinistra è stata quella di urlare il proprio dissenso nel baratro digitale, un tentativo di perforare la cassa di risonanza per sondarne le profondità: in ogni caso, chi pensavano di raggiungere in questo modo? I vari "Come può essere accaduto?! Non conosco nessuno che ha votato per Trump!" dovrebbero costituire una lezione per coloro che hanno votato contro il candidato repubblicano. Questa lezione dovrebbe condizionare le strategie che utilizzeremo per ricostruire le nostre piattaforme politiche ormai fratturate. Lasciate che queste reazioni—la mia, tra le altre—espongano i limiti degli immaginari socio-politici adottati dalla sinistra. Fate in modo che identifichino i confini della filter bubble più grande e pervasiva della "élite liberale." Il fatto che un'ipotesi sia difficilmente immaginabile non costituisce un problema cognitivo: il fatto che un evento sia indescrivibile o indicibile non costituisce un problema di linguaggio.

Scoppiare la filter bubble on-line non dissolverà le filter bubble che ci portiamo dentro e attraverso cui vediamo il mondo. Distruggerle non serve a nulla se continuiamo a restare fissi sulle nostre posizioni epistemiche online e offline. Abbiamo bisogno di strutture per riflettere sul nostro essere-nel-mondo e, di certo, le informazioni "senza limiti" non possono fornircele. Abbiamo bisogno di una politica che possa essere rivista; una politica che consenta alle persone di incorporare e abbracciare nuove idee e prospettive senza far sì che scoppi la membrana semipermeabile che contiene quanto è pensabile. Abbiamo bisogno di una politica che incoraggi il riorientamento di pensiero piuttosto che l'ossificazione della fede. La bolla che scoppia è un'immagine di una comunicazione fallita perché sostiene l'impossibilità di comprendere le differenze: si tratta di auto-annientamento; è l'idea che i modi di pensare diversi non possono esistere che "fuori" di noi; è l'idea che i sistemi di credenze non possano essere altro che uniformi, coerenti ed eleganti.

Dobbiamo concedere a noi stessi la libertà di non dover rivendicare sempre che le nostre risposte ai problemi siano quelle corrette e la libertà di costruire visioni del mondo che contengano le complessità dell'auto-contraddizione. In quanto animali politici, dobbiamo ammettere di non capire tutto in questo determinato momento; di non poter capirlo; ovvero, di capire e non capire e via dicendo.

Concludo questa disanima esaminando delle pratiche generative, piuttosto che distruttive. L'analisi di Marc Jongen operata sulla concezione delle Filter Bubble di Peter Sloterdijk come ambienti traspiranti e psicotipologici elabora una politica simile di mobilità. Sloterdijk, secondo Jongen, sostiene la necessità di una politica della schiuma:

"A differenza della metafisica, sfera dell'essere unica e completa, in un universo di schiume come questo non c'è più alcun centro da cui—il Tutto—che in realtà non sarebbe più un intero—possa essere osservato e spiegato. Né vi è più una circonferenza che fornisca dei confini e contorni definiti per la schiuma nella sua interezza. Piuttosto, ci sono diverse prospettive e punti di vista che si spostano da una bolla nella schiuma a quella successiva, oltre alla possibilità per l'osservatore di cambiare posto tra le bolle."

Il successo che potrebbe derivare dalla creazione di ecosistemi schiumosi sembra essere stato previsto da un progetto sponsorizzato da Yahoo nel 2013 e realizzato da Mounia Lalmas, Daniel Quercia e Eduardo Graells-Garrido presso l'Universitat Pompeu Fabra di Barcellona. I ricercatori incoraggiavano "gli utenti a leggere contenuti di persone che potevano avere opinioni opposte o grosse differenze di opinioni rispetto alla loro… considerate tuttavia rilevanti in base alle loro preferenze." Il successo di questo intervento algoritmico dimostra come l'esposizione graduale e controllata a idee diverse possa rendere le persone più ricettive a considerare punti di vista alternativi: i risultati suggeriscono che "le persone possono aprirsi più del previsto alle idee che si oppongono alla loro." Un esperimento come questo dimostra come, forse, ci si può appropriare degli strumenti di selezione algoritmica dei contenuti e dei loop di feedforward e feedback che rafforzano le filter bubble per riprogrammarli. In altre parole, forse possono essere ripensati per reagire in relazione al comportamento degli utenti piuttosto che rispetto ai contenuti, in modo da trasformare le piattaforme dei social in ecosistemi che stimolano l'intersezione di visioni differenti del mondo, piuttosto che cercare di allinearle tutte in una o nascondere quelle differenti. [Naturalmente, persistono altri problemi: chi sviluppa questi strumenti? Chi codifica queste ideologie? Chi misura i parametri di engagement? Chi possiede queste piattaforme di social media?]

In sostanza: abbiamo bisogno di pensare a modi per creare delle comunità di scambio radicale e rinunciare all'idea che l'emancipazione corrisponda al fare scoppiare le filter bubble. Un modo per ottenerlo è quello di appropriarsi degli strumenti e delle piattaforme che ci vincolano nelle nostre bolle per progettare nuove piattaforme [o esercitare pressione su quelle esistenti] in modo da rivoltare la logica della filter bubble contro se stessa. Naturalmente, per far sì che dei nuovi modelli informativi favoriscano la ricettività verso nuove idee dobbiamo, in primo luogo, impegnarci in un progetto di riorientamento politico, riallineamento epistemico e comunicazione civile. L'impossibilità di portare a termine questo progetto deve costituire anche la spinta per continuarlo. Forse un punto di partenza è la costruzione di piattaforme—nella politica, nei media e nella società—intorno all'immagine di bolle-che-diventano-schiuma.