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Quella volta che sono finito a suonare 'per caso' al Festival di Sanremo

Avevo 21 anni, suonavo in una band e sono finito sul palco dell'Ariston spacciandomi per il chitarrista di Ronan Keating.
Thumbnail: l'unica immagine che ho di quel momento. Foto dell'autore

Quando capita di dire agli amici che sì, ho suonato al Festival di Sanremo, rimangono tutti piuttosto sbalorditi. "Ma dai?" è la reazione minima. "Hai suonato a Sanremo? Ma come, quando?". Ad aumentare questo effetto di sorpresa contribuisce il fatto che io, a Sanremo, ci sono pure nato. Ci sono rimasto fino alla fine del liceo e poi ci sono tornato quasi ogni anno per scrivere del Festival sui quotidiani nazionali.

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Nella storia, l'unica band di Sanremo a esibirsi sul palco dell'Ariston sono stati i Lythium, un gruppo rock d'autore. Era il 2000: riscossero il premio della critica, firmarono un contratto per la Sony e poco dopo sparirono. L'anno seguente, io sono stato il secondo. La mia storia è piuttosto strana e surreale e in un certo senso posso dire di aver trollato il pubblico del Festival. A Sanremo ci sono infatti andato come finto chitarrista di Ronan Keating: ho accompagnato in mondovisione l'esibizione della popstar di Dublino, insieme ad alcuni compagni di avventura fintamente inglesi come me, senza aver mai suonato una sua canzone.

Era l'edizione del 2001 di Sanremo. I conduttori erano Enrico Papi e Raffaella Carrà, che dopo il Festival furono criticati dalla moglie del Presidente Ciampi per la loro eccessiva volgarità. Tra gli artisti invece spiccavano i Sottotono di Tormento, i Gazosa di "www mi piaci tu", Gigi d'Alessio e soprattutto Elisa, che avrebbe vinto il Festival con "Luce."

Tra gli ospiti invece c'erano Russel Crowe, Antonio Banderas, Faith Hill, Eminem, Anastacia, i Placebo e Ricky Martin. C'era Brian Molko che fece una cosa molto punk e spaccò una chitarra contro un amplificatore. C'era Megan Gale, allora sulla cresta dell'onda per gli spot della Omnitel. E poi c'era appunto Ronan Keating, ex leader dei Boyzone. Era abbastanza famoso, ma sinceramente non sapevo chi fosse.

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Un articolo sul tema uscito per La Riviera, un quotidiano locale.

All'epoca avevo 21 anni e vivevo a Milano dove studiavo Lettere, lavoravo e nel tempo libero suonavo in una band, i Bios. Sia noi che i Lythium facevamo parte di un giro di artisti e associazioni culturali che ruotava intorno ad Angelo Giacobbe, un giornalista del Secolo XIX che era in contatto con molti discografici. Due giorni prima dell'inizio del Festival, fu proprio lui a telefonarmi. "Vuoi suonare con Ronan Keating?" mi chiese, e poi mi spiegò che la Universal—la casa discografica di Keating—cercava una band sostitutiva che potesse accompagnarlo durante la sua esibizione.

Ora, non ricordo perché la band originaria non ci fosse. Forse c'erano stati problemi, o forse Ronan Keating una band non ce l'aveva proprio tranne che per i tour. Non era nemmeno una pratica così comune, per quello che ne sapevo.

In ogni caso, anche se l'esibizione di Keatingsi sarebbe svolta in playback—come quella stessa sera sarebbe stato anche per altri ospiti come i Placebo—dalla casa discografica cercavano degli strumentisti veri e capaci, in grado di saper fingere di suonare senza che si vedesse che stavano fingendo. La scelta alla fine cadde su di me, sul batterista del mio gruppo, che lavorava in una cooperativa, e su due tizi che non avevamo mai visto prima ma che, almeno loro, campavano di musica—anche se si trattava di cover kitsch anni Settanta e Ottanta.

Accettai. L'idea di entrare all'Ariston dalla porta di servizio e di essere pagato per esibirmi di fronte a persone ignare mi affascinava tantissimo.

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Così, qualche giorno prima dell'esibizione io e i musicisti ci incontrammo per "provare" il pezzo, che ci avevano fatto avere su cd. Poi ci vedemmo con una rappresentante dell'etichetta, che cercammo di rassicurare facendo sfoggio del nostro savoir faire. E poi ci fecero avere i nostri pass e ci diedero appuntamento all'Ariston per le prove—in realtà, suonare per finta ed essere credibili non è per niente facile: magari lo spettatore da casa non nota nulla ma un musicista che ti vede due domande se le fa. Per l'occasione ci chiesero di vestirci di nero.

Quanto alle prove: ricordo un tizio della RAI che cercò di parlare con noi farfugliando qualcosa in inglese. A dispetto del nostro aspetto mediterraneo era ovvio che, visto che accompagnavamo un tizio inglese, si aspettasse che fossimo inglesi anche noi.

"Ah, ma siete italiani," ci disse con accento romano quando scoprì le nostre origini. "Disponetevi come al solito." Solo che non c'era nessun solito. Occupammo ognuno una posizione a caso, lui fece partire il pezzo e noi facemmo finta di suonare ridendo. Dopo aver finito di provare il pezzo, il tizio salì sul palco e incollò delle croci di carta nei punti che avevamo scelto. La mia era in primo piano. Ronan non c'era, ovviamente.

Lo incontrammo poco prima dell'edizione, la sera. Entrammo dall'ingresso sul retro, quello dove ogni anno centinaia di persone si affollano una sull'altra per urlare alla visione di un'auto coi vetri oscurati e, forse, qualcuno dentro—un qualcuno che potrebbe essere il loro idolo come Peppino di Capri.

Già entrare all'Ariston, col macchinone nero, fu un'esperienza. Come il backstage: c'era la Carrà, c'erano i Bluvertigo. C'era Elisa che se ne stava silenziosa, lontana e diafana. Mi sembrava una splendida baracconata. L'atmosfera era simile a quella che si creava su retropalco quando, a liceo, mettevamo in scena commedie e drammi per mostrare la nostra potenza culturale. Eravamo tutti in quieta attesa, piuttosto tranquilli anche se straniti.

Quando toccò a noi ci chiamarono alla brutta: "dentro, dentro!" Fu allora che vedemmo per la prima volta il pubblico dell'Ariston e Ronan Keating, che entrò dopo di noi e non ci cagò di pezza. Partì il pezzo—"Lovin each day," quattro accordi per tre minuti circa di durata. Si sentiva il brano in playback e sotto, più bassi, noi: la batteria, più che altro, visto che quella viene picchiata sul serio, seppure piano e con i tamburi stoppati. Forse Keating cantava, forse era in playback anche lui. Non ricordo.

Comunque "suonammo" in modo credibile. Al momento del finto assolo di chitarra mi guadagnai la scena e fui inquadrato in primo piano. Poi la base finì sfumando—cosa che sarebbe stata impossibile se il pezzo fosse stato davvero suonato dal vivo. Ronan sorrise, scambiò due battute con i conduttori, applausi, uscimmo di scena. Mangiammo al catering del Festival, ricevemmo il nostro compenso, e ce ne andammo a casa.

Malgrado la nostra "trollata" sia probabilmente passata inosservata agli occhi degli spettatori del circo sanremese—e malgrado probabilmente gli spettacoli televisivi siano pieni di trollate così, oltre che di performance improvvisate e organizzate all'ultimo che però il pubblico finisce per non notare—per qualche tempo ci ha reso comunque degli eroi locali. E ancora oggi, ogni volta che a febbraio parlo di Sanremo con qualcuno, questa storia ritorna a perseguitarmi.